Capitolo 66

C A P I T O L O 66

Erano ormai passati tre mesi dalla partenza di Michael e ormai avevo smesso di credere alle sue solite parole confortanti.
Mi aveva detto più volte di raggiungermi il più presto possibile, ma più tempo passava, più meno lo sentivo.
Non era partito soltanto per l'Italia, ma si era recato pure nella grande Germania e in Francia, per promuovere il suo fenomenale album.
Viaggiava da una parte all'altra ed io riuscivo ad avere sue notizie tramite la tv che riusciva a tenermi serena.
Ero felice di vederlo apparire allegro, ma da una parte mi sentivo ferita.
Mi mancava la sua voce, il suo modo di guardarmi, di prendersi cura di me e della sua risata cristallina.
Mi mancava tutto di lui, eppure cercavo di negarlo.
Nonostante la distanza che ci separava, anche mia madre era riuscita a notare il mio stato d'animo sul punto di sgretolarsi.
Tre mesi non erano tanti, per una persona, ma com'ero solita comportarmi, una stupida ragazzina innamorata perdeva già la speranze.
Così quella mattina, avevo chiesto a Glenda il permesso di cambiare aria, di uscire da quelle quattro mura che portavano non solo il suo nome, ma anche il suo profumo.
Mi avviai in centro città, nella grande ed affollata California, in cerca di qualcosa che fosse stato in grado di distrarmi.
Camminavo tranquilla lungo le strade gremite di persone e veicoli che sfrecciavano veloci sull'asfalto grigio.
Il sole splendeva alto nel cielo quella mattina, ma nonostante esso abbracciasse la città, l'aria fresca non voleva cedere il suo posto.
Voltai a destra, salutando con un cenno del capo, una giovane fanciulla intenta a pulire le vetrine di un negozio d'abbigliamento e continuando a percorrere la stradina, mi accorsi che non mi era per niente sconosciuta.
Mi guardai attorno, con la percezione di essere già stata in quel posto, ma la mia mente era troppo stanca per ricorrere ai miei ricordi.
Mi affacciai ad ogni vetrina, intravedendo abiti, borse e gioielli di vario genere.
Gioielli.
Continuai a camminare, voltando la testa a destra e a sinistra, ma poi mi bloccai di colpo.
Un bellissimo bracciale maschile in metallo, era posta dinanzi ad una piccola e graziosa vetrina.
Era semplice, seppur raffinata e una scritta in corsivo catturò la mia attenzione: "try to be a rainbow in someone's cloud".
Sorrisi leggermente, inchinandomi leggermente con il busto per poter osservare il gioiello da più vicino.
Era bellissimo.

« Potrei esserle d'aiuto? »

Una voce maschile mi fece sussultare per la sorpresa e prima che potessi incontrare il suo viso, egli riprese a parlare:
« Mi scusi, non volevo spaventarla. »

Sollevai lo sguardo, incrociando un paio di iridi a me familiare e solo allora realizzai in che posto mi trovavo.
Ero di fronte all'uomo che mesi fa mi aveva dato l'opportunità di incontrare mia sorella.
Ero di fronte all'uomo a cui avevo fatto un favore e senza rendermene conto mi ero imbattuta nuovamente nel suo piccolo negozio di gioielleria.

« Buongiorno, signore. Mi scusi disturbarla, ma sono molto lieta di rivederla » risposi.

Egli mi rivolse un dolce sorriso, si aggiustò per bene gli occhiali sul naso e con passi leggeri si avvicinò alla mia figura, scendendo quell'unico e piccolo gradino.

« Sarà la seconda volta che la vedo e la seconda volta che la sorprendo ad ammirare questo gioiello » parlò.

Si fermò al mio fianco e sempre con il sorriso sulle labbra, osservava il pezzo di metallo che poco prima aveva catturato la mia attenzione.
Ricambiai il sorriso, quasi imbarazzata.

« È molto bello » sussurrai.

Lui mi guardò, portando entrambe le mani dietro alla schiena.

« Per caso ha fratelli? Oppure è sposata? » domandò.

Non avevo fratelli, anche se ne desideravo uno e sposata non lo ero.
Almeno non ancora.

« Sono promessa sposa » risposi, quasi emozionata.

