Track I - Nove Maggio
Il 9 maggio 2016 il cielo incombeva plumbeo su Nisida.
Il mare scivolava aggressivo lungo la costa di Bagnoli e la temperatura non era quella che ci si aspetterebbe da una mattina di primavera napoletana, ma il mio petto era comunque scaldato dall'affettuoso sguardo di Teresa che mi aspettava all'uscita del penitenziario.
L'ultimo ricordo che avevo di lei, risalente a poco più di un anno prima, era il pugno in faccia che mi aveva dato senza troppa forza, indebolito dai singhiozzi scatenati dalla sentenza di condanna.
In quel momento, invece, era fortissimo l'abbraccio in cui mi stava avvolgendo.
– Non hai portato neanche un ombrello, ja', mo ci si bagnano i capelli – la rimproverai con mezzo sorriso, per smorzare l'imbarazzo e l'emozione.
La mia migliore amica scosse i fitti ricci neri con noncuranza e la sua mano gentile avvolse la mia per guidarmi verso l'auto.
– C'è tuo padre in macchina qui dietro, per questo non l'ho preso – si difese.
Era lunedì, quindi sapevo che mia madre non sarebbe potuta venire a prendermi a causa del lavoro. Non che mio padre non faticasse, ma è ben diverso quando sei un barone universitario con decine di assistenti sottopagati e costretti a espletare le mansioni al posto tuo.
Non nascosi il fastidio nel salutarlo, mentre prendevo posto sui sedili posteriori e lasciavo che fosse Teresa a sedersi davanti, così da evitarmi di stare fianco a fianco con lui.
Durante la detenzione si era saldata ancora più forte in me la convinzione che mio padre continuasse ad appallarmi solo perché ero il suo unico figlio maschio. Non aveva cercato alcuna comunicazione con me per tutto il periodo in cui ero stato dentro, nonostante fossero gli avvocati suoi a seguire il caso. E quasi ci avevo creduto di essermelo finalmente tolto dalle palle, dopo l'insostenibile scoperta di avere un figlio degenere non adatto al rango della sua famiglia.
– Com'è andata, Filippo? Ti sei fatto crescere la barba? – esordì il vecchio, come se fossi tornato da una gita di piacere, scrutando il mio riflesso sullo specchietto retrovisore mentre accendeva il motore del SUV. Quell'ultima frase la avvertii più come una critica che una domanda.
Non risposi.
Teresa rise senza troppa convinzione.
– Gli dà un'aria più matura – mentì con candore.
Lasciai morire lì la conversazione per tutto il tempo che impiegammo a uscire dall'imbottigliamento del tunnel di Fuorigrotta. Persi invece lo sguardo oltre la Stazione Marittima e lungo il cantiere infinito attorno al Maschio Angioino, immaginando l'effetto che mi avrebbe fatto scatafasciarmi sul letto mezzo scassato della mia stanza senza porta, ma che almeno era solo mia.
Arrivati all'angolo con le scale di Rua Catalana mi catapultai fuori dell'auto, chiusi la portiera alle mie spalle senza aspettare che papà finisse di invitarmi a prendere non so cosa non so dove per il mio compleanno, e mi bloccai un attimo a contemplare le lanterne di rame che pendevano dai palazzi della mia via, per la prima volta senza sentirle del tutto "casa".
I miei compagni di cella nei 365 giorni precedenti erano stati un mio coetaneo di via Foria e due ragazzetti neri che avrei giurato essere molto più piccoli di me (sebbene tanto più alti) con i quali ero riuscito a praticare quel poco di inglese che avevo acquisito alle scuole medie e, addirittura, imparare un po' di francese.
Mi parve di aver vissuto in un microcosmo, crocevia di tante cose che non conoscevo e che alla fine avevo fatto mie, tanto da aver smesso di credere di appartenere al quartiere Porto più di quanto non appartenessi al golfo di Melilla da dove erano venuti quei due.
Teresa interruppe il mio flusso di pensieri quando intrecciò di nuovo le sue dita alle mie per tirarmi verso le scale.
