Capitolo 64

C A P I T O L O 64

Ero seduta sul grande divano al centro del salotto e Leticia era al mio fianco, intenta a conversare con l'uomo che aveva conosciuto qualche settimana fa.
Era molto allegra e da quel giorno non faceva altro se non parlarmi di lui e dei suoi modi galanti di fare.
Mi aveva detto che era un uomo per bene, che era sempre disponibile e che le aveva promesso di renderla felice, qualsiasi cosa sarebbe successo.
Era una brava persona e lei si meritava qualcuno che l'amasse per ciò che era.
Ero persa nei miei pensieri più profondi che spesso portavano il nome Jackson e più ci pensavo, più mi sembrava di affogare.
Dopo alla grande festa di qualche settimana fa, Michael aveva cominciato a passare gran parte del suo tempo fuori casa, arrivando a rientrare pure a notte fonda, quando il resto dello staff si era già addormentato.
Spesso non riuscivo nemmeno a parlargli, talmente stanco fosse.
Non avevamo più avuto una vera conversazione e il più delle volte erano soltanto discussioni riguardanti l'ambito del lavoro.
Mi sentivo persa, fuori posto.
Glenda non si era più fatta problemi e aveva cominciato a conversare con il fratello di Michael già da un po' di tempo.
Mi mancavano Angie e i bambini.
Non li sentivo da ormai tre giorni e ciò non mi piaceva affatto.
Ella mi aveva accennato, un giorno, che Lily non faceva altro se non chiedere di me in continuazione e nonostante la voglia di correre da lei fosse indiscutibile, non potevo lasciare tutto.
Pensavo che con il passare del tempo le cose sarebbero cambiate, speravo che Lily avrebbe cominciato meno a pensarmi e più a far parte della piccola comunità di bambini, cui numero aveva cominciato a diminuire.
Se ne stavano andando quasi tutti.
Avevano trovato una famiglia.
Lanciai uno sguardo all'orologio da parati posta sopra alla porta e mi meravigliai quando mi accorsi che erano già le undici passate.
Leticia continuava a parlare senza sosta, quasi avesse perso la cognizione del tempo e Michael non era ancora rientrato a casa.
Non mi piaceva affatto, l'idea che restasse così a lungo fuori, perché non sapevo nemmeno se avesse cenato o se fosse stanco.
Dopotutto, si comportava in modo alquanto strano, negli ultimi giorni.
Sembrava assorto in pensieri che cercava di evitare quando gli domandavo se stesse bene e cercava sempre una scusa plausibile per allontanarsi dalla mia presenza.
Cosa gli avevo fatto?
La donna di fianco a me si alzò di scatto e quasi sussultai.
Mi rivolse uno sguardo mortificato e con un cenno della mano mi salutò, dirigendosi al piano superiore dove Glenda era ormai chiusa in camera sua da un paio d'ore.
Mi portai le ginocchia al petto, poggiando il mento su queste ultime.
Ero stanca.
Chiusi per brevi secondi gli occhi, respirando a pieni polmoni per rilassare i muscoli tesi del mio corpo, ma ciò che ricevetti, fu un leggero dolore allo stomaco.
Non potevo star male proprio in quel momento.
Dovevo lavorare e non avevo tempo per ammalarmi.

« Jane, se solo tu fossi qui » sussurrai.

E di nuovo, come sempre, il nome di mia sorella venne allo scoperto.
Era come se tutto quello che facessi c'entrasse con lei.
Ma forse ero io il problema.
Restai in quella posizione per vari minuti, percependo le mie palpebre farsi sempre più pesanti, ma prima che potessi chiudere occhio, udii la porta spalancarsi e in fretta mi alzai dal divano, aggiustandomi l'abito lungo i fianchi.
Feci un passo in avanti e prima che potessi uscire dal grande soggiorno, la sua alta figura apparve davanti ai miei occhi.
Indossava una camicia rossa con i primi tre bottoni aperti, da cui potevo perfettamente scorgere la sua canottiera bianca.
Il suo viso era segnato dalla stanchezza e i suoi occhi erano velati da una luce che non seppi decifrare.
Era quasi assente.

« Michael, bentornato. »

Lui in risposta mi rivolse un leggero sorriso, avanzò di due passi e si aggiustò la camicia, stirando il tessuto sotto al mio sguardo.

