Capitolo 47
C A P I T O L O 47
Ero chiusa in camera da ormai troppo tempo, e ciò che riuscivo a fare in quel momento, era piangere come una ragazzina ferita nel cuore.
Ad ogni singhiozzo, udivo la voce di Michael pregarmi di lasciarlo entrare, ma nonostante avessi voluto cedere alla tentazione di rivederlo, la sua immagine con Glenda impressa nella mia testa, sembrava non volermi dare sosta.
« Kara, ti prego, apri la porta! » esclamava.
« Smettila Michael! » urlacchiavo tremante, scossa dai singhiozzi.
Ero stata appena ferita dalla persona che avevo cominciato ad amare più di quanto avessi mai immaginato.
Era riuscito ad entrare nella mia vita in un giorno qualsiasi, regalandomi emozioni impressionanti in poco tempo; ma in pochi minuti era riuscito a distruggere ciò che aveva cominciato a costruire.
Non sapevo del perché lo avesse fatto e forse mai lo avrei capito, se non gli avrei dato modo di parlare.
Ma rivederlo, sarebbe come pungersi di proposito con un ago appuntito.
Mi avrebbe solo causato dolore.
« Ti prego, ascoltami prima di cominciare ad ignorarmi. Non sono quel tipo di persona, Kara. Lasciami entrare, piccola » sussurrava.
Percepii un lieve rumore contro alla porta e in quel momento mi immaginai Michael con la fronte appoggiata contro al pezzo di legno pregiato, implorandomi di ascoltarlo.
Parlava senza preoccuparsi che qualcuno lo avrebbe potuto sentire; senza paura di essere scoperto anche dalla donna che aveva da poco baciato.
Perché si comportava in quel modo?
« Ascoltarti? Non servirebbe a nulla, Jackson! L'ho già visto! » replicai, stringendomi le ginocchia contro al petto.
« Kara, non obbligarmi ad aprire la porta » esclamò.
E aveva ragione. Possedeva una copia di ogni chiave di quella grandissima dimora, dicendo che ne avrebbe fatto uso soltanto se necessario.
In quel momento fui tentata se aprirlo e lasciarlo entrare.
"Non concludere le cose troppo velocemente, Kara. Ascolta sempre, prima di fare la mossa finale" mi ripeteva spesso mia sorella.
Mia sorella. Un'altra persona che mi aveva ferita.
Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano, prendendo un bel respiro.
Mi alzai dal letto, camminando con le gambe ancora tremanti, verso alla porta chiusa, aprendola lentamente.
Quando questa fu del tutto spalancata, incontrai il viso di Michael contratta in una smorfia di dolore e rabbia al contempo. Le sue braccia erano lungo i suoi fianchi e i suoi occhi colmi di lacrime.
« Kara...Ascoltami, io... » sussurrò, facendo un piccolo passo in avanti.
Mi spostai da parte, lasciandogli dello spazio per poter entrare e lui non esitò a farlo, chiudendosi infine la porta alle spalle.
« Perché Michael? Perché anche tu? » gli domandai in un mormorio, osservandolo con sguardo affranto.
Lui si passò una mano fra la folta capigliatura, sospirando pesantemente.
« Io non l'amo, Kara. Devi saperlo questo » esclamò.
« Allora dimmi, cos'è stato quello? Perché lo hai fatto?! » urlacchiai.
« Perché volevo sapere quello che provava per me, Kara! Se mi amava veramente! Ti prego, devi credermi » replicò, facendo un lungo passo verso di me, per poi inginocchiarsi davanti alla mia figura.
Lo guardai dall'alto, percependo il pizzichio agli occhi farsi sempre più forte, prima di scoppiare nuovamente a piangere. Egli si era inginocchiato davanti a me, chiedendomi scusa, ma la mia mente non riusciva ancora a cancellare l'immagine di lui intento a baciare un'altra donna che non fossi io.
« Dimmi che non la ami, Michael... » mormorai, abbassandomi per raggiungere la sua stessa altezza.