– Uè uè, siamo diventati lenti dopo tutti questi mesi di ritmi controllati, eh? – quasi strillava, la mano libera impiegata a sventolare a un centimetro dal mio naso per ridarmi focus.
– E scusa, Tere', dammi il tempo di capire dove sto – sibilai, con un po' troppa serietà.
Quando entrammo in casa ebbi la sensazione di essere fuori posto. Non riuscivo a riconoscere la maggior parte dei mobili, della disposizione dell'arredamento, persino il frigorifero mi sembrava troppo pieno per gli standard che ricordavo.
La mamma aveva lasciato sul tavolo un vassoietto di paste con un biglietto su cui si leggeva solamente "BENTORNATO" a penna blu, ma che potevo avvertire anche da lontano quante lacrime calde aveva assorbito mentre veniva scritto.
Dato lo smarrimento iniziale, decisi di non andare subito a vedere camera mia, ma già avevo notato che il telo a copertura dell'arco d'ingresso era stato sostituito da una piccola porta non del tutto a misura.
Teresa iniziò a scartare le paste per accaparrarsi l'unico babà della composizione, mentre io lasciai cadere la mia roba in un angolo della cucina e afferrai d'istinto la moka sui fornelli per fare il caffè.
Nel surreale momento di silenzio che si era venuto a creare, iniziai ad avvertire l'insistenza della vibrazione del cellulare, smosso dal bombardamento continuo di messaggi protrattosi per tutta la mattina. In un breve istante di illusione, un'idea che non avrei voluto avere mi attraversò da tempia a tempia; tirai fuori il telefono e inorridii di fronte al caos di notifiche sul salvaschermo.
Ma nessuna di quelle proveniva da lei.
– Erica è ancora in Erasmus, sai, ha esteso di altri sei mesi – Teresa fece sfoggio del suo innato superpotere di leggermi i pensieri dal cervello prima ancora che i miei neuroni li fabbricassero. Impossibile nasconderle qualcosa.
Non le feci notare che, come al solito, chiamava "Erasmus" il programma per liceali che in realtà sarebbe "Intercultura". Anzi, non risposi affatto, nel vano tentativo di riconnettere le idee derivanti dai miei soliti vaneggiamenti subconsci.
Erica aveva allungato il periodo di studio all'estero perché sapeva che tanto io stavo dentro? O lo aveva fatto perché aveva conosciuto qualcun altro a Madrid? Mi accorsi che il dolore al petto tornava bello potente anche a distanza di un anno, quando pensavo a lei. L'ulteriore paura di ritrovare sue o nostre vecchie foto mi tenne ancora più lontano da camera mia.
Quale che fosse la ragione, le tempistiche davano comunque il suo ritorno prima dell'estate; significava quindi che avrei avuto troppo poco tempo per riabituarmi al mondo di fuori senza il rischio di incontrarla da qualche parte.
– Tu, invece, niente scuola oggi? – sdrammatizzai con un ghigno, perché sapevo benissimo di rivolgermi alla rinomata secchiona del Genovesi.
– Mi sono fatta interrogare apposta venerdì, non rompere! – confermò lei stessa i miei sospetti con un mugugno.
Le porsi la tazzina di caffè fumante e spostai il barattolo dello zucchero sulla tavola.
– Ho sentito che hai potuto continuare a suonare – virò il discorso altrove, quasi come una domanda.
Avevo tagliato di proposito i contatti col mondo esterno per tutto l'anno, anche quelli permessi. Però tornare a parlare così con Teresa dopo dodici interminabili mesi non sembrò strano, anzi, avevo la sensazione di averlo fatto anche il giorno prima e quello prima ancora, senza pausa alcuna.
D'istinto azzardai una riflessione che non avrei mai condiviso ad alta voce con nessun altro, se non con Terry: – Mi sono sentito meno prigioniero quest'anno a Nisida che l'anno scorso con Erica.
Lei abbassò gli occhi per un attimo, poi si lasciò sfuggire uno sbuffo tra lo sconforto e lo scocciato.
– Lillo, io te lo dico, spero che Nisida ti porti fortuna. L'ho visto nei tuoi occhi mentre attraversavamo la strada che sei cambiato veramente – replicò così, con tono brusco e anche un po' spazientito, alla mia confessione accorata.
