Track IV - Je te voglio bene assaje


In realtà non rividi Elena a casa mia, come avevo prospettato di fare con il fremito delle prime volte.

Mi telefonò il mattino successivo alla serata in Floridiana, con voce frizzantina: – Ho avuto il permesso di mia zia per farti suonare il pianoforte a casa dei miei nonni! È un piano a coda di fine ottocento proprietà della mia famiglia da generazioni, non so quale lontano parente era un pianista – mi rivelò, tutta contenta – Puoi venire mercoledì sera se ti va, ceniamo lì insieme.

Se mi andava?!

Non era chiaro se in casa fosse compresa anche la presenza della zia o di qualche nonno, ma mi astenni dal chiedere per non passare per scostumato. Accettai alla velocità della luce e la chiamata si concluse lì.

Entrai un po' in crisi alla prospettiva di conoscere dei membri della sua famiglia così di botto, facendomi per giunta precedere da aspettative per chissà quali doti da pianista che non avevo o che non erano certo all'altezza della storia di quel pianoforte.

Ma era stato un pensiero così bello da parte sua, forse ispirato da tutte le chiacchiere sulla musica con cui l'avevo subissata fin dal primo appuntamento e di cui lei, con mio stupore, si era dimostrata genuinamente entusiasta e coinvolta.

Mi scrisse l'indirizzo di casa della zia su WhatsApp e stabilimmo che l'avrei raggiunta lì per le 19. Il nipote del proprietario del bar a Toledo lavorava con me già da qualche giorno, quindi si sarebbe occupato lui della chiusura.

Quel pomeriggio tornai a casa con una trepidazione incredibile addosso, le viscere accartocciate e i giramenti di testa. Stetti piantato troppo tempo sotto la doccia e a farmi la barba, poi indossai una camicia chiara e perfino una giacca da chiattillo nonostante il caldo infernale. Sul tragitto verso piazza Cavour mi fermai a comprare due mazzetti di fiori, sia per Elena che per sua zia.

In capa a me, mi interrogai su chi diamine fosse questo nuovo Filippo. Era sempre stato lì dormiente oppure era arrivato così, inaspettatamente, da chissà dove? Forse proprio da Nisida, il 9 maggio 2016?

Ci misi un po' a trovare il posto tra i vicoli tutti uguali della Sanità, anche se scoprii essere appena qualche vicoletto più in là della casa di Totò. Fortuna volle che, grazie alla partenza con un larghissimo anticipo, arrivassi in perfetto orario lo stesso.

"Il puntuale", un altro Filippo che non conoscevo...

Trovai il cancello del palazzo spalancato, quindi salii diretto al secondo piano saltando sui gradini a due a due, e bussai all'imponente portone di legno scuro laccato. L'assordante silenzio che ne seguì mi rese insopportabile l'attesa.

Proprio quando iniziavo a temere di aver sbagliato porta, questa invece si aprì lenta con uno scricchiolio da film ed Elena comparve sull'uscio come un miraggio. Era avvolta dall'artefatta penombra interna all'appartamento, ma riuscii a scorgere subito i capelli corti che le accarezzavano i lineamenti morbidi all'altezza del mento. Indossava un vestito lucido color cremisi stile camicia da notte, cortissimo, che le lasciava le gambe slanciate completamente nude.

Afferrò il colletto della mia camicia per tirarmi verso di sé nell'androne con una forza che non mi aspettavo potesse avere, la porta sbatté alle mie spalle e lei si scaraventò a invadermi la gola con una lingua infuocata e impaziente.

Mi feci trascinare dal momento con la stessa passione, anche se la mia testa era impegnata in contemporanea a pensare, con terrore e imbarazzo, che potesse esserci sua zia in qualche altra stanza.

Appena ebbi la bocca libera per parlare volli sapere, ancora colpito dal radicale cambio di look: – Ti sei tagliata i capelli? – perché avevo sentito dire che le ragazze cambiano taglio quando prendono importanti decisioni di vita.

– Il mio allenatore mi ha consigliato così, dice che le nuotatrici devono avere i capelli corti – fece spallucce, ma era evidente che c'era rimasta un po' male. Li portava tanto lunghi che doveva non averli mai tagliati prima di allora.