L'uomo alla mia destra scoppiò in una dolce risata.
Si portò una mano sul petto e continuò a ridere divertito.
Mi sentii leggermente confusa, anche se dilettata lo ero pure io.

« Sono sempre buffe le future spose. E dimmi, quando sarà il grande giorno? » chiese.

Il grande giorno.
Noi non lo avevamo ancora programmato ed io non ci avevo nemmeno pensato.
Ero sempre stata presa da altre questioni e faccende che non riguardavano per niente la mia vita sentimentale.

« Noi...Noi non lo sappiamo ancora » replicai.

Egli mi diede una leggera pacca sul braccio, quasi in modo faterno.

« Il tuo uomo è davvero impegnato, giusto? Sono sicuro che non tarderà a domandartelo. Ad ogni modo, sono convinto che questo bracciale gli starà a pennello » disse.

« Lo pensa anche lei? »

Egli si limitò ad annuire, rivolgendomi una breve occhiata prima di invitarmi ad entrare.

« Sono sicura che quello non sarà l'unico oggetto a catturare la sua attenzione, questa mattina » parlò.

Lo guardai con una nota interrogativa in viso, seguendolo dentro alla sua piccola gioielleria.
Era proprio come la prima volta che feci il mio ingresso, se non per qualche piccolo particolare messo in primo piano.

« Si guardi pure attorno, signorina Jones. La prima volta che ci siamo incontrati, non eri ancora sposata, ora invece sei promessa sposa. »

Sorrisi, guardandolo da lontano.

« Sono cambiate tante cose in così poco tempo » continuò - « anche se non ce ne accorgiamo. »

Rimasi in silenzio, osservando un paio di orologio per coppie.
Aveva ragione.
Erano cambiate tante cose in poco tempo ed io non me n'ero accorta.

« La signorina Brown, l'ha
vista? » mi domandò ad un tratto, togliendosi gli occhiali.

Rimasi per brevi secondi in silenzio, giocherellando con le proprie dita.
L'avevo rivista. Era mia sorella.

« Sì. Sono riuscita a consegnarle il gioiello » risposi, guardandolo infine.

Lui mi sorrise, annuendo.

« La stavo aspettando, ma non è passata quel giorno. »

« Ho avuto un contrattempo. Sono dovuta tornare al lavoro, le chiedo scusa » mormorai.

Il signore mi rivolse una dolce occhiata e senza rispondermi, si diresse dietro al bancone, cominciando a pulire il pianale con un panno umido.
Lo osservai da lontano in silenzio.
I suoi movimenti erano leggeri, seppur veloci.
Sembrava agitato, in pensiero di qualcosa che non conoscevo.

« Sta bene? » mi azzardai a domandargli.

« Per caso ha incontrato una Parker? Sarah Parker » domandò.

Negai, scuotendo la testa.

« No, mi dispiace. Purtroppo non ho avuto modo di conoscere nessuno. Evitano di chiamarsi per nome » sussurrai.

Egli sospirò deluso, prendendo posto su uno sgabello dietro di lui.
Mi sembrò abbattuto, quasi volesse piangere, dall'espressione che mi rivolse.

« Le chiedo perdono per la domanda, ma è sua moglie? »

Egli rise lievemente, quasi amareggiato.

« Mia moglie? No, lei non c'è più da ormai un sacco di tempo. Sarah è mia figlia. La mia unica figlia » mormorò.

Spalancai lievemente gli occhi, maledicendomi mentalmente per avergli posto una domanda azzardata.

« Mi dispiace » sussurrai, avvicinandomi lentamente al bancone.

Lui se ne stava in silenzio, guardandomi con un'espressione che non sapevo decifrare.
Era malinconico, ma anche felice.

« Jessica Brown, lei era una mia cliente abituale. »

Perché usava il passato.

« Era? » domandai.

« Purtroppo non è più ripassata. Sono ormai mesi che attendo un suo ritorno. Mi ha ripromesso di passare nuovamente, ma ancora oggi non è ritornata. È una brava ragazza » replicò.

« Per caso ha il suo numero? » mi affrettai a domandare, poggiando una mano sul bancone.

Egli scosse la testa.

« Non ho nemmeno quello di mia figlia. »

Virai lo sguardo altrove, mordicchiandomi il labbro inferiore.
Avevo avuto una punta di speranza, ma in quel momento non ero l'unica a soffrire.
Lui si era aperto con me, con una sconosciuta passata per caso e nonostante fossi leggermente sorpresa, gli fui grato.
Si fidava di me e quello era ciò che in quel momento contava.