– Tua mamma mi ha detto che hai imparato a suonare strumenti nuovi, a scrivere musica e che hai studiato tanto per non perdere l'anno. Queste sono cose che, fino a un anno fa, non avresti fatto perché eri troppo distratto e frustrato dalla situazione con quella. Ti ricordo che sei finito a Nisida anche per mezzo suo! – concluse, tre dita ben stese sul tavolo per tenere la conta delle mie ritrovate buone abitudini.
Tuttavia non avrei mai sottoscritto quella sua critica, perché non del tutto veritiera. Sì, la possibilità allettante di spacciare ai quartieri alti la ebbi grazie alle connessioni di Erica, ma quella cosa lì era nella mia vita da prima di incontrarla e lei non era neanche mai stata d'accordo che lo facessi.
– Tere', non ricominciare... – temetti di impelagarci di nuovo nelle sue sfuriate sulla mia ex, suonava già come mille dejavù.
– No, Lillo, ormai dovresti proprio averci messo... non dico una pietra, ma proprio un macigno, su questa storia! Noi non li abbiamo mai frequentati quei posti prima, e così dovremmo tornare a fare ora. Ti avevo avvertito fin dall'inizio che per certa gente siamo solo passatempi, non persone – mise particolare enfasi sull'ultima frase, perché i discorsi di classe ci avevano sempre uniti.
– Ti ha buttato come uno straccio appena le cose hanno iniziato a mettersi male. Poi, l'anno scorso, dopo la festa di capodanno a Corso Vittorio, mi hai pure detto che ti eri sentito come se stessi diventando tuo padre per colpa sua e questa cosa ti aveva fatto stare male.
Come sempre, Teresa sapeva concentrarsi sui dettagli giusti. La sua ultima frase mi aveva riportato di strapiombo alla barocca terrazza su Corso Vittorio Emanuele, casa di papà.
Erano le 3:30, il golfo visto da lì sembrava un buco nero pronto a inglobarsi quelle improbabili stelle giallognole e troppo luminose che erano i lampioni di riviera di Chiaia.
Le affilate unghie finte di Erica, sdraiata di fianco a me sulla reclinabile, smuovevano il ciondolo della mia collana come una pendola; un dondolio che pareva quasi scandire il tempo che mancava al nostro prossimo litigio.
Con la coda dell'occhio intravedevo il resto della gente che dormiva sui divani del salotto, circondati da alti scaffali colmi di libri che ero certo stessero lì solo per fare scena, che in casa di un professore bisogna far sfoggio di tanti pesanti volumi. Quando ero piccolo, però, sognavo di riuscire a divorarli tutti. Ma ci sono troppi libri nel mondo e il pensiero mi atterriva, perché non basta la durata di una vita umana per consumare ogni opera scritta e, quando lo esposi a Erica, lei rise civettuola e fantasticò che "quando sarai professore anche tu, come tuo padre", allora avrei potuto leggere tutti quei tomi che mi sarebbero serviti per insegnare.
Rimasi di pietra nell'apprendere che lei mi vedesse in quel modo. Quello nella sua testa non era il Filippo di Rua Catalana a cui stava accarezzando lo sterno. Era un personaggio fittizio, preconfezionato della favola che i suoi genitori avevano impresso a fuoco nella sua immaginazione fin da piccola: una principessa predestinata al benessere di via Manzoni da sempre e per sempre. Poco importava che frequentasse uno straccione del quartiere Porto. Tanto poi, essendo almeno il bastardo di un barone, sarebbe potuto diventare un esimio professorone raccomandato e assicurare alla prole lo stile di vita borghese adatto al rango della madre.
Lei urlò, offesa, che era il solito film drammatico nella mia testa, "come fai a pensare a certe cose alla nostra età", che la buttavo sempre sui soldi, che stare con me diventava una fonte di stress continuo. Intanto sapeva bene quanto mio padre mi facesse schifo, che all'università non ci volevo andare e che, oltretutto, chissà come le fosse sfuggito il dettaglio che il ragazzo che frequentava era uno di giù Napoli che spacciava e rischiava la bocciatura al liceo artistico...