– Mi stanno male? – si preoccupò.

– Assolutamente no, sei stupenda – smentii subito, per evitare fraintendimenti – Ma... siamo soli? – aggiunsi con circospezione.

– Mia zia lavora con una compagnia teatrale, ogni settimana a quest'ora provano gli spettacoli – dichiarò lei, la sua mano mi guidò per addentrarci in casa – Quindi saremo soli per un po'... Ho fatto portare il cibo.

Passando sotto un arco dalle lussuose rifiniture in legno, entrammo nel salotto. Era un'ampia camera tondeggiante con l'antico pianoforte nero sul fondo, un enorme divano di velluto giusto lì di fianco e, al centro, un lungo tavolo con otto sedie. L'intero ambiente mi si presentò avvolto da una suggestiva oscurità, illuminato solo da grosse candele bianche e rosse sparse.

Sorrisi come un cretino: – Tu nun staje buon' ca capa... – un sospiro languido e il cuore sciolto come cioccolata, in contemplazione dell'atmosfera che aveva voluto creare per me.

Sul tavolo c'erano i cartoni della pizza di Concettina ai Tre Santi e una schiera di Peroni grandi che sembravano birilli. Elena mi ordinò di mangiare presto: – Se no si raffredda, poi mica puoi suonare a stomaco vuoto?

Durante la cena mi raccontò la storia di quell'immobile pazzesco: da generazioni e generazioni tutta la sua famiglia materna era cresciuta al Rione Sanità, in quella casa; poi sua madre si era sposata giovane ed era andata via. Sua zia, invece, vi aveva fatto ritorno solo un paio d'anni prima a seguito della morte del nonno, poiché era stata cacciata da lui in gioventù. Non feci in tempo a chiederne il motivo che, ingoiato l'ultimo boccone di cornicione ripieno, lei balzò in piedi con occhi fiammanti e mi trainò verso il pianoforte.

– Avanti, dai! Cosa mi suoni? – domandò, le spalle agitate dai saltelli sul posto.

Il mio sguardo si bloccò con penosa insistenza sull'angolo di culetto sodo che faceva capolino da sotto all'orlo dell'abito leggero, scosso da ogni suo movimento troppo esuberante.

Mi costrinsi a restare lucido.

Paonazzo e col cuore sceso sotto alla milza, ammisi che avevo scavato tra tutti gli spartiti che stavo studiando in quel periodo per trovare qualcosa di classico che mi ricordasse lei. Cercavo una melodia capace di catturare il suo modo spontaneo di essere bella, frizzante, divertente e sexy. La vidi arrossire mentre glielo dicevo e si sistemava accanto a me, di fianco alla tastiera.

Cominciai con il Valse Sentimentale di Tchaikovsky e lo cannai un sacco, un po' per l'emozione e anche, in verità, perché non ero certo a livello; ma con la consapevolezza che un orecchio poco allenato non può accorgersi di certi errori. Il mio principale obiettivo era, comunque, riuscire a trasmetterle le mie emozioni un po' rozze e goffe com'erano.

La sua espressione sognante seguiva ogni gesto delle mie mani che scivolavano rapide sui tasti. Aveva un sorriso ammirato e imbarazzato congelato in volto, che non sapevo come decifrare, anche se non mi lasciai impensierire da quell'ambiguità. Sembrava rapita dalle elaborate giravolte della composizione, in attenta analisi di quel modo contorto a base di note ballerine con cui intendevo descrivere la sua personalità briosa.

Fu durissima la lotta interna al mio cervello tra il Filippo che cercava disperatamente di suonare senza farsi deconcentrare dalla profonda scollatura sul suo seno alto, schiacciato sulla superficie smaltata del piano, e l'altra parte di me, più irruenta e carnale, che voleva balzare a morderla sul collo come un vampiro.

