Track II - Gaiola Portafortuna


Poi venne il mio fottutissimo diciottesimo compleanno, due giorni più tardi. Mi organizzarono una delle feste a sorpresa meno gradite della storia del mondo, visto che tutto mi andava di fare fuorché festeggiare, quindi nulla da riportare al riguardo se non il mio infinito scazzo.

Le uniche cose belle della giornata furono due dei regali che ricevetti: Adobe Audition e nientemeno che una tastiera elettronica Roland JD-XA. Rimasi a guardarla per giorni senza crederci, e la toccai il meno possibile, perché il solo fatto di respirarle vicino mi sembrava potesse rischiare di scassarla.

Era il premio da parte di mio padre per aver superato la fase "figlio degenere" ed essermi proiettato, col desiderio di frequentare il conservatorio, a diventare il figlio "artista eclettico" che magari aveva sempre voluto.

Mi accorsi che anche mia madre provava del timore reverenziale e ammirato per la mia nuova tastiera ma, forse, più perché rappresentava il fatto che avessi finalmente qualcosa di meglio dello spaccio su cui buttare il mio tempo. Ma aveva occhi sinceri quando si disse orgogliosa che volessi mettermi a studiare musica sul serio, al di là di quanto avrebbe potuto restituirmi in prospettive professionali.

Venne quindi il fatidico momento della maturità. A pensarci meglio, col senno di poi, il fatto che abbia questo nome suona abbastanza ridicolo. L'unica cosa che la mia memoria fu capace di immagazzinare, della tesina sul tardo '800 scritta senza troppa attenzione, furono l'origine dell'espressione "è successo un quarantotto" e il disastro causato dai coloni che portarono i conigli in Australia.

Comunque raccattai un dignitoso 78 perché, nonostante la media indecente in tutte le materie, feci un figurone alla prova orale d'inglese. Paradossale che fu grazie all'essere stato chiuso in cella con ragazzi stranieri per tutto l'anno precedente.

Teresa, come tutti si aspettavano, uscì con 100 e già lanciatissima verso Giurisprudenza. Carmine continuò a faticare alla pizzeria dove lavorava sua madre tale e quale a prima, anche dopo la conquista del sudato diploma alberghiero.

Nel frattempo avevo iniziato la fatica al bar in via Toledo del conoscente di mamma, un settantenne con una panza esagerata che lo rendeva un abile sfidante delle leggi della fisica per tenersi in piedi. Tutto sommato era simpatico, anche se dal braccino corto, ma riuscii a strappargli la concessione di farmi litri di caffè gratis durante la prima settimana, con la scusa di imparare a usare la macchinetta. In pratica l'unica cosa che mi permise di tirare a campare per tutto il tempo che non potevo fumare.

Facevo fare al locale una gran figura, di cui il proprietario si complimentò spesso con mia madre, perché parlicchiavo con i clienti turisti in inglese e francese. Pian piano stavo imparando pure lo spagnolo, a furia di quanti ne venivano da Barcellona. Purtroppo non comportò alcun aumento in busta paga: si sa, gli imprenditori si rifanno esclusivamente agli studi secondo i quali gli impiegati hanno solo bisogno di più sorrisi e pacche sulle spalle.

I dipendenti dei negozi circostanti venivano di frequente a prendersi il caffè da noi, se non già dalla mattina almeno dopo pranzo, e mi ero fatto delle amicizie interessanti.

Anche se avevo deciso di non avere storie per un po', dopo il dramma con Erica, c'erano tre commesse del negozio di Carpisa di fronte a noi che mi lasciavano abbondanti mance e sguardi maliziosi ogni volta che passavano a fare aperitivo dopo il turno. A essere sinceri non avevo fatto caso nemmeno a che faccia avessero finché una di loro, un caldo pomeriggio di fine luglio, non prese a litigare ad alta voce con il proprietario seduto alla cassa.