« Kara. Come mai in piedi? » mi domandò dolcemente, guardandosi attorno.

« Ti aspettavo. Non rispondevi alle mie chiamate e mi stavo preoccupando » replicai.

Michael mi osservò dall'alto in silenzio, abbassò di poco lo sguardo e si grattò la nuca con fare imbarazzato.

« Mi dispiace averti tenuta sveglia. Perché non vai a dormire? Ora sono a casa » proferì.

Lo guardai con sguardo interrogativo, aggrottando leggermente la fronte.

« Cosa c'è che non va? » mi azzardai a domandare.

Egli scosse la testa, sorridendomi.

« Non c'è nulla che non va. Sto bene, Kara. »

Gli rivolsi un'occhiata seria, quasi offesa dal suo comportamento.
Mi preoccupavo per lui, ero stata in pensiero da giorni per il suo comportamento insolito e lui continuava a negare di avere qualcosa.
Non voleva dirmelo.

« Davvero, Michael? Non hai nulla? » chiesi nuovamente, sperando che magari si aprisse, che mi dicesse la verità.

Ma lui si limitò ad annuire.

« Buonanotte, Michael. »

Ero arrabbiata con lui e avrebbe dovuto capirlo.
Non volevo che mi nascondesse le sue preoccupazioni o il suo stato di salute.
Mi preoccupavo com'ero solita fare e lui mi mentiva.
Ero stanca di corrergli dietro, perché non sopportavo l'idea che magari si confidasse con qualcun altro che non fosse me.
Lo oltrepassai decisa, mantenendo un'espressione seria, ma lui mi afferrò per un braccio, cercando di fermarmi.

« Kara, aspetta, ti prego. Non essere arrabbiata » mormorò.

Mi scansai dalla sua presa, voltandomi nella sua direzione per guardarlo in quelle iridi scure e profonde.
Le amavo.

« Non dovrei arrabbiarmi, Michael? Davvero? » esclamai.

Egli fece due passi in avanti, assumendo un'espressione del tutto allarmata.

« Piccola, ti prego, non alzare la voce » mi supplicò.

Amavo quando mi chiamava in quel modo o in altri suoi nomignoli che pur buffi, mi facevano stare bene.

« Jackson, è tardi. Credo andrò a dormire » parlai.

Non volevo discutere con lui, ma non volevo neanche lasciar perdere.
Però non potevo neanche obbligarlo ad aprirsi con me, se non era pronto o se non voleva farlo.
Lui alzò un sopracciglio, sorridendo infine.

« Sei già sveglia, perché non mi accompagni in camera? Ho qualcosa per te » rispose.

Incrociai le braccia al petto, respirando a pieni polmoni.

« Certo, come l'ultima volta in cui mi hai detto che volevi mostrarmi qualcosa, giusto? Sono stanca, ho lavorato tutto il giorno, mentre tu eri fuori a spassartela con non so chi per poi ritornare a casa con una camicia quasi sbottonata e l'aria di uno che ha girato il mondo in due ore. Mi dileguo » replicai.

Lo osservai per un'ultima volta, percorrendo con gli occhi il suo viso privo di imperfezioni e le sue labbra incurvate in un sorriso dilettato.
Due piccole fossette apparvero ai lati di esse e quasi temetti di cedere, dinanzi al suo sguardo penetrante.
Si divertiva, quando mi arrabbiavo?
Mi voltai velocemente, uscendo con grandi passi dal soggiorno per raggiungere le scale che percorsi con passi affrettati.
Non mi voltai nemmeno per accettarmi che non mi stesse seguendo, perché sapevo perfettamente che avrei ceduto una volta incontrato quelle perle nere.
Era in grado di manipolarmi anche con uno semplice sguardo.
Spalancai la porta della mia camera e mi voltai per chiuderla, ma sussultai quando intravidi la mano di Jackson bloccarla per poi entrarvi dentro e rinchiuderla alle sue spalle, quasi furtivo.
I suoi movimenti erano veloci.

« Che cosa stai facendo? Esci subito » dissi.

Si appiattì contro alla porta, allargando le braccia per impedirmi di cacciarlo e dopo vari secondi intascò le mani nella tasca anteriore dei suoi pantaloni scuri, estraendo infine un piccolo cioccolatino a forma di cuore.
Me lo porse, guardandomi con sguardo quasi mortificato.