Teresa mi riportò al presente con il rumore della sua tazzina di caffè vuota che si era accappottata sul tavolo.
– Comunque io sto piena di compiti da fare oggi pomeriggio, quindi ci sentiamo più tardi. Fammi sapere se scendi stasera – tagliò corto e uscì in fretta da casa, lasciandomi a sprofondare da solo nella tetra prospettiva di rientrare in camera mia e trovarla stravolta come il resto della casa. Oppure, anche peggio, identica a come l'avevo lasciata: piena delle foto con Erica appese al muro.
Mi voltai a guardare quell'abbozzo di porta che mia madre aveva pensato fosse una buona idea installare senza consultarmi. Anzi, in passato mi aveva chiesto se, "ora che sei un uomo", volessi una porta vera al posto del telo che aveva sempre separato l'unica camera da letto della casa dal resto degli ambienti di salotto e cucina. Essendoci cresciuto tutta la vita con quel brandello di stoffa a stampa psichedelica come unico riparo, non lo avevo mai considerato un problema. Tanto non avevo nessuno da impressionare, mai avrei portato una ragazza in casa neanche sotto tortura, a prescindere da quello.
Mi ci vollero due sigarette, fumate con una punta di isteria sul balconcino alla francese del soggiorno, prima di raccogliere il coraggio di menarmi in camera e capire in che stato fosse.
Saranno state le aspettative folli a ingannarmi, dovute all'attaccamento alla mia stanza cresciuto esponenzialmente dopo aver passato un anno chiuso nello stesso cubicolo con altri tre sconosciuti, ma, quando infine vi entrai, tirai un sospiro di sollievo. L'unica cosa che era cambiata, a parte la porta, era un bel materasso nuovo fiammante a una piazza e mezza; tutto il resto era proprio come l'avevo lasciato. Seppur, per fortuna, senza le foto di Erica in giro.
Sulle lenzuola troneggiava un altro biglietto che riportava "Il letto è un regalo di tuo padre" con la stessa penna blu (ma molta meno commozione) del primo biglietto di benvenuto. Allora pensai che lo stronzo non avesse scelto un letto più grande a caso, ma perché a lui Erica forse piaceva persino più che a me.
Posai le borse dentro l'armadio e feci correre lo sguardo sul muro di tufo giallo dirimpetto alla mia finestra, finché non mi lasciai cadere sulla sedia della scrivania.
Che fare?
Probabile che molti si aspettassero che mi facessi vivo nelle chat di gruppo in cui mi stavano ammorbando già dall'alba di quella mattina, magari per chiamarmi una festa di ritorno in pompa magna. Ma non ne avevo neanche lontanamente voglia.
Feci per dare di nuovo un'occhiata alle notifiche sul cellulare, ma i miei occhi finirono a vagare nel vuoto. Ero sul punto di darmi per disperso e ignorare tutti per almeno un giorno o due, tanto era infrasettimanale e magari c'avevano di meglio a cui pensare.
Invece no. Squillò il cellulare proprio mentre avevo i desideri isolazionisti ancora latitanti in testa. Ma era Carmine, non potevo non rispondergli.
Esordii con un – Uè – senz'anima, poi mi ammutolii subito in attesa di sue.
– Fratm'! Ma tu 'o ver sei uscito stamattina e manco mi hai detto niente? – urlò il mio migliore amico all'altro capo della cornetta.
Non riuscii a captare se fosse incazzato o goliardico.
Nel dubbio, mi giustificai con molta calma: – Che, scherzi? Certo che c'ho pensato... Ma non ho avuto un attimo di tempo, mi è venuto a prendere mio padre fuori a Nisida... – papà fungeva sempre da carta "jolly", per cui i miei amici sapevano di dover glissare sulle altre stronzate quando lo nominavo.
Carmine capì.
– Comunque, bello, stasera ci andiamo a fare una cosa tranquilla solo io e te. Giusto per aggiornarci, che è passata una vita – pianificò, senza ammettere controbattute.
Non provai neanche ad averne, risposi: – Ok – e riattaccai. Un secondo dopo mi scrisse che sarebbe venuto a prendermi alle 22.