Il motivo era che i prezzi scritti sul menù stampato non erano stati aggiornati da quando "ufficiosamente" avevano subito un aumento di cinquanta centesimi. Ora lei, com'era sacrosanto, andava trovando di pagare quanto aveva letto sul menù al tavolo invece che quanto le era stato chiesto alla cassa.

Il proprietario era inamovibile. Mi lanciò un'occhiata spazientita in lontananza, per ordinarmi di fare qualcosa.

Mi avvicinai con poca voglia, fino al momento in cui non notai il portamento dritto e allenato della figura snella che sbatteva i pugni sul registratore e, quando si voltò verso di me, due occhi straordinariamente azzurri.

– Posso dare una mano? – chiesi con garbo.

– Non mi sembri uno che si sa fare bene i conti – rispose la ragazza, algida, ma con una punta di ironia nel tono.

– Forse quello no, ma io pe' me pigliá 'a questione ch'e femmene belle tengo nu talento – azzardai la battuta, con un sorriso ammiccante.

In quel mezzo secondo di silenzio il proprietario alzò gli occhi al cielo, scocciato dalla posteggia che mi stavo facendo senza pudore sotto ai suoi occhi o per il fatto che potesse non risolvere il problema per cui mi aveva chiamato. Anzi, aveva tutto il potenziale per aggravarlo.

Le compagne della tipa presero a ridere convulsamente e scambiarsi timide occhiatine d'intesa.

– Non è lusingandomi che potrete estorcermi di più per la stessa roba che pagavo meno la settimana scorsa – continuò lei sul piede di guerra.

Comunque legittimo, pensai io, aveva ragione.

– Senti a me, mo ti impacchetto un bel babà alla fragola per smaltire l'acidume, e non ce lo devi pagare. Così appariamo e stiamo a posto coi conti – andai proprio così, a manetta, come se il locale fosse mio e avessi potere decisionale su quello che ci stava dentro.

Ma il proprietario non si oppose, quindi la palla passò di nuovo alla cliente inviperita.

– In tal caso non me lo stai mica regalando. Lo pago con i soldi in più che mi volete spillare per lo stesso spritz che aveva un altro prezzo fino a qualche giorno fa – rimbeccò lei, ancora una volta con una logica impeccabile.

Comm'è tosta 'a piccerella.

– Allora, visto che sei una guagliuncella sveglia che sa fare bene i calcoli, ti omaggio io del mio tempo questo sabato. Così, magari, insegni pure a me come si battono gli scontrini giusti.

A quel punto credetti di essermi menato davvero troppo baldanzoso e, dato che l'avevo vista bella piazzata, mi aspettavo pure un sonoro pacchero in faccia.

Invece lei alzò un sopracciglio e si ammutolì. Dopo qualche secondo prese un bigliettino tra quelli promozionali impilati all'angolo della cassa, pescò una penna dalla tasca frontale del suo zaino e mi ordinò di scriverle il mio nome e numero di cellulare, che poi si sarebbe fatta sentire lei.

Rimasi piacevolmente colpito da quell'interazione così old style, dalla sua dignitosa testardaggine e dal modo in cui riusciva ad avere subito il controllo sulle cose. Forse valeva davvero la pena spendere il mio unico giorno libero con quella sconosciuta.

***

Nei giorni seguenti fui colto da leggeri sussulti ogni volta che ricevevo un messaggio sul cellulare. Risi di me stesso, perché non immaginavo che mi sarei mai ridotto ad avere il batticuore nell'attesa di una ragazza di cui non conoscevo neanche il nome.

Di cui, a dire il vero, non sapevo niente di niente.

La cercai più volte da lontano con lo sguardo dentro alla bottega di borse, ma non mi sembrò di scorgerla mai, anche se le sue amiche faticavano quotidianamente lì dentro. Chiaro che non avrei mai chiesto loro dove fosse finita la compagna perché sarebbe sembrata una cosa da sfigati e, magari, avrei anche perso per sempre l'occasione di farmi richiamare da lei.

Provai a non pensarci, ma mi scoprii malinconico, un po' come se già mi mancasse. Ma pure come se mi servisse una ragazza "nuova", non tanto per dimenticare Erica quanto per riacquistare fiducia in me stesso e, soprattutto, nel genere femminile.