« Scusami, piccola » mormorò.

Restai leggermente sorpresa quando egli me lo posò sotto agli occhi.
Era la prima volta che si scusava in quel modo e lo trovai alquanto genuino, se non dolce.
Ma nonostante stessi per cedere, non potevo lasciarlo scappare.

« Un cioccolatino non risolve nulla, Michael » esclamai.

Lui rise nervosamente, abbassando per brevi secondi la testa per poi rialzarla.

« Sei proprio testarda » - parlò -
« Non capisco. Cosa ti preoccupa? Che non trovo un po' di tempo libero oppure che sia rientrato a casa a quest'ora? » domandò, chiudendo a chiave la porta.

Intascò quest'ultima, cominciando a passeggiare lungo la stanza con passi lenti ma decisi.
Lo guardai in silenzio, percependo il mio cuore correre velocemente.

« Dove sei stato? » chiesi.

« In studio. Come sempre » rispose, senza degnarmi di uno sguardo.

« In studio? Hai appena terminato un nuovo album e già inizi a comporre nuove
canzoni? »

Egli annuì.

« I miei fans non possono aspettare. Non posso deluderli » disse.

« Guardami quando ti parlo, ti prego » sussurrai.

Si voltò lentamente verso di me, osservandomi da lontano.

« Dimmi, Kara. Cosa ti preoccupa? » domandò nuovamente.

La sua voce era roca e profonda.

« Voglio sapere come stai » mormorai.

« Soltanto questo? »

Fece un passo in avanti, un'altro e un'altro ancora, fino a soffermarsi dinanzi alla mia bassa figura.
Mantenni per brevi secondi il respiro quando il suo dolce profumo pervase le mie narici.
Ero sopraffatta.

« Voglio sapere se ti sono mancata » risposi con voce bassa.

Lui ridacchiò dolcemente, allungò le braccia verso alla mia direzione e senza preavviso, mi avvicinò a lui, stringendomi in un forte abbraccio.
Mi fece poggiare la testa sul suo petto e mi tenne stretta contro al suo corpo poco scolpito.
Il suo cuore batteva velocemente e le sue mani avevano cominciato a tremare.

« Mi sei mancata, Kara. Mi sei mancata davvero tanto » sussurrò.

Percepii il suo fiato solleticarmi il collo e la sua mano mi accarezzava le spalle con estrema dolcezza.
I suoi gesti erano genuini, quasi avesse paura di toccarmi.
Ricambiai l'abbraccio, bramosa di sentire una parte del suo corpo sotto alle mie mani.
Erano da giorni che non riuscivo a sfiorarlo e più il tempo passava, più mi sembrava di impazzire.
Era la mia droga.

« Non riuscivo a dormire » sussurrai.

« Perché? »

« Perché mi mancavi » risposi.

Lui mi stampò un leggero bacio sul collo, accarezzandolo infine con le sue umide labbra.

« Sono qui adesso » biascicò.

Mi sembrava di affogare, negli ultimi giorni.
Ero riuscita a vederlo poche volte e il resto dei giorni ero passata a crearmi pensieri del tutto inutili e buffi.
Ma erano momenti come quelli in cui realizzavo che la sua lontananza poteva crearmi problemi.

« Dimmi cos'hai, Michael. Dimmi cosa ti preoccupa e cercherò di aiutarti » sussurrai, staccandomi di poco per poterlo osservare negli occhi.

Erano spenti.

« Sto bene. Te l'ho già detto. Sono solo stanco. Sai, ho passato il resto degli ultimi giorni fuori casa, forse anche troppo e adesso sono esausto. »

Gli accarezzai il viso, percorrendo i tratti con le mie dita esili.
Egli rabbrividì sotto al mio tocco.

« E se ti dicessi che stai mentendo? Che la stanchezza non è l'unico motivo? Cosa mi risponderesti? » domandai.

« Ti risponderei che hai
ragione. »

Lo guardai in silenzio, attendendo che continuasse.

« Non so come dirtelo, tesoro. Davvero non so » sussurrò.

« Di cosa stai parlando? »

Egli prese un lungo e profondo respiro, si inumidì le labbra com'era solito fare ed infine parlò: « Partirò per l'Italia tra quattro giorni e non posso portarti con me. »

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