In quel momento sentii la porta di casa aprirsi e d'istinto corsi incontro a mia madre che rientrava dal lavoro per la pausa pranzo.
– Mammà! – la serrai tra le braccia come una tenaglia.
Lei, con le lacrime trattenute a stento, mi strinse di rimando in un goffo barcamenarsi tra me e le buste della spesa. Con voce spezzata dalla commozione mi chiese se avevo già mangiato. Guardai l'orologio, erano le 14.
– No. Hai fatto tardi oggi – iniziai a mettere a posto la roba dalle buste, piene come non le avevo mai viste prima.
– Un bambino ha vomitato per tutto il corridoio e ci abbiamo messo ore a far sparire la scia di acido. Dicono che avesse bevuto per sbaglio una medicina per donne partorienti, o chissà cosa cazzo si era chiavato in corpo – spiegò lei, con un gran sospiro di esasperazione e decenni di stanchezza accumulata a fare le pulizie in giro per tutta Napoli e provincia.
Si fermò per riprendere fiato, la mano poggiata sull'angolo della tavola per reggersi in piedi, e mi guardò con occhi tra il grave e l'ammirato: – Sembri più grande, Lilluccio. Da quand'è che non ti fai la barba?
A quel punto ne avevo già abbastanza dei commenti sulla mia barba e ancora non avevo neanche incontrato tutti gli altri amici miei. A Nisida aveva espletato la sua funzione ed era arrivato il momento di toglierla. Le assicurai che dopo pranzo mi sarei sistemato, e sembrò sollevata da quella notizia.
– Nun sì cuntenta ca' song' crisciuto, finalmente? – la sfruculiai con un sorrisetto furbo.
– La barba è cresciuta, mo amma verè se la testa ha tenuto il passo! – scherzò, pur dicendo una cosa fin troppo seria.
Cucinammo insieme la pasta coi pomodorini freschi e volle sentire ancora le storie mie, dei compagni di cella, delle lezioni di musica e tutto il resto, anche quelle che aveva già sentito.
Mi informò che aveva chiesto il favore a un amico di un suo collega, che teneva un bar in via Toledo, di pigliarmi dietro al bancone a imparare un po' il mestiere durante l'estate. La paga era talmente misera che tanto valeva farlo gratis per la gloria, ma lei stessa dichiarò che "non è tanto per i soldi", quanto per farmi capire che si possono imparare tante cose belle e diverse nella vita. In sintesi, un modo carino per sottintendere che spacciare non doveva diventare la mia strada, al di là di quanto rosee potessero sembrare le aspettative di guadagno di certi "mestieri".
Elaborai che pagare il giusto gli apprendisti non sarebbe mica un peccato del padre eterno, e nessuno andrebbe in bancarotta nel farlo. Anzi, i guaglioncelli nelle piazze di spaccio ci finiscono proprio per colpa dello schifo di mercato del lavoro che ci ritroviamo in Italia, soprattutto al sud.
Lei, sogghigno amaro e occhi a fessura, mi esortò con una mano sbandierata in alto: – E vai a fare la rivoluzione, va'! – poi finì il suo caffè e andò a stendersi sul divano a riposare prima di menarsi di nuovo tra una scuola elementare e l'altra.
Io andai in bagno a togliermi finalmente quella foresta nera dalla faccia e farmi una meritata doccia calda senza che passanti a caso mi scrutassero il pene.
Dopo ero così esausto che mi schiantai a letto come un cadavere e solo le telefonate insistenti di Carmine riuscirono a risvegliarmi, quasi cinque ore più tardi. Mi urlò all'orecchio di scendere e io ringraziai di essermi lavato prima di morire sul comodo materasso nuovo, perché non mi sentivo abbastanza lucido neanche per sciacquarmi la faccia.
Mi chiavai addosso il primo jeans che trovai dentro allo zaino e scesi giù al portone, dove Carmine sedeva tronfio sopra una bella vespa rossa dall'aria non troppo nuova, ma con lo stencil fresco di Maradona sul frontale sotto al manubrio e una medaglietta col bassorilievo del Che che pendeva dalle chiavi.