Avevo sempre trovato le ragazze col carattere forte molto attraenti, ma con Erica era andata male perché avevo scambiato la sua vanità e altezzosità per forza di carattere. Mi serviva ben altro per capire cosa volesse dire stare con una che mi tenesse testa davvero senza essere viziata, montata e saccente.

Una domenica pomeriggio di un paio di settimane dopo, mentre guardavo per l'ennesima volta le repliche di How I Met Your Mother su Italia1, una chiamata da un numero che non tenevo salvato raggiunse finalmente il mio cellulare.

Fissai lo schermo con trepidazione per qualche secondo, poi ebbi paura di non fare in tempo a prendere la telefonata, quindi mi catapultai a premere il pulsante verde.

Dissi: – Pronto? – con palpabile esitazione. Se la domanda fosse stata rivolta a me, avrei detto di no.

– Sei Filippo? – chiese la voce all'altro capo della linea.

Risposi subito di sì nel riconoscere la voce della ragazza incazzosa del bar.

– Ti ho chiamato per essere sicura che mi avessi dato veramente il numero tuo, e non di qualche altro stronzo – dichiarò con tono solenne.

Oltre all'essere un'attaccabrighe, era pure una detective provetta. La cosa mi strappò una risata ammaliata; era proprio sveglia e interessante.

– Sono io. Non avrei avuto motivo di prenderti per il culo, tanto sai dove lavoro e mi avresti ritrovato lo stesso – rimbeccai, senza riflettere sulle giustificazioni fin troppo serie addotte.

– Ah, solo per questo? – ridacchiò lei, con quel nervosismo generato dall'incertezza.

Non avevo intenzione di essere cattivo, mi ero solo difeso di getto. Sperai non ci avesse creduto.

– Comunque scusami se non ti ho potuto chiamare prima, ma sono ancora interessata a darti ripetizioni di economia e commercio – scherzò.

Potevo avvertire un brillio d'eccitazione accendersi nei miei occhi senza neanche guardarmi allo specchio, e mi sentii un cazzone. Mi tornarono in mente la sua schiena larga e i lisci capelli castani, così lunghi da sfiorare la mezza chiappa soda lasciata scoperta dal pantaloncino cortissimo.

Deglutii con troppa veemenza. Ci stavo mettendo troppo a rispondere: – Quando vuoi tu, allora – arronzai, giusto per spezzare le attese.

Sopraggiunsero dei rumori in sottofondo alla chiamata e lei sembrò avere un'improvvisa fretta di chiudere la discussione.

– Va bene, ti mando un messaggio più tardi – tagliò corto.

Colto da un lampo di lucidità mi ricordai di non sapere neanche il suo nome e mi affrettai a chiederglielo prima che mi attaccasse il telefono in faccia.

Lei sembrò colpita dalla domanda. La sentii ridere con un po' di timidezza e sollievo nella voce.

– Salvati questo numero, sono Elena.

***

Mi arrivò un messaggio su WhatsApp poco dopo. Proponeva di vederci il sabato successivo per andare a mare alla Gaiola, visto che faceva troppo caldo per stare in giro in città.

Ragionevole, oramai era agosto e il centro storico era diventato peggio di una camera ardente. Mi sembrò anche una mossa audace andare al mare insieme al primo appuntamento, quasi quasi non ci eravamo neanche mai visti coi vestiti addosso.

Bene così.

Passai il resto della settimana a raccogliere informazioni su di lei. Grazie alla ricerca web del numero di telefono avevo trovato il suo profilo Facebook e mi ero messo a scorrere le foto e i dati pubblici. Dieci anni fa sarebbe sembrata una cosa da stalker, forse, ma oggigiorno parrebbe strano non farlo quando si è interessati a una persona... no?

