ᴄαᴘɪᴛᴏƖᴏ 5

C A P I T O L O 5


Era passata circa una settimana da quando incontrai Jackson per la prima volta in persona.
E da quel giorno, tutti i bambini non facevano altro se non domandarmi di lui e di quando avrebbe dato loro il permesso di visitare Neverland.
Il suo nome era un continuo nominare; a tavola, di notte e in prima mattinata.
Ed erano giorni pure per me, che non passavano senza che la mia mente non facesse un salto in un suo dettaglio.
I capelli, il sorriso, quegli occhi profondi e quelle lunghe dita affusolate.
E nonostante cercassi di cacciarlo via dai miei pensieri, ritornava ogni volta che decidevo di prendermi una pausa dalle faccende quotidiane.

Stavo sistemando la camera dei bambini, quando Lily mi venne incontro correndo, stringendo fra le proprie minute braccia la bambola di pezza che le regalai.
Si era legata molto a essa ea ogni sera, la sorprendevo seduta sul suo letto, a raccontarle della sua giornata.
Sembrava che quella fosse in grado di comprenderla, ascoltarla, cosa che non tutti i bambini riuscivano a fare.

« Kara, quando andremo a Neverland? »

Ed ecco quella solita e tormentosa domanda.
Era la stessa che veniva posta ogni due ore.
E quasi quasi avevo cominciato pure io a domandarmi, quando Michael ci avrebbe chiamato.
Erano giorni che mi ponevo la stessa domanda e giorni che aspettavo invano lo squillare del telefono, ma quest'ultimo sembrava non volesse arrivare.
Non stavo perdendo la pazienza, ma avevo soltanto paura che egli avesse cambiato idea.

La guardai per brevi secondi in silenzio, poi - sorridendole - mi avvicinai piano, abbassandomi per raggiungere la sua stessa altezza.

« No, ma sono sicura che lo farà presto » risposi, scostandole dal viso quei boccoli buffi che le coprivano gran parte della fronte.

Ella arricciò leggermente le labbra, abbassando per brevi secondi la testa, poi, rialzandolo, mi sfoggiò un largo sorriso, lasciando che una fila di dentini bianchi venissero allo scoperto.

« E tu verrai con noi, vero? » domandò, stringendo la bambola contro al suo piccolo petto.

Le rivolsi un dolce sorriso, annuendo.

« Credo che verrò anch'io. Ma se ciò non dovesse accadere, voi ci andrete lo stesso, te lo
prometto » replicai, toccandole con l'indice la punta del suo nasino.

Ella ridacchiò, stringendosi nelle spalle e quando mi alzai mi scrutò per vari secondi, allontanandosi infine verso alle scale per poi correre.
Scossi leggermente la testa e sospirai.
Era una bambina così difficile da capire, proprio come me da piccola.
Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra, osservando i bambini che si rincorrevano, urlando e ridendo per il divertimento.

Erano ancora così piccoli e indifesi e più il tempo passava, più crescevano e ben presto si sarebbero posti la fatidica domanda che io e Angie temevamo.
Avranno avuto un giorno una famiglia?
Qualcuno in grado di amarli e di prendersi cura di loro?
Non si lamentavano di avere delle giornate belle e movimentate qui all'orfanotrofio, in compagnia di altri bambini, ma di certo questi non erano in grado di sostituire l'amore di un genitore.
Non sarei riuscita nemmeno io a farlo, nonostante cercassi in tutti i modi di farli sentire parte della mia vita.
Erano molto importanti per me e questo non avrei potuto negarlo, ma non ero un genitore e non sapevo di certo come trattare un bambino da figura materna.

Chiusi per brevi lassi di tempo gli occhi, respirando a pieni polmoni, per poi riaprirli.
I raggi del sole penetravano attraverso la finestra, colpendomi in pieno viso, quasi volessero accecarmi di proposito.
Nonostante la giornata solare, la brina copriva gran parte del prato raso al suolo.
Gli alberi erano ormai spogli e i rami pendevano morti da una parte all'altra, inscenando un paesaggio malinconico.
Proprio come il mio cuore. Solo e malinconico.

**

« Pensi che il signor Jackson non abbia cambiato idea? » domandai ad Angie, mentre sradicavo dal terreno le piante ormai morte.

Ella mi guardò, accennandomi un dolce sorriso, poi puntò nuovamente lo sguardo sul terriccio dinanzi a lei, continuando ad arare con una piccola zappa ormai antica.

« Di cos'hai paura, Kara? Sono sicura che il signor Jackson è molto impegnato. Non è una persona libera, lo sai » replicò.

La guardai, socchiudendo leggermente un occhio per l'improvvisa ondata di luce provocata dal sole.

« Quindi non se ne sarà dimenticato? » chiesi nuovamente, fermandomi.

Angie mi assecondò, passandosi una mano sulla fronte ormai impregnata dal sudore e, dopo aver portato una mano ormai sporca di terriccio sul tessuto del suo grembiule giallo, mi osservò con un sorriso che non seppi decifrare.

« Insomma, non voglio che i bambini si illudono. Sai benissimo quanto questo per loro sia importante. Lo è anche per noi » mormorai, lanciando uno sguardo veloce alle piante che ormai giacevano vicino ai miei piedi.

Lei si abbassò per raggiungere la mia altezza e mi guardò negli occhi.
Spostò una ciocca dei miei capelli che andò a depositare dietro al mio orecchio e sfoggiò un dolce sorriso.