– Bella, somiglia a quella che mi hanno rubato l'anno scorso – notai con mite entusiasmo.
– Sali, tengo già le birre. Andiamo al pontile come ai vecchi tempi?
Annuii pensando che fosse una buona idea, dato che in un freddo lunedì sera di maggio era improbabile che ci fosse caos a Bagnoli. Ovviamente non potevo sapere che era in corso un evento privato all'Arenile, ma non me ne preoccupai neanche quando ci andammo a schiattare sull'ultimo metro quadro del pontile prima che si aprisse il mare scuro e burbero diritto di fronte a noi.
Guardai Nisida a poche onde di distanza, senza particolari sentimenti, solo apprezzandone l'algida bellezza. La sua forma vista dall'alto pare un abbraccio ma, se si conosce l'utilizzo dei locali che la punteggiano, il suo look acquisisce sfumature molto più ironiche che accoglienti.
Il Pontile Nord si allunga sulla stessa insenatura del golfo, quasi a farle concorrenza. Era il rifugio mio e di Carmine fin da piccoli, quando le nostre mamme ci portavano a giocare a casa della sua vecchia zia ad Agnano mentre erano a lavoro. Quante volte avevo gettato lo sguardo oltre Nisida da lì, senza sapere che un giorno non troppo lontano ci sarei finito dentro.
Il mio migliore amico mi tese una Peroni stappata e mi strizzò l'occhio, per comunicarmi che aveva inteso cosa stavo pensando e non voleva interrompere il mio flusso di coscienza. Ma non ci mettemmo troppo prima di sprofondare nei miei racconti sulla detenzione, la scuola, la musica; nei suoi patemi su Teresa, e le mezze scopate che si era concesso con questa o quell'altra ragazza della sua classe o dell'Asilo Filangieri.
Mi chiese se volessi tornare a spacciare e se avessi spaccato la faccia a qualcuno anche dentro, magari solo perché mi aveva urtato la spalla di passaggio, ma risposi di no a entrambe le cose. Non che pensassi di essere diventato meno impulsivo o che avessi bollato lo spaccio come il male di tutti i mondi perché avevo "messo la testa a posto".
Gli spiegai come l'insegnante di musica che veniva volontario a Nisida mi avesse aperto la mente su un sacco di cose che si possono fare e, forse, finalmente una cosa che mi sarebbe piaciuto studiare c'era. Non l'avevo ancora detto ai miei per la paura che scoppiassero dalla felicità prima di pagarmi le tasse necessarie ma, comunque, dovevo prima riuscire a prendermi la maturità.
Lui sembrò entusiasta e mi diede un fragoroso brofist che mi lasciò con un lieve dolore alle nocche per un po'.
Carmine non era bravo a scuola neanche per caso, ma faceva l'alberghiero ed era sempre riuscito a non farsi bocciare per miracolo. Le professoresse lo trattavano con simpatia, o pietà, più probabile, perché suo padre era morto in un incidente sul lavoro quando lui era piccolissimo. Eppure non c'erano molti altri amici con cui avrei parlato di studio senza che mi dessero del pesantone, magari per tagliare corto e continuare a parlare di calcio.
Dopo un paio d'ore di chiacchiericcio ininterrotto, iniziammo a puzzarci di freddo per via del vento che si era alzato dal golfo e decidemmo di tornare verso il motorino.
Nell'istante in cui mi ero chinato a guardare lo stencil di Maradona da vicino, mentre Carmine andava a buttare la spazzatura, sentii una voce drammaticamente familiare dall'altra parte del parcheggio.
Quando mi voltai ebbi un brivido lungo la schiena che mi arrivò a congelare pure la punta degli alluci.
Erica stava in piedi a pochi metri da me e scavava dentro la minuscola borsetta patinata che teneva appesa alla spalla. Discuteva con qualcuno che era appena entrato in una sgargiante Mustang sportiva, lato conducente, che le aprì la portiera dall'interno.
Per spostarmi dalla loro visuale urtai la macchina alla mia sinistra, che rispose alla botta con un tonfo sordo. Senza neanche voltarmi, mi menai lungo lungo dietro all'automobile, nella speranza che non si fossero girati in tempo per scorgermi.