Tentai di distrarmi riportando alla mente quanto avevo letto su Tchaikovsky: che aveva scritto quel pezzo per il suo grande amore ed io, in un delirio di onnipotenza, lo avevo trovato perfetto per descrivere anche l'innamorata mia a cent'anni di distanza. Ne feci però un mashup introducendo Can't help falling in love seguita dalla prima strofa di All of Me di John Legend condite dall'ironica aggiunta, per stemperare il romanticismo che ormai trasudava da ogni parete, di un paio dei versi più cringe di Guagliuncella di Nino D'Angelo.

A quel punto Elena era piegata dal ridere, e pure io ridevo appresso a lei. D'improvviso mi afferrò una mano, mi tirò su dallo sgabello e si sedette sul pianoforte. Le sue braccia si protesero a cingermi il collo con un movimento fluido e sensuale che mi innescò la pelle d'oca: – Ho un segreto da rivelarti – affermò con un mezzo sorriso storto e gli occhi velati da un'ombra di preoccupazione.

Annuii per segnalare la mia attenzione. Lei mi pregò di non ridere e di prenderla sul serio, "ma non troppo".

– Io non l'ho mai fatto prima... Sono sempre arrivata fino a un certo punto senza mai sentirmi pronta a concludere – abbassò lo sguardo con timidezza palpabile, le guance che si coloravano di imbarazzo – Ora ti sembrerò una scema, dopo avertelo fatto credere così tanto.

Il Filippo vampiro iniziò a scalpitare tra le pieghe della mia materia grigia: Ma allora non si chiava stasera?, urlò. La parte più sana e realista di me lo giudicò con commiserazione, e un filo di ribrezzo, di fronte a tanta volgarità gratuita.

La pausa concitata di Elena mi sembrò lunga un secolo sebbene, di fatto, riprese quasi subito: – Il punto è che ho deciso che voglio farlo con te, ora.

I suoi pezzi di cielo si inchiodarono sui miei occhi e cercammo di leggerci dentro a vicenda fino all'ultimo pensiero: – Filippo, voglio che la mia prima volta sia con te.

Cazzo.

Quanta pressione addosso, così, bell'e buono.

Non ero un novellino, ma non mi era mai capitato in precedenza di scopare con una che fosse vergine.

Non ne sapevo niente. Ad essere sincero non mi ero mai neanche posto il problema.

– Sei sicura? – balbettai – Proprio con me, adesso?

Lei assentì con foga. Notai la profonda decisione sul suo viso malgrado fosse limpido specchio di una paura boia che io mi intimidissi e mi rifiutassi o, chissà, forse del timore che me ne approfittassi.

Per impedire che ci pensassi troppo mi spinse le mani sotto la gonna e, guidandole con le sue, iniziò a sfilarsi le mutandine.

Ebbene potrebbe suonare brutto e primitivo ma, in quelle condizioni, col movimento lento in discesa degli slip sulle sue cosce che si aprivano davanti a me... persi la testa e mi scordai di tutto quello che mi aveva appena confessato. Financo della breve angoscia e ansia da prestazione che mi aveva suscitato. Il cervello si spense definitivamente e fu quell'infoiato del mio pilota automatico a prendere le redini della situazione.

M'inginocchiai davanti a lei per lubrificarla con la lingua. L'addome allenato profumava di bagnoschiuma alla vaniglia a contrasto con il suo sapore più intimo, vagamente pungente e agrodolce, come le fragole sul punto di diventare troppo mature.

I gemiti dal volume crescente che le scuotevano il petto mi offuscavano i sensi e mi sbattevano in testa come quelle falene che si schiantano sulle finestre senza capire che un vetro si frappone tra loro e l'esterno. Avvertii risalire pure l'ebbrezza di tutta la birra che ci eravamo scolati poco prima.

Mentre la assaporavo con avidità, più soffice e calda della pizza di Concettina ai Tre Santi, le spinsi via il vestito da sopra alle spalle con tutt'e due le mani, per poi riportarle sui capezzoli irti al suo sdraiarsi con la schiena sul pianoforte. La sua pelle completamente nuda si increspò per il freddo e l'eccitazione.

Il cavallo del mio pantalone era sul punto di esplodere ma, prima di non farcela più a pensare in maniera lucida, mi informai di nuovo sulla fermezza delle sue intenzioni. Lei, un po' brusca, mi assicurò che non vedeva l'ora.