Scoprii che era appena uscita dal liceo scientifico (brava in matematica!), abitava in zona Montesanto vicino al Parco Ventaglieri, sognava di diventare la nuova Federica Pellegrini e sua madre era la responsabile del punto vendita Carpisa a via Toledo. Ma lei non ci lavorava dentro. Quindi era quello il motivo per cui, nonostante quel giorno fosse venuta al bar con le commesse del negozio e l'avessi scambiata per una di loro, poi non l'avevo più adocchiata nei paraggi.

Ebbi un po' paura che quella novità mi distogliesse dallo studio preparatorio per l'ammissione al conservatorio. Mamma, però, stava già pronta a salvarmi dai miei prevedibili sbandamenti e fece di tutto per evitare di perdermi per strada. Trovò un accordo con papà per portarmi, una sera a settimana, a casa di un cristo che doveva essere stato un padre eterno del pianoforte nel secolo scorso, ma che era finito a dare lezioni private ai ragazzetti in un polveroso studio a piazza Amedeo.

Il sabato successivo pregai Carmine di prestarmi la sua vespa per la gita al mare, gli promisi mari e monti anche per finta, giusto pe' pazzia'. Alla fine accettò.

Arrivai sotto casa di Elena con mezz'ora di anticipo. C'era da aspettarselo, dato che mi ero addirittura alzato all'alba per fare meno di dieci minuti di strada da casa mia alla sua.

Decisi di sfruttare il tempo per prendere della roba da colazione al bar, invece che stare impalato sotto al portone come la testa di cazzo che ero.

Iniziai a sfondarmi di caffè al bancone per conto mio, prima ancora di prendere quello da asporto. Poi mi piazzai un quarto d'ora davanti alle paste, per viaggiare con l'immaginazione su cosa avrebbe potuto piacerle. Ma, siccome non ne avevo la più pallida idea, finii col prendere due sfogliatelle frolle e due ricce, per ogni evenienza.

Lei, quando venne giù e le vide, scoppiò in una risata imbarazzante.

– Ma secondo te, con questo caldo, mi metto a mangiare sfogliatelle a colazione prima di andare a mare? – esclamò.

Farfugliai qualcosa che non ricordo a mia discolpa. Mi sentivo già un idiota da quando mi ero alzato dal letto, e quell'ennesimo errore non aiutava a risollevarmi il morale. Avrei dovuto sospettare che un'atleta avesse un regime alimentare tutto suo. Tuttavia sembrò apprezzare almeno il caffè e la vespa, che trascurai di puntualizzare non fosse mia, e così ci avviammo finalmente verso la Gaiola.

Il suo seno piccolo e sodo mi si spalmò sulla schiena, l'odore fruttato del suo shampoo mi raggiunse dal retro del motorino, ed ebbi il serio timore di farmi il durello prima ancora di iniziare la giornata. Ma la depressione per tutte le cazzate che avevo impilato fin da prima mattina, e che mi avevano reso ancora più teso di quanto non fossi mai stato a un primo appuntamento, mi scatenò un carosello di pensieri bui che mi inibirono l'eccitazione. Tra l'altro, era da più di un anno che non guidavo e c'avevo l'ansia di buttarci entrambi sotto una macchina alla prima curva di un vicoletto troppo stretto.

Durante il tragitto mi rivelò degli allenamenti di nuoto intensi che l'avevano impegnata nelle ultime settimane, ragione per cui non aveva potuto chiamarmi prima, e mi confidò all'orecchio che il pensiero di rivedermi l'aveva motivata a fare ancora meglio.

Mi parve una cosa fin troppo carina da dire a qualcuno che si conosce appena, eppure mi scaldò il cuore di tenerezza e mi fece arrossire un po' troppo vistosamente.

Cercando parcheggio ci sperdemmo per un quarto d'ora vicino agli scavi archeologici, finché non fummo scacciati in malo modo da un guardiano decrepito con l'accento di Torre Annunziata che pareva appena tornato da un safari in Africa.

Infine, sulla spiaggia, trovammo il solito manicomio di gente e bambini che correvano ovunque. Piazzammo le tovaglie sotto al sole cocente, visto che non c'era un centimetro di ombra neanche a pagarla ed eravamo sprovvisti di ombrellone.