Speranza che ritenni vana quando la sentii dire, ad alta voce: – Aspetta un attimo – un piede mosso nella mia direzione.
Di sottecchi rintracciai la figura di Carmine che tornava indietro dal cassonetto, a passo lento per accendersi una sigaretta. Se Erica lo avesse visto, avrebbe sgamato al 100% che ero io quello che si era tuffato dietro alla macchina.
– Erica, dobbiamo andare via mo, prima che torni il parcheggiatore – protestò il tipo al volante.
Era una voce familiare, forse qualcuno degli amici suoi che erano venuti alla festa di capodanno. Lei si guardò attorno con circospezione, prima di accomodarsi vicino al suo amico senza aggiungere altro. Mi passarono di fianco quando avevo fatto appena in tempo a mimetizzarmi in un tutt'uno grigiastro col muretto accanto alle auto in sosta.
Carmine si accostò al motorino, una sigaretta e un accendino di plastica verde si allungarono provvidenziali nella mia direzione: – Mi sembra di aver visto passare Erica mo mo, in macchina con quello stronzo dell'amico di famiglia che si portò quella volta che andammo al mare a Pontecagnano – affermò, già immaginava che l'avessi vista anche io.
Annuii con occhi vacui.
Lui, probabilmente, non era a conoscenza che lei fosse rimasta a Madrid tutto l'anno che io ero stato dentro; quindi non sembrò così sorpreso di vederla. Ma io un po' sì.
E, a quel punto, mi interrogai di nuovo sulla possibilità che fosse tornata in tempo per me, perché era in qualche modo venuta a sapere quando sarei uscito, oppure se era stato solo un caso... No. Figuriamoci se pensava ancora a me, quando c'aveva la fila di altri chiattilli con cui andarsi a fare le serate private all'Arenile!
Di ritorno verso il centro mi feci lasciare da Carmine a piazza Vittoria. Volevo fare due passi a piedi, ricongiungermi al mare con ritrovata prospettiva.
Ci salutammo con un breve abbraccio e gli promisi che mi sarei fatto vivo presto. Lo osservai salire verso il tunnel oltre la villa comunale e mi chiesi se fosse l'aria a essersi fatta pesante oppure la mia testa. Avevamo bevuto non più di due Peroni ciascuno, ma il vento annunciava pioggia, l'aria si appiccicava alla pelle come una pellicola di plastica e io mi ritrovai col fiatone senza aver fatto niente.
La ringhiera imbrunita dal mare ai margini di via Caracciolo mi soccorse. Col busto allungato sugli scogli per prendere una boccata di iodio, non so come, pensai addirittura che farmi un'altra sigaretta fosse una buona idea.
Invece di avviarmi verso casa, però, feci dietro-front in direzione degli chalet di Mergellina, forse alla ricerca di un cornetto caldo di mezzanotte. C'erano due gatti in croce per la strada e avvertii una strana euforia di libertà, più di quanto non l'avessi avuta quando avevo messo piede fuori dall'IPM quella stessa mattina.
Realizzai che la vista di Erica non mi aveva turbato perché ero ancora innamorato di lei ma, anzi, perché avevo paura che lei lo fosse di me e, in tal caso, non sapevo se sarei riuscito a resistere ai suoi tentativi di tornare insieme per pura arrendevolezza, lussuria o persino masochismo.
In realtà, più di una volta durante la nostra relazione, avevo avuto la sensazione che lei non fosse affatto invaghita di me, ma che volesse solo un pupazzo di bell'aspetto e dei quartieri poveri da portarsi a spasso per sembrare più figa, se non una buona samaritana. Di sicuro le piacevo, come a tante ragazze che mi trovavano bello, o perlomeno pulito, visto che non poteva dirsi lo stesso di molti altri diciassettenni del mio liceo.
A ripensarci, la nostra più grande e imperdonabile colpa condivisa fu di infischiarcene del rischio di imbarcarci in una storia già improbabile e disastrata in partenza, solo perché vittime di una fatale attrazione fisica.