Dato che era già bagnatissima non attesi ulteriori conferme e, con le dita agganciate attorno alle sue natiche sode, mi spinsi dentro lentamente. La dimensione stretta e calda che mi accolse parve teletrasportarmi altrove, nel posto più bello che avessi mai visitato.

Elena fece una smorfia ed emise un lieve mugugno che mi immobilizzò di colpo, per sincerarmi che stesse bene. Con un cenno del capo spiegò che non era dolore, quanto piuttosto un po' di fastidio, come se l'attrito avesse centuplicato la sua forza d'opposizione fisica proprio nel punto in cui ci eravamo uniti.

Allora continuai a dondolare piano e accarezzarla ovunque, per saggiare sotto i palmi il suo corpo mentre si abbandonava e diventava sempre meno rigido.

Quando le sue braccia ricaddero molli e i suoi sospiri raggiunsero picchi tali che fui sicuro che esprimessero piacere, la presi di peso e la portai sul divano. Stesi uno sull'altra, ci scivolammo attraverso con delicatezza, come le foglie appiccicaticce che si spalmano sulla superficie delle pozzanghere dopo gli acquazzoni.

Col senno di poi, meno male che il divano era rosso.

Dimenticai di mettermi il preservativo, abbandonato nella tasca della giacca appesa alla sedia del tavolo da pranzo, ma ero così teso che non avevo dubbi di poterci mettere delle ore a venire. Al contempo, però, mi ero inevitabilmente perso nella soave esplorazione delle sue curve, in quella pungente delle sue unghie che mi scippavano la schiena, nella morsa fitta e bollente delle sue cosce. Ero sospeso in uno stato confusionale di beatitudine simile a un buon trip, anche se non fumavo da ore.

Per questo fu ancora più uno shock quando sentimmo le chiavi girare nella serratura e la porta d'ingresso aprirsi, con un deprimente cigolio.

Uscii in fretta da lei e, nel caos, venni sul divano come un coglione. Non ebbi neanche il tempo di vergognarmene che sentimmo i passi e la voce della zia nell'atrio muoversi veloce verso il salotto.

Elena raccolse in un nanosecondo il vestito da terra e se lo fece cadere di nuovo addosso. Si alzò in gran fretta per correre incontro alla zia e intercettarla sotto all'arco tra il salone e il corridoio, mentre io mi chiudevo la cerniera del jeans e mi sedevo sulla mia stessa sfaccimma nel tentativo di nascondere le macchie sulla stoffa.

– Mi avevi promesso che avresti avvertito prima di risalire a casa! – mugugnò Elena scazzatissima e ansimante, la faccia color fiamma quasi quanto il suo abitino.

– Amo', ma non è colpa mia se è da un'ora che non guardi il telefono! – redarguì la voce roca della zia con tono canzonatorio. Non diede l'impressione di essere né incazzata né contrariata, piuttosto molto divertita.

Si mosse allora verso di me e mi tese la mano in segno di saluto. Io, istintivamente, mi alzai per stringergliela; ma mi tornò subito in mente tutto quello che avevo appena toccato con quelle mani senza essermele lavate, e mi sentii in colpa.

Mi rivolse un'occhiata fulminea sul petto che mi ricordò di avere la camicia sbottonata, per cui mi costrinsi subito di nuovo giù sul divano per coprirmi e richiuderla.

– State calmi, che per me né i corpi maschili né quelli femminili hanno più nessun segreto ormai! – rise di gusto nel tornare in direzione della nipote, che era rimasta a raccogliere la sua vergogna vicino al tavolo al centro della stanza – Lo so che cosa stavate facendo fino a un attimo fa! Vi lascio il tempo di ricomporvi mentre preparo il caffè.

Ci strizzò l'occhio e sparì nel buio del corridoio verso la cucina, elaborando qualcosa tra sé e sé riguardo la "beata gioventù".

Non afferrai il suo commento sui corpi nudi, ma non mi riuscì di fare domande. Stavo ancora cercando di rimettere a posto tutti i pensieri affollati nella mia scatola cranica, bruciata dalla frenetica successione di eventi inaspettati.