« Si è allontanata anni fa » riprese a parlare - « dopo che mia moglie ci lasciò. Mi disse che non mi sarei dovuto preoccupare di lei, perché aveva trovato un buon lavoro cui paga era molto alta. Mi aveva raccontato di aver incontrato una bellissima ragazza e che erano diventate migliore amiche. Mi aveva mentito, dicendomi che abitavano insieme. »

Proprio come Jane.

« Non le ha mai domandato che lavoro facesse? » chiesi.

Egli annuì.

« Oh sì, l'ho fatto. Ma lei ignorava sempre la mia domanda e le poche volte che insistevo, mi ripeteva che avrebbe voluto farmi una sorpresa un giorno e per farlo, avrebbe dovuto mantenere la sua professione un segreto. Ma io sono suo padre. Come ho fatto a non rendermene conto? » chiese, scoppiando subito dopo in un pianto quasi liberatorio.

Percepii una morsa alla gola, al stomaco e mi sentii subito debole, alla vista di lui in lacrime.
Rivivevo il momento di mio padre, quando una sera, con la porta semichiusa, sedeva sul nostro piccolo divanetto in salotto, abbracciato da mia madre che cercava di dargli conforto.
L'aveva capito anche lui che mia sorella non avrebbe mai più fatto ritorno a casa, ma con me  mentiva, rassicurandomi.
Ma con il passare del tempo e degli anni, ero arrivata a capire anch'io che quello che avevo di mia sorella, era soltanto un lontano ricordo.
Lei se n'era andata.
Allungai le mani, cercando le sue per stringerle dolcemente.

« Non era cieco. Era soltanto felice all'idea che sua figlia avesse una vita migliore della sua. Non è affatto colpa sua » gli sussurrai.

Lui scosse la testa.

« No, lei mi chiedeva aiuto. Io non sono riuscito a capirlo » disse.

Aumentai la stretta, decisa a tranquillizzarlo.
Non volevo si sentisse in colpa.

« Non possiamo aiutare chi ci è lontano. Ma possiamo sempre pregare e sperare che siano sempre in buona salute e al sicuro. Non possiamo nemmeno obbligare qualcuno a venire da noi, quando non vuole. In quel caso, dobbiamo essere noi ad andare da quella persona » parlai, guardandolo dritta negli occhi.

Lui in risposta sospirò, tirando su col naso.

« Avevo avuto la possibilità di rivederla, ma sono stato un codardo a lasciare scappare nuovamente. Ero troppo spaventato. Ero spaventato dalle persone che la circondano e dal suo mondo » esclamò.

Stavo per cedere e quasi temetti di farlo in quel momento.
Riuscivo perfettamente a capirlo, perché anch'io avevo paura del mondo di mia sorella.
Lei viveva in un modo diverso dal mio, frequentava persone diverse e viveva in un mondo diverso dal mio.
Era uguale a me, ma con il passare del tempo, cominciava a diventare il mio opposto.
Se solo avessi avuto modo di fermarla.

« Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto » sussurrai, percependo il fiato corto.

Stavo cominciando a respirare a fatica e le mie mani avevano cominciato a tremare come foglioline scosse dal vento.
Mi stavo comportando come una bambina indifesa, impaurita e non avevo modo di confortare un padre che aveva perso la propria figlia.
La sua unica bambina.
L'uomo si sollevò dallo sgabello, mettendosi in piedi.
Si avvicinò cauto alla mia figura e senza esitare mi strinse in un forte e sincero abbraccio.
Fui leggermente sorpresa, ma non potevo fare altro se non abbandonarmi a quelle braccia confortevoli.
Avevo rivisto mio padre quel giorno, avevo vissuto nuovamente uno di quei brutti ricordi che conservavo in una parte di me, quasi in modo egoista.
Ma non sapevo che il mio egoismo avrebbe potuto catapultarmi in uno stato di depressione.
Stavo soffrendo, ormai da anni, ma non volevo accettare l'idea che mia sorella fosse cambiata.
Proprio come quell'uomo.
Non volevamo accettare l'idea di aver perso qualcuno di importante.

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