Elena indossò con nonchalance degli occhiali scuri da navigata star di Hollywood, decisamente troppo grandi per il suo visetto tondo, ma che le davano un'aria molto accattivante.

–L'acqua è il mio elemento! – urlò, prima di scaricare il vestitino per terra e iniziare a correre velocissima verso la mite distesa blu, per non bruciarsi i piedi con la sabbia rovente.

Mi approcciai alla riva con calma, solo dopo aver arroccato tutte le nostre cose in modo visibile dal mare così da poter controllare che nessun guaglioncello ci rubasse niente.

L'acqua era brodo e le onde basse, con il consueto leggero strato di munnezza spumosa bianca sulla superficie. Non ero del tutto convinto di voler davvero fare il bagno, ma lei mi strattonò un piede a sorpresa e persi l'equilibrio; caddi rovinosamente di culo a pochi centimetri dal bagnasciuga.

Mentre annaspavo per cercare di rialzarmi mi si mise a cavalcioni addosso e assunse il controllo delle mie mani per posarsele sui fianchi. Con un sorriso allusivo a fior di labbra e un tono inquisitorio, ipotizzò: – Mi hai cercato su Facebook dopo che hai avuto il mio numero?

Avvampai, colpevole, chiesi il perché della domanda nel goffo tentativo di sviarla. Lei spiegò che aveva trovato il mio profilo tra quelli consigliati in "persone che potresti conoscere" il giorno dopo, e questo significava che l'algoritmo aveva rintracciato un contatto tra i nostri profili.

Non sapevo se fosse vera quella cosa, ma mi fece ridere il fatto che le avessi dato della detective dopo quella telefonata e che ciò andasse a rinsaldare quell'immagine di lei nella mia testa.

Quel pensiero non riuscì tuttavia a distrarmi abbastanza da quanto fosse liscia la pelle dei suoi fianchi, e dal fatto che avevo le dita a pochi millimetri dai fiocchetti che le tenevano il pezzo di sotto del costume allacciato addosso. Quando avvertii la temuta erezione in arrivo, la spostai di peso e mi allontanai di mezzo metro, evitandomi un'altra bella figura di merda.

Per deviare i pensieri, annunciai che avevo portato le casse bluetooth e mi informai sui suoi gusti musicali. Ciò servì da spunto per il primo vero argomento della giornata: mi confidò di non essere ferratissima in musica ed io, per qualche motivo, la azzeccai con l'elenco di tutte le mie scoperte più recenti, dalle playlist su Spotify alla roba che stavo preparando per il conservatorio. Lei non sembrò sfasteriata, anzi, mi fece mille domande interessate che mi aiutarono a mettermi a mio agio una volta per tutte.

Per pranzo aveva portato delle grosse fette di frittata di pasta preparate da sua madre, che fecero balzare la discussione dal cibo casereccio a quello etnico, tra esperienze gastronomiche e viaggi, che ne faceva tanti per allenamenti e campionati, e io non ne facevo nessuno perché ero povero in canna.

Si sorprese allora delle diverse lingue che conoscevo, pur senza mai aver messo piede fuori dall'Italia o aver frequentato il linguistico. Fu l'occasione per confidarle di Nisida e dei ragazzetti grazie ai quali avevo praticato tutte quelle lingue.

Sentii l'impulso di dirglielo così, subito, per evitare che finisse col piacermi troppo e mi spezzasse il cuore qualora decidesse di mandarmi a cagare per via del mio passato.

Con mio sommo stupore, invece, non batté ciglio di fronte a quella rivelazione. Si limitò a fissarmi con sguardo dispiaciuto, come se non fossi stato io stesso l'artefice di quello sciagurato destino, e chiese se ne ero uscito.

Illustrai che, per come la vedevo io, non era tanto un "uscire" quanto un "rientrare".

Lei mi sorrise con dolcezza inaspettata e colsi nelle sfaccettature di cristallo dei suoi occhi una comprensione altrettanto pura.

– Hai fatto Breaking Bad al contrario – sdrammatizzò.