Elena venne a sedersi di fianco a me e scansionò con supremo imbarazzo tutte le macchie di umori che avevamo lasciato sul velluto, immacolato per decenni fino a poco prima.

La baciai d'istinto, con i neuroni ancora in pappa di arrapamento. Che evidentemente aveva anche lei tali e quali, perché mi afferrò una mano e se la portò di nuovo sotto la gonna. Voleva che sapessi che non si era rimessa le mutandine e la brace era ancora accesa.

Con gli ormoni a mille la spinsi di nuovo lunga lunga sui cuscini, per stimolarla con le dita e divorarle il collo come se si fosse trasformata nel mio spuntino di mezzanotte.

Lei si premette una mano sulla bocca per uccidere ogni suono, occhi negli occhi un attimo prima di serrarli e gettare indietro la testa. Bell'e buono ebbe un fremito esagerato che l'attraversò da capo a piedi, a seguito del quale mi spinse via. Si accasciò con la faccia premuta sul bracciolo e aspettai pazientemente che rinvenisse, in silenzio.

Dopo qualche secondo si rimise seduta, con lo sguardo di chi è appena tornato da un viaggio mistico. Mi diede un bacio a fior di labbra, sorrise e sussurrò che era stato proprio come lo aveva immaginato.

– Spero che, almeno nei tuoi sogni, non fosse rimasto tutto 'sto schifo incrostato – scherzai sottovoce, costernato.

Rise, gli occhi al soffitto con aria sconfitta, alla ricerca di una soluzione ultraterrena: – Marò, come si toglie mo tutta 'sta lotamma...

Scoppiammo a ridere sguaiati come due scemi, aggrovigliati come se fosse la posizione vitale più naturale per i nostri corpi.

Quando la zia ci chiamò dalla cucina ci alzammo di scatto stile soldatini, per muoverci mesti mesti lungo il corridoio nel tentativo di tornare a sembrare discreti e lucidi. Elena si era messa la mia giacca sulle spalle, chissà se per il fresco o per improvviso pudore.

Ci sedemmo alla tavola con gli occhi bassi, ma la zia si rivolse ancora a noi con il tono gioviale con cui era entrata in casa e ci mise le tazzine di caffè davanti.

– Ah, Lenuccia, se tuo nonno sapesse le sconcerie che si fanno in questa casa oggigiorno! – esclamò con un largo ghigno tronfio – Quello mi buttò fuori casa per molto meno!

E giù a ridere da sola, a una battuta che in pochi altri avrebbero potuto capire lì per lì. Elena abbozzò un sorriso tiepido nell'incrociare, con intesa, lo sguardo della zia.

A guardarla meglio, non somigliava per niente alla nipote. Forse, vagamente, a sua madre sì, pure se l'avevo vista solo un paio di volte da lontano quando apriva il negozio in via Toledo, e sapevo essere bruna come sua figlia. Invece la donna che aveva interrotto i nostri bollenti spiriti era bionda, con occhi castani profondissimi, le palpebre molto basse e le sopracciglia arcuate ad ali di gabbiano. Sembrava abbastanza più anziana della madre di Elena e, quando mi aveva stretto la mano, si era presentata col nome di Letizia.

Io, che volevo essere garbato e di compagnia, azzardai l'attacco di una conversazione per rompere il ghiaccio e metterci tutti a nostro agio. E, soprattutto, per fare bella figura con i parenti di Elena.

– Lenuccia mi ha detto che siete un'attrice – menai lì, tra la domanda e l'esclamazione ammirata.

– T'ha itt buono! Io già quando sono nata tenevo il destino dell'attrice. Per tanti anni della mia vita ho recitato senza neanche saperlo – strizzò l'occhio a Elena, che mi guardò di stramacchio per leggere le mie reazioni – Fino ai ventuno anni ho recitato la mia vita nei panni di tale Gaetano, un fantoccio che faceva tutto quello che diceva papà, come quando ti suggeriscono le battute da dietro le quinte – continuò, con le movenze che tradivano la sua palese esperienza teatrale; sembrava uscita da una commedia di De Filippo.