Niente, i miei piedi mi avevano portato dritto in trappola e, inconsciamente, forse, lo sapevo pure. Era di fronte agli chalet che ci eravamo incontrati la prima volta, ed era lì che mi stava aspettando.
Che testa di cazzo a pensare che non mi avesse sgamato!
Mentre valutavo se fosse il caso di fingere di non vederla era già troppo tardi, perché lei mi camminava incontro come se avesse preso la mira. I grandi occhi decisi mi puntavano come un cacciatore nel bosco, il leggero vestito rosa le si avvolgeva morbido attorno ai fianchi stretti, i capelli mossi e sciolti in balia del forte vento che veniva dal mare me la faceva apparire ancor più predatrice, e un rossetto color cremisi intenso le rendeva le labbra più voluttuose del solito.
Sorrideva.
– Sono proprio felice di rivederti – sembrava sincera e, del resto, era lei che mi era venuta a cercare.
Soffiai un glaciale – Ciao – poco convinto, ma non mi spinsi oltre perché speravo che capisse l'antifona e mi lasciasse in pace in tempi brevi.
Non successe.
Le cose precipitarono.
Senza che me ne accorgessi, stavamo seduti sulla scogliera uno accanto all'altra, in uno dei punti più bui in cui riuscivo a malapena a distinguere i contorni del riflesso della luna piena sul ciondolo di oro bianco che le pendeva sulla profonda scollatura.
Mi fece domande sul carcere e raccontò di Madrid, delle sue infuocate conquiste e del suo spagnolo fluente, di com'è calda la Spagna, così tanto che Napoli le sembrava di botto fredda e insostenibile.
Per tutto il corso della conversazione mi accarezzò la mano, quasi con timidezza, ma finta, miseramente inscenata. Poi allungò quel movimento fino al mio mento perché "un uccellino" le aveva detto che avevo la barba lunga quando ero uscito, che ancora mo non so chi sia stato ma, tanto, a Napoli nessuno può mai fare un cazzo di niente senza che mezzo mondo lo venga a sapere.
Sussurrò allusiva: – Chissà com'eri sexy con quella barba – e aggiunse che la maturità che c'era nel mio sguardo si stava diffondendo nel resto del corpo, che "un uomo che è stato in carcere ne ha di storie da raccontare", poi prese a baciarmi e leccarmi dietro l'orecchio con disciplinata insistenza.
Non era affatto piacevole ma, senza neanche accorgermene, stavamo facendo sesso e io mi facevo schifo più di quanto, a quel punto, mi facesse schifo lei.
Chissà perché mi mandasse così in tilt il fatto che una guagliona mi si concedesse, al punto da finire col fare cose che non volevo per puro riflesso condizionato. Mi succedeva la stessa cosa quando andavo in freva violenta con gente a caso, per sfogo indiscriminato.
In blackout.
Chiavare con il vento e la pioggerella addosso, sugli scogli freddi, con una persona che ormai odiavo, era in realtà una punizione che avevo sotto sotto deciso di infliggermi appena me ne era stata data la possibilità.
Come al solito, riuscivo ad essere il peggior nemico di me stesso.
Quando lei fu soddisfatta si riagganciò il reggiseno e tirò fuori il cellulare per controllare che il rossetto fosse ancora a posto. Poi mi pregò di farci un ultimo selfie di addio, a dimostrazione che l'antifona l'aveva colta bene da subito ma, evidentemente, c'era ancora qualcosa in sospeso che voleva da me e che, infine, aveva avuto. Magari coronare il sogno di scoparsi un ex-carcerato e sentirsi una cattiva ragazza molto, molto cool.
– Non voglio mai più vederti, Erica. Sparisci dalla mia vita una volta per tutte.
E quella fu veramente, dannatamente, agognatamente la fine.
____________ Pillole di Napoletano:
Accappottare = ribaltare
Menare = mettersi a fare, lanciare
Chiavare = dipende dai contesti (può voler dire lanciare, introdurre, indossare, fare sesso) va dedotto dalla frase
Sfruculiare = punzecchiare
Freva = "stato febbrile" in napoletano, che può intendere confusione, fretta o rabbia
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