Se chiunque altro, con cui non fossi stato in confidenza, l'avesse messa in quei termini, lo avrei lasciato morto per terra senza trovarlo affatto divertente. Invece, professato da lei che conoscevo appena, mi strappò una fragorosa risata.

C'era qualcosa tra di noi, nel modo in cui ci relazionavamo l'uno all'altra già dalla prima uscita, che sapeva di routine, di intimità. Mi sembrava di conoscerla da una vita.

Continuammo a pazziare sul mio poliglottismo perché, per farmi bello, le cantai a memoria il ritornello della sigla di Evangelion in giapponese, il ritmo battuto coi palmi sulle ginocchia, senza avere la più vaga idea di cosa significassero le parole che avevo pronunciato. Ma feci comunque la mia porca figura e lei rise di gusto a quella mia buffa spavalderia.

Erano tante le sigle di cartoni giapponesi che conoscevo a memoria per pavoneggiarmi. Da piccolo consumavo puntate su puntate, per giornate intere, insieme a mia madre; uno dei privilegi di avere una mamma giovane.

Ma anche Elena dimostrò una certa cultura in merito e non si lasciò sfuggire l'occasione di mettersi in competizione sulle serie accumulate, e anche spararsi le pose sulla sua vasta collezione di DVD e poster cinematografici.

Lo sfrigolio del sole calante sulla pelle e il beat R&B americano sbrogliarono il nastro della giornata che volgeva al termine, e noi ne ammirammo gli ultimi bagliori sulle terrazze del Virgiliano. Quando fummo entrambi completamente drenati di energie dal sole e dal sale, la riaccompagnai a casa giusto in tempo per ora di cena.

Prima di salutarci sotto al portone, la vidi combattuta su cosa concedermi e quanto concedersi. Odiavo la pudicizia farlocca, soprattutto il fatto che fosse sopravvissuta persino fino alla nostra generazione nel cazzo di ventunesimo secolo.

Ma se voleva baciarmi doveva farlo lei.

Se lo avessi fatto io, sarebbe sembrato troppo precipitoso e non volevo darle quell'impressione. Realizzai che, al di là di quanto mi arrapasse, era così simpatica e divertente che mi sarebbe piaciuto continuare a frequentarla anche solo come amica.

– Dietro al bancone del bar sembravi il solito guappo dei quartieri, sempliciotto ma montato, invece sei veramente un bel personaggio – sentenziò, con il riflesso del lampione della piazzetta che le faceva brillare le iridi celesti per conferirle un aspetto ancora più etereo – Le ragazze del negozio moriranno di gelosia mo che glielo racconto.

Non seppi bene come rispondere a quella cosa.

Forse voleva solo farmi un complimento ma, d'altro canto, mi chiesi se avesse accettato di uscire con me più per farsi bella con le amiche che perché volesse davvero conoscermi. E allora mi domandai anche in che momento della giornata quella sua opinione di me era mutata, quale fosse stato il dettaglio decisivo a fargliela cambiare e se, a quel punto, mi considerasse abbastanza interessante da continuare a frequentarmi.

Tutto imbambolato da quei pensieri paranoici, non mi accorsi dell'istante in cui mi prese il braccio per tirarmi piano verso di sé e baciarmi gli angoli della bocca. Così sembrò che mi avesse salutato normalmente, ma era un trucco, perché le labbra si erano sfiorate.

– Grazie per oggi, alla prossima – mi sussurrò a pochi millimetri dall'orecchio.

Temetti di restarci secco sotto ai colpi della combo di pelle d'oca e batticuore improvviso che mi provocò in quella breve manciata di secondi.

Poi incurante o del tutto incosciente dello stato confusionario in cui mi aveva sprofondato, sparì dentro al palazzo.




____________ Pillole di Napoletano:

Andare trovando = pretendere

Pazziare = scherzare

Vrenzola = donna grezza, giuliva

"Io pe' me pigliá 'a questione ch'e femmene belle tengo nu talento" = ho il talento di litigare con le belle ragazze

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