– Poi, quando finalmente me so' sfasteriata della finzione di quella parte, ho svelato a tutti di essere Letizia e ho potuto vestire tanti più ruoli da allora, in maniera molto più libera! – annuì come a rimarcare la grande verità celata dietro quella parabola. Poi mi sorrise e si accese una sigaretta.

Non seppi più come continuare la discussione.

Da un lato, trovai pregevole che quella persona si aprisse così tanto con me, un perfetto sconosciuto, al punto da rivelarmi dettagli così cruciali e dolorosi della sua vita. Colsi finalmente il senso dei commenti ironici con cui aveva cercato di stemperare il nostro imbarazzo. Però non sapevo niente di transessualità, tantomeno nel contesto di una donna così in là con gli anni che, magari, era ben diversa da quelle che si sentono oggigiorno oppure da quelle antiche sui femminielli.

Cercai di ributtare la discussione sull'arte, che era sempre la mia ancora di salvezza: – E mo che cosa state portando a teatro?

Lei si mostrò contenta della domanda. Borbottò che, ormai, i giovani interessati al teatro sono sempre meno e che è una gran perdita per Napoli che questa disciplina ce l'ha sempre avuta nel DNA. Lodò il mio impegno per entrare al conservatorio e rimettermi in riga dopo quello che avevo combinato in passato, ma si professò preoccupata perché, in genere, è difficile uscire da certi ambienti una volta entrati.

Io la tranquillizzai, menzionando di essere un ragazzo fortunato con una madre dedicata e presente, nonché un nuovo obiettivo molto sentito. Inoltre, per quanto con certa gente i ponti non si riesca mai a tagliarli del tutto, esistono varie sfumature di grigio in cui è possibile navigare.

In quel periodo, infatti, ero ancora in contatto con tutti i ragazzi che coordinavano lo spaccio delle mie zone. Loro si fidavano di me e del fatto che non avessi alcuna intenzione di mettermi a fare il paladino della giustizia contro di loro, o chissà quale altra scemità. Ovviamente non mi spinsi troppo nel dettaglio; diedi una versione edulcorata, ma fedele a grandi linee, con la mia realtà.

La signora Letizia reagì con soddisfazione al mio resoconto, ed Elena mi prese una mano da sotto al tavolo per stringerla nella sua affettuosamente.

– Questa capa fresca, invece, s'è pensata di pigliarsi l'anno sabbatico. Ne'? – esclamò la zia, il braccio allungato a far finta di dare un pacchero sulla nuca della nipote.

– Non è un anno sabbatico, è Servizio Civile! – Elena bofonchiò di rimando.

Ma era chiaro che Letizia scherzasse e, anzi, sprizzava orgoglio da tutti i pori. Spiegò che, fin da bambina, la portava a comprare la pasta, il caffè e le caramelle alla bottega equosolidale di Piazza Cavour, lì dove lei si apprestava a fare l'anno da civilista. Era una di famiglia, in quell'associazione.

La elogiò per le sue idee solide sul mondo e sulla giustizia, anche se non le aveva ancora altrettanto chiare sulla facoltà da fare all'università.

– Sì, ma se divento campionessa come la Pellegrini avrò sempre meno tempo per studiare. Però, magari, ne acquisto di più in visibilità per fare cose buone! – rimbeccò Elena, con l'aria di chi sogna un po' troppo in grande.

– Ma sentila! Tu pensa a studiare piccere', che il corpo ti abbandona presto, mentre la testa ti può funzionare a lungo – rimproverò la donna con una punta di severità – E ora fammi sentire come suona 'stu bello guaglione, prima che si fa troppo tardi e ci vengono a bussare.

Rise, stavolta con una punta di amarezza, di nuovo in cammino verso il salotto: – Questo è un palazzo di borghesucci bacchettoni e scassacazzo!

L'aveva mascherata da richiesta, ma era evidente che non potevo rifiutarmi di suonare nonostante il disagio. Invero non ero affatto pronto a esibirmi a improvvisazione per chiunque, e avrei preferito non tornare nel salone del misfatto con quella bella poltrona tutta castigata di chiazze multicolor.