« Il signor Jackson non ci deluderà. Non l'ha mai fatto con nessuno e non lo farà nemmeno con noi, con i bambini. »

La sua voce era leggera e tenera.
Non sembrava affatto preoccupata o in pensiero.
Di solito lei era la prima che si poneva tante domande negative e senza senso, ma in quel momento, sembrava che a farsi tanti problemi ero solo io.
Perché?
Dopo un silenzio che durò qualche secondo, annuii e ricambiai il sorriso.
Dopotutto, dovevo essere ottimista; il signor Jackson mi sembrò a primo impatto un uomo onesto e di parola.
Nonostante non lo conoscessi per bene, sapevo che fosse in grado di mantenere la parola data, ma allora, perché avevo così tanta paura di non ricevere una sua chiamata?

Angie si allontanò da me e si raddrizzò nuovamente.
Afferrò saldamente la piccola zappa e riprese ad arare il terreno, come se non fosse successo niente.
Stavo per riprendere anch'io, ma la voce di Timmy mi bloccò.
Mi voltai e lo vidi correre nella mia direzione, ormai sudato e senza fiato.

« Kara, Angie, c'è qualcuno al telefono » esclamò, fermandosi con il fiatone di fronte a noi.

Portò entrambe le mani sulle ginocchia, inchinando il busto in avanti per riprendere fiato.
Aveva appena finito di giocare e lo si poteva notare per i pantaloni sporchi di terra.
Guardai Angie e lei ricambiò il mio sguardo, accennandomi con il capo di rispondere al posto suo.

Mi alzai e mi raddrizzai.
Guardai Timmy e con un dolce bacio sulla guancia lo ringraziai, per poi dirigermi - quasi correndo - dentro al grande edificio.
Non sapevo il perché di così tanta fretta. Forse non volevo far attendere a lungo la persona dall'altra parte della cornetta o forse non volevo che qualcun altro rispondesse al mio posto.
Attendevo quella chiamata.
Arrivai al lungo corridoio, dove vi era un mobile in legno scuro.
Sopra c'era il telefono che tutti noi usavamo per fare delle chiamate importanti.
Mi asciugai le mani sul grembiule azzurro, macchiandolo di terra e infine - con le mani tremanti - afferrai la cornetta e me lo portai all'orecchio.

« Pronto? »

La mia voce mi risultò quasi stridula, e mi maledii mentalmente di essere stata così precipitosa.
Chi avrebbe ascoltato la mia voce in quel momento, avrebbe di certo saputo che era ormai da tempo che attendevo quel momento.
Dall'altra parte invece non udii nulla.
Anzi, dopo secondi di silenzio, potei perfettamente percepire il sospirare di qualcuno.
Poi, una voce bassa e roca, parlò, spiazzandomi completamente senza parole.
« Pronto? Parla l'orfanotrofio Ella Austin? » domandò una voce flebile.

Pareva stanca, sforzata e la cosa non piacque affatto.

« Salve, sì, sono Kara Jones, mi dica. »

« Salve signorina Jones, sono Michael Jackson. Come sta? »

Michael Jackson.
Se prima al solo pensiero del suo nome mi causava brividi, ora, udire la sua voce mi faceva sentire strana.
Era una sensazione che mai provai in vita mia, nonostante la mia età.
Ora tremavo.

« Signor... signor Jackson è un piacere sentirla. Io sto bene. Lei...lei come sta? » domandai a mia volta, cercando di apparire sicura, ma con scarsi risultati.

Udii una risata soffocata e giurai di poter sentire le mie guance andare a fuoco.
Non volevo sembrare impacciata, ma al solo udire della sua voce, il mio corpo non ne voleva sapere di calmarsi da quel tremolio insistente.

« Sto bene, la ringrazio. Spero che Angie e i bambini stiano bene » rispose.

Si ricordava ancora del suo nome, nonostante avesse passato poco tempo in sua compagnia e nonostante sia passata una lunga e interminabile settimana.

« Oh, sì, stanno tutti bene. I bambini non fanno altro se non chiedere di Lei, signor Jackson » replicai in un mormorio.

Lo sentii sospirare leggermente, schiarendosi la voce, poi, dopo due secondi di silenzio, riprese a parlare: « Lo so e mi scuso per la tanta attesa, ma ero così pieno di impegni e non ho avuto modo di telefonare. »

Sorrisi e cominciai a giocherellare con il filo della cornetta, come una donna intenzionata a parlare con il suo più grande amore.

« Non si preoccupi. Dopotutto ci ha pensati » dissi.

Lanciai uno sguardo veloce fuori dalla grande vetrata e osservai il paesaggio baciato dalla luce del sole.
Fuori faceva freddo, nonostante ciò però, i bambini continuavano a giocare per tutto il giardino.

« Già... Signorina Jones? »

La sua voce flebile mi riempì le orecchie, mentre i soliti brividi mi percossero la schiena fino al collo, solleticandomelo.

« Sì? Mi dica » replicai.

Ci fu un breve secondo di silenzio spezzato di tanto in tanto dai nostri respiri, poi egli riprese a parlare, scatenando dentro di me un'emozione strana.

« Sarei ben lieto di accogliervi a Neverland, domani, sempre se siete disponibili. »

{Revisionato il 01.05.21}

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