Egli mi guardò negli occhi, poggiando una mano sulla mia guancia, percorrendo tutto il perimetro di essa, fino a soffermarmi sul collo.
« Non la amo, Kara. Non la amo più da ormai un sacco di tempo » replicò con voce flebile, poggiando la sua fronte contro alla mia.
Chiusi gli occhi a quel contatto, sentendo il mio cuore esplodere dal dolore e dalla gelosia.
Sì, ero stata appena colta da una grande e immensa gelosia e ciò non faceva altro se non alimentare la mia sofferenza.
La gelosia porta dolore.
Ed io ero stata la sua vittima.
« Mi hai fatto del male, Michael. Mi hai ferita. Mi hai ferita » sussurrai, cercando di trattenere i singhiozzi.
« Sssh, perdonami amore. Perdonami, piccola. »
Avevo sempre amato il modo in cui mi chiamava con quel dolce nomignolo, ma quel giorno esso non sembrava avermi regalato una bella emozione. Anzi, mi aveva aperto di più la ferita.
Michael. Se solo avessi avuto un'altro modo.
« Certo, mamma, ti richiamerò non appena avrò finito. D'accordo! Salutami papà! »
Avevo da poco chiuso la chiamata con mia madre, quando Michael fece irruzione nella grande cucina, camminando con una pezza attorno al collo verso al frigo che aprì, estraendo una bottiglia d'acqua fredda per poi portarsela in bocca.
Lo osservai attentamente, percorrendo con gli occhi tutto il perimetro del suo corpo stretto attorno ad una semplice canottiera nera e dei jeans del medesimo colore.
La fronte era impregnata dal sudore e le sue braccia poco muscolose erano tracciate da una lunga vena che spariva poi al tragitto verso il polso.
Non avevo più parlato con lui, dopo all'accaduto e lui aveva passato maggior parte del suo tempo fuori casa.
Era quasi imbarazzante vivere sotto allo stesso tempo e ciò mi opprimeva ogni giorno sempre di più.
Glenda aveva deciso di prendersi due settimane di ferie, dicendo che aveva bisogno di riposo e Leticia si era ammalata proprio la notte scorsa, restando a letto per quasi tutto il giorno.
Fuori il sole splendeva alto nel cielo e pensai subito che quella fosse il momento giusto per ritornare nel locale dove lavorava mia sorella.
Volevo avere delle spiegazioni, sapere esattamente se tutto ciò che aveva detto alla mamma, agli inizi, era vero o frutto della sua stupida immaginazione.
Ma dopotutto, anch'io avevo una fervida fantasia. Del tutto irreale.
« Signor Jackson. Potrei prendermi il pomeriggio libero? È una cosa urgente » mormorai con la voce strozzata.
Parlare nuovamente con lui mi faceva sentire strana, quasi malata.
Egli all'udire il modo in cui lo avevo chiamato, allontanò la bottiglia dalle labbra, guardandomi con le sue iridi profonde.
« Scusa..? » domandò.
« Le ho chiesto se potrei avere il pomeriggio libero. La prego » dissi, respirando infine a pieni polmoni.
« È importante? » mi chiese, avvicinandosi per poggiare la fiasca sul pianale che ci separava.
« Non glielo avrei mai domandato, se non lo fosse » replicai.
Lui sospirò, togliendosi l'asciugamano attorno dal collo per frizionarsi i capelli con esso, inclinando la testa leggermente di lato.
« D'accordo. Ma ti accompagnerò io » disse.
Lo guardai leggermente sorpresa e stupita nello stesso tempo.
« Non ho bisogno delle guardie del corpo. Posso perfettamente andarci da sola e con un taxi » risposi, mantenendo un tono di voce serio e pacato.
Mi sarebbe tanto piaciuta la sua compagnia, ma al solo pensiero di me e lui in una macchina con le guardie del corpo, mi metteva a disagio.
Afferrai la mia famosa pezza per pulire, facendo il giro del bancone per camminare verso alla porta, ma una mano mi afferrò per il polso, voltandomi all'indietro.