Ma Letizia insistette e stava già a metà del corridoio quando mi ricordai dei mazzolini di fiori che avevo comprato per strada, e poi abbandonato su una sedia del tavolo da pranzo.

Parve particolarmente deliziata dal gesto e guardò a lungo le peonie e le margherite del mazzetto, ne accarezzò e odorò i petali colorati con lento moto di apprezzamento: – Che gentiluomo si è trovata la nostra Lenuccia! – dichiarò con pomposità.

Fece finta di non vedere il pietoso stato in cui versava la tappezzeria che, per fortuna, era seminascosta dalla penombra, e si accomodò su una delle sedie del tavolo da pranzo. Elena si sistemò accanto a lei e io raggiunsi il posto al pianoforte un po' schiattato in corpo.

Nell'incertezza suonai la Sonata al chiaro di luna di Beethoven, che piace sempre a tutti. Con la coda dell'occhio vidi che ascoltavano incantate, scambiandosi dei sorrisi compiaciuti e complici come se solo io, in tutto il mondo, sapessi suonare un pianoforte.

Capii che il rapporto di Elena con zia Letizia assomigliava più a quello con una sorella maggiore, piuttosto che a quello che ci si aspetterebbe di sviluppare con la vecchia sorella della propria madre. Invece era una bellissima comunione di pensieri affini e saggi insegnamenti dispensati parimenti l'una all'altra. Per quella ragione aveva voluto che conoscessi Letizia addirittura prima di conoscere sua mamma.

– Guaglio', tieni 'nu bello talento – dichiarò la donna quando ebbi finito di suonare – Nun'o spreca'. In questa città l'arte è l'unica cosa che ci può salvare dalla miseria e dal rimpianto.

Mi accarezzò la guancia con sguardo materno prima di accendersi un'altra sigaretta e, una volta annunciato che si era fatto tardi, sparì oltre le tende che davano sul balcone.

Salutai Elena con un lungo bacio sul pianerottolo. Forse non saremmo riusciti a rivederci un'altra volta prima che lei partisse per le vacanze, ma ci promettemmo di fare il possibile per tenerci sempre in contatto.

Uscito dal palazzo fui assalito da una gran voglia di parlare con Teresa. Tutto quello che sapevo sulle donne lo dovevo a lei, alle sue confidenze e alle sue risposte alle mie domande scostumate. Le proposi su WhatsApp di venire a prendersi un cornetto di mezzanotte e lei dispose, poco dopo, di incrociarci a Dante. Appena ci beccammo sotto alla statua al centro della piazza, mi stupì che pure lei si fosse fatta il caschetto: – Ma che c'avete voi donne con 'sti capelli, state coordinate? – scherzai, puntualizzando che anche Elena se li era tagliati allo stesso modo.

– È colpa di Instagram – spiegò lei, lucida e onesta.

Mentre passeggiavamo verso la Merdaiola a Salvator Rosa mi raccontò del sangue che stava buttando per preparare il test d'ingresso a Giurisprudenza, che erano giorni che non usciva e non aveva visto neanche il suo ragazzo per tutta la settimana.

Poi, però, fu troppa la curiosità per la mia nuova sbandata di cui le aveva parlato anche Carmine, e cambiò subito discorso.

Le raccontai di tutte le tarantelle: Erica al bar, il bacio da Oscar, il divano 'nzevato, la zia trans, il proprietario del bar che non ne poteva più di me.

Ridemmo come due imbecilli per tutto il tempo.

Si professò felice di vedermi tornato al mio stato normale, il Filippo che era scomparso per troppo tempo. Mi sembrò uno strano punto di vista il suo, perché io non lo avevo interpretato come il "ritorno" di un Filippo che c'era prima quanto, piuttosto, come la venuta di un nuovo me che non c'era mai stato.