Incontrai il suo viso proprio a pochi centimetri del mio viso e il suo braccio andò immediatamente a circondarmi la schiena, tenendomi salda contro al suo petto.
« Guiderò io. Non porterò nessuno con me. Ci andremo da soli » sussurrò.
Un brivido percorse la mia colonna con estrema violenza quando il suo alito di menta solleticò le mie narici e quasi sussultai fra le sue braccia.
Lo guardai attentamente, vagando con gli occhi sul suo viso privo di imperfezioni, soffermandomi nelle sue iridi scure e profonde, velate da una strana luce.
« Signor Jackson...Mi lasci andare, la prego » dissi.
Lui mi scrutò per pochi secondi in modo profondo, allontanandosi infine dal mio corpo per permettermi di respirare regolarmente.
Stavo quasi soffocando, sotto al suo controllo.
Abbassai di poco lo sguardo, sentendomi subito ferita.
Pensavo non mi avrebbe ascoltata, avrebbe fatto di testa sua, com'era solito, ma invece si limitò ad ascoltarmi.
Lo ringraziai con un filo di voce, poi voltandomi per camminare a passi spediti via, varcando la soglia della cucina.
Avevo appena finito di prepararmi, pronta ad uscire, quando qualcuno bussò alla porta della mia camera.
Mi lanciai un'occhiata allo specchio, sistemandomi per bene la maglia lungo fianchi, poi, aggiustandomi i capelli andai ad aprire, sorprendendomi nel vedere una figura maschile di fronte a me cui figura era nascosta da un'abbigliamento alquanto ridicola.
« Michael » parlai, ancora sorpresa.
« Sono pronto. Quando hai finito, possiamo uscire. Ti aspetto di sotto » si limitò a dire, voltandosi per allontanarsi dal mio corpo, percorrendo la larga rampa di scala con passi eleganti e decisi.
Lo scrutai attentamente, affacciandomi per studiare i suoi vestiti. Indossava una giacca a vento rossa, dei jeans azzurri e delle scarpe sportive bianche. In testa portava un semplice capello da basket e le sue labbra erano leggermente coperte da uno strato di barba finta.
Non amavo ridere della gente, ma quel giorno Michael era riuscito a strapparmi un sorriso divertito.
Lo trovai all'improvviso dannatamente carino ma ingiusto al contempo e ciò mi aveva reso maggiormente confusa.
Lo amavo, eccome se lo amavo. Ma non potevo permettere a me stessa di soffrire.
Allungai una mano per chiudere la porta, incamminandomi infine verso al piano inferiore.
Come detto, Michael mi aspettava paziente davanti al grande portone principale, intento a far roteare fra le proprie dita le chiavi della macchina.
Nonostante avessi insistito, lui non si era deciso a lasciarmi uscire da sola, ricordandomi dell'ultima volta in cui rientrai a casa tardi.
Mi davanti alla sua figura, tenendo fra le mani la mia giacca a vento marrone.
Egli appena si accorse della mia presenza, si aggiustò la giacca e il cappello, aprendo la porta ed uscire, seguito da me.
« Dove devi andare? » mi domandò una volta fuori.
Scesi i piccoli gradini, cercando di stare al suo stesso passo.
« Al nightclub, in fondo alla gioielleria del centro » replicai.
Lui si fermò di scatto, obbligandomi a fare lo stesso.
Mi guardò, inclinando lievemente la testa di lato.
« Sei sicura..? » mi chiese.
Gli rivolsi un leggero sorriso, annuendo.
« Se non oggi, quando? »
Egli non staccò la sua attenzione dalla mia figura e dopo un paio di secondi si avvicinò piano, stampandomi un casto bacio sulla fronte.
Trattenni il respiro per quei pochi istanti, sentendo il mio cuore galoppare impazzito.
Si allontanò da me solo poco dopo, abbassando di poco la testa per poi voltarsi e riprendere a camminare, diretto verso alla sua auto nera, parcheggiata non molto distante da noi, vicino ai cancelli.
Era ormai da venti minuti che viaggiavamo e più il tempo passava, più mi sentivo a disagio.
Michael non aveva proferito parola per tutto il tempo, limitandosi a guidare e a tenere gli occhi incollati sulla strada.
Le vie dell'amata California scorrevano veloci sotto alle mie iridi esauste dal lavoro della mattina.
Leticia si era ammalata e Glenda aveva deciso di togliere per poco tempo il disturbo, quindi avevo dovuto svolgere tutto il lavoro io.
« Siamo quasi arrivati. Dove vuoi che parcheggi? » mi chiese ad un tratto, svegliandomi dai miei pensieri.
« Mh? »
Mi guardai attorno, indicando poi un piccolo spazio in mezzo a due alberi non molto alti.
« Potresti parcheggiare lì? » domandai cortesemente.
Lui seguì con gli occhi dove indicavo, annuendo infine.
Girò a destra e con estrema facilità parcheggiò l'auto dove dissi, assicurandosi che non fosse troppo esposta sulla strada.
« Grazie » mormorai, accennandogli un'occhiata e un leggero sorriso.
Lui con sguardo serio si limitò ad annuire un'altra volta, togliendosi la cintura di sicurezza, seguito da me che poi uscii, chiudendo lo sportello.
« Da che parte si va? »
« Da quella » risposi, lasciando che lui mi affiancasse.
« D'accordo » mormorò.
Cominciammo a camminare e con il passare di quei pochi minuti, sentivo il mio cuore cominciare a battere all'impazzata.
Avevo paura di rincontrare quel viso familiare, nonostante ella fosse mia sorella.
Avevo nuovamente paura di riaffrontarla, ma non potevo permettere che si prendesse gioco di mamma e papà in quel modo; che continuasse a nascondersi e a scappare da una vita che forse le avrebbe fruttato beni e non dolori.
Odiavo il lavoro che faceva, il contatto che aveva con tutti quei uomini e le donne che la spronavano a continuare.
Era una cosa così ingiusta e nessuno se lo meritava.
Lei non se lo meritava.
Se solo sapesse quanto a me importasse!
La grande ed odiosa scritta spuntò davanti ai miei occhi, attirando la mia attenzione con tutte quelle lucine colorate e accese, nonostante non fosse ancora notte.
Mi fermai, osservando l'immenso edificio da sotto, alzando di poco lo sguardo per percorrere ogni piano di esso.
Presi un bel respiro e Michael non esitò a sfiorarmi la mano con la sua, rivolgendomi poi un'occhiata rassicurante.
« Rilassati, Kara » sussurrò.
Mi portai una ciocca di capelli dietro all'orecchio, annuendo.
Poi ripresi a camminare, con lui al mio fianco.
Nonostante avessimo litigato, egli non ne voleva di lasciarmi da sola.
E questo fu un atto del tutto carino da parte sua.
Varcai la soglia di quella porta orrenda, entrando dentro all'edificio.
Subito venni invasa da un forte odore di fumo e di alcool. La grande stanza era tetra, dalle luci offuscate e la musica ad alto volume rimbombava fra le quattro mura ricoperte di quadri e pianali colme di bevande.
Mi scrutai attorno, sentendomi subito a disagio e quando lanciai un'occhiata a Michael, egli era intento a mordicchiarsi il labbro inferiore con tensione, sfregandosi di tanto in tanto le mani sulla giacca a vento.
Stavo per parlargli e dirgli che se non se la sentiva poteva uscire, ma una donna ci venne incontro.
Appena voltai lo sguardo a destra, mi accorsi che ella era la stessa dell'altro giorno.
Indossava un semplice abito trasparente bianco e da cui potevo perfettamente scorgere i suoi indumenti interni.
Le mani e i piedi erano ornati di gioielli e alle orecchie portava dei grandi orecchini a sfera, quasi volesse esagerare.
La osservai con sguardo triste, tenendo le mani lungo i fianchi e quando ella parlò, il mio cuore perse un battito.