Lei scosse la testa: – No, Filì, io ti conosco da quando siamo nati. Tu sei sempre stato un sempliciotto. Senza offesa, eh! Sei una persona coi piedi per terra e la creatività sulle nuvole. Ti ricordi che alle elementari ti prendevano per il culo perché disegnavi? E perché ti piaceva suonare quella merda di diamonica che ci costringevano a portare una volta a settimana? Eri l'unico in tutta la scuola! – mi sbloccò così quel ricordo, con l'ilarità e il tempismo di chi sa toccare le corde giuste – Poi, vabbè, alla fine delle scuole medie hai fatto amicizia con quelli e, in licei diversi, non stavamo più tanto a contatto come prima. Ti stavi trasformando in un loro clone.

Si interruppe per ordinare un cornetto al gusto Kinder che stava già pronto nella vetrina.

– Mo si turnat', dico veramente – allargò un bel sorriso rincuorato, la mistura di nostalgia e sollievo covati a lungo le guizzò negli occhi – Bentornato, Lillo.

In effetti, non ricordavo neanche quando era stata l'ultima volta che mi ero sentito bene in quel modo. Mi pervase la sensazione di aver attraversato un lungo tunnel, come la gente che ritrova la luce prima di uscire dal coma. La "luce", per me, era arrivata con la fine della latitanza del vero Filippo, il tuning su un ritmo di vita più lento, su quello che mi appassionava davvero, il definitivo allontanamento da situazioni che mi mettevano solo ansia e frenesia addosso.

E poi lei.

L'incredibile, irresistibile Elena, piombata nella mia vita con la potenza di un uragano.

Finalmente chiesi a Teresa la cosa che mi interessava di più investigare dopo tutte le avventure di quella serata.

– Maro', ma senti a questo! – proruppe lei a voce troppo alta.

Mi precipitai a tapparle la bocca con una mano. Terry sbuffò a ridere sul mio palmo, mentre vi tirava sopra uno schiaffetto punitivo per essermi permesso di interromperla: – 'E pazziat' co 'na verginella, 'o sce'? Sì prop'o Sarracino!

Imprecai con sonoro disturbo: non volevo che parlasse di Elena in maniera così volgare. Lei seguitò a sbellicarsi, ma abbozzò delle scuse. Ovvio che stesse pariando e non c'era nulla di male. Anzi, disse che non vedeva l'ora di conoscerla, che sembrava una persona interessante e seria ed era contenta che, finalmente, avessi trovato "una così".

Poi mi spiegò che la perdita della verginità è diversa per ogni donna: ad alcune fa malissimo mentre altre non sentono niente. Quindi, stando al mio resoconto, era andata bene e non c'era da preoccuparsi.

– Però tu non devi inguaiare le guaglione, Lì! Il preservativo te lo devi mettere – mi rimproverò con tono improvvisamente serio e grave – Ci sono volte che Francesco si secca e se lo leva mentre lo facciamo. Io divento una iena, ma iss nun impara. Perché per voi è tutto facile, vi interessa solo massimizzare il piacere, mentre nuje ce 'nguajamm a vita pe' 'na strunzat 'e chest.

Abbassai lo sguardo e pensai a mamma.

Lei si era rovinata vita e carriera per fidarsi di quella capa fresca di papà che se la scopava a cuor leggero mentre era il professore suo. Capace che pure lui era uno di quelli che si toglieva il preservativo a un certo punto, perché gli dava fastidio. O magari non se lo metteva proprio, perché tanto "ci si ferma in tempo".

E così ero uscito fuori io.


_________________

*DESCLAIMER: come dice Teresa, la prima volta è diversa per ogni donna. Ho provato a raccontare in modo romanzato un modo simile a come lo è stata PER ME, che non vuole essere rappresentativa di quella di ogni altra donna. In ogni caso, visto che la sessualità femminile è sempre argomento di accesi dibattiti e mitologie, mi sento di sottolineare una cosa: dal testo si evince che Elena raggiunge l'orgasmo non mediante la penetrazione ma grazie al "lavoro di mano", a cui è già abituata perché (come la maggioranza dei 18enni) si masturba ed esplora il proprio corpo per prenderne familiarità. Lungi da me invalidare le esperienze sessuali di tutte quelle donne la cui prima volta è invece dolorosa e traumatica, o che non hanno la stessa intimità con sé stesse.



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