« Sei la ragazza dell'altro giorno. Che vuoi? » domandò con voce fredda, incrociando le braccia al petto.
« Potrei per favore parlare con Jessica? Jessica Brown » chiesi, sperando in una risposta positiva.
Lei mi scrutò da capo a piedi, portando entrambe le mani sui fianchi.
« Il capo è qui. Prima di avere altri problemi, perché non te ne vai? » parlò.
Feci un passo in avanti, stringendo i pugni lungo i fianchi.
« Devo vederla. È importante » replicai.
Lei ridacchiò, allungandosi ad un piccolo tavolino per afferrare una sigaretta e portarselo in bocca, prima di accenderlo.
Poi un uomo robusto e cui viso era coperto da un cappello, fece il suo ingresso nella sala e quando ella lo vide si allontanò da me, facendo velocemente due cinque passi indietro.
Michael fece un passo in avanti, restando dietro di me e quando quel tizio si avvicinò alla mia figura minuta, trattenni quasi il respiro.
« Cosa ci fa nuovamente questa bellissima ragazza qui? » chiese con voce roca, giocherellando con il sigaro che teneva in una mano.
Il suo completo elegante e scuro gli fasciava quel busto e quelle gambe robuste, per non parlare delle braccia da cui potevo scorgere un po' di muscoli.
« Mi scuso per il disturbo, signore. La signorina Brown potrebbe ricevermi? È una cosa importante » risposi.
Lui inclinò la testa di lato, portandosi il sigaro in bocca per poi espirare tutto il fumo quasi sul mio viso.
« Brown? Jessica Brown,
giusto? » domandò.
Annuii, attendendo una sua risposta.
« Si è fatta licenziare. Qualche giorno fa, se non erro » replicò.
Sgranai gli occhi, incredula.
« Cosa..? »
« Ha detto che voleva cambiare aria. Rifarsi una nuova vita e ha voltato pagina. Poverina. Sensolo sapesse a cosa è andato
incontro » disse canzonatorio, osservando per bene il sigaro incastrato fra le dita.
« Potrebbe dirci dov'è andata? » chiese Michael.
L'uomo rise, tossendo subito dopo.
« Chi siete? » domandò.
« Sono sua sorella » risposi seria, facendo un passo in avanti.
Il tizio mi scrutò attentamente, indicando con un cenno del capo Michael, in piedi poco dietro di me.
« E lui? »
« Sono suo marito. Il cognato di Brown » rispose.
Persi un battito a quella risposta e potei giurare di percepire le mie gambe farsi gelatine, ma non potevo abbandonarmi all'emozioni in quel momento. La mia più grande priorità era quello di ritrovare mia sorella.
« Spiacenti. Brown diceva di non avere parenti » disse.
Come poteva mentire sulla sua famiglia? Con la rabbia che possedevo, spostai l'uomo con una mano, camminando a passi spediti verso al lungo corridoio dalle luci spente, dirigendomi verso alla sua 'camera'.
Ricordavo perfettamente il numero e la porta, quindi quando la raggiunsi la spalancai con forza, entrando dentro.
« Jane! Jane, dove sei?! Bastarda, come osi mentire sulla tua famiglia?! Come hai avuto il coraggio di mentire su di me?! » urlavo, controllando ovunque; anche sotto al letto.
« Kara! »
Udivo la voce di Michael chiamarmi ed infine lo vidi sbucare dalla porta quasi correndo.
« Jane! Jane, vieni fuori! » continuavo a chiamarla, cominciando ad avere la vista offuscata.
« Portatela fuori prima che si faccia male » parlò l'uomo, con voce calma ma roca allo stesso tempo.
Mi voltai, pronta a spalancare una parte che forse conduceva al bagno, ma Michael mi precedette, aprendola per poi guardarsi attorno.
Lo affiancai, ma quando mi affacciai, non vidi nessuno. Anche il bagno era in perfetto ordine come la camera.
« Dov'è andata? » domandai in un sussurro.
Lui scosse leggermente la testa, sospirando.
« Non lo so. Ma di certo, non lontano. »
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