Capitolo 41

C A P I T O L O 41

Quel giorno, il sole splendeva alto nel cielo.
Il freddo si era finalmente attenuato e nonostante la giornata fosse così fulgida, io mi ritrovavo a pulire le mille finestre di quella dimora gigantesca.
Michael, come tutte le mattine era uscito presto per dirigersi in studio di registrazione.
Mi aveva parlato di una nuova canzone scritta da lui qualche mese fa, ma che non era riuscito a registrare per alcune parti indecise.
"Deve essere tutto perfetto e significativo" aveva detto.
Leticia non era ancora rientrata e restare da sola con Glenda mi turbava.
Era una donna sveglia ed attenta ad ogni mio singolo passo e anche se a volte cercava di apparire gentile nei miei confronti, dopo cinque minuti ritornava la ragazza fredda e distaccata.
Non le avevo fatto nulla e ciò mi irritava.
Dovevo chiarire assolutamente. Ma come? Eravamo sempre indaffarate e parlare per noi era un'impresa difficile.
Le nostre conversazioni riguardavano soltanto i piani di pulizia e di spese.

« Tu pulisci il bagno degli ospiti e dopo il giardino. Io penserò a quello di Michael » disse ad un tratto, sistemandosi l'abito buffo lungo i fianchi.

Fermai ciò che stavo facendo, ovvero stendere gli ultimi panni appena lavati.
Il profumo di vaniglia misto lavanda solleticava il mio naso sensibile.

« Perché? Non sarebbe meglio se pul- »

« No, Kara. Sono io quella che comanda quando Michael non è in casa. Il bagno di Jackson oggi sarà mio » parlò, lanciandomi un'occhiata severa.

Comandava lei? E da quando?
La osservai arrabbiata, afferrando la bacinella vuota per poi poggiarla con un tonfo sullo stendino di metallo.
Non poteva continuare a trattarmi in quel modo. Non ero la sua schiava e lei non era la mia padrona.

« Cosa c'è che non va? Perché continui a trattarmi in questo modo? » domandai.

« Dovresti smetterla di fare la parte dell'innocente, Kara. Sei una domestica come tutte noi. Una donna che ha bisogno di aiuto e di soldi, per sopravvivere. Perché continui ad inseguire Michael? Perché gli stai attaccata? Te l'ho già detto. Lui non avrà mai occhi per te. Sei come noi. Lui è il tuo capo, il tuo padrone. Tu sei colei che lavora per lui. E mi dispiace se hai dei problemi personali. Se tuo padre sta male, è un problema tuo e della tua famiglia, non di Michael. Quindi cerca di stargli lontana o mi inventerò qualcosa contro di te. La vita non è rosa e fiori, Jones. E questo dovresti saperlo » esclamò con sguardo cupo, avvicinandosi di un passo verso alla mia figura.

Se tuo padre sta male è un problema tuo e della tua famiglia.
Come osava parlare in questo modo dei miei genitori?
Le dava fastidio che Michael si interessasse di noi? Di me?

« Quindi è questa la tua preoccupazione? La paura che Michael si possa avvicinare a me? » chiesi con tono di voce basso.

Ella sembrò leggermente sorpresa dalla mia domanda, assumendo un'espressione del tutto diversa da pochi secondi fa. Beccata.

« No. Non è...non è quella la mia preoccupazione. Sei tu il mio problema, Kara! Quando sei venuta qua mi sembravi una ragazza apposto, con la testa al suo posto. Ma dopo un paio di giorni, Michael ha cominciato a rivolgerti più attenzioni e tu hai cominciato a stare al suo gioco. Non capisci che io sono ancora innamorata di lui?! Non sai che ogni volta che lui ti guarda, anche solo per un secondo, mi ferisce? » esclamò, spalancando di poco le braccia.

Oh, sì. Lo sapevo eccome. Ma non si può reprimere ciò che il cuore desidera.
Ero affranta anch'io, a dir la verità. Mi sentivo sotto pressione e triste. Sembrava che avessi rubato una persona importante a qualcuno che non aveva mai smesso di pensarla e di amarla.
Ma io non volevo farlo. Avrei voluto fermare tutto, correre via e fingere che non sia successo nulla, ma al solo pensiero di non incrociare più quel viso dai lineamenti delicati, mi spaventava.
Era lui ciò che mi rendeva felice, in quel momento.
Era in grado di spazzare via ogni mia paura e debolezza, ma questo lei non lo sapeva.
Lo amavo in silenzio.

« Smettila di parlarmi come se non capissi ciò che provi! Sono pure io come te, ok? Ho tanti problemi per la testa, una sorella scomparsa che sto cercando tutt'ora, un padre malato e una madre a pezzi. Sono stata abbandonata dalla persona che avevo dato tutta me stessa pur di renderla felice ed amarla, ma ora non mi resta di lei che dei ricordi strazianti. Perché pensi soltanto ai tuoi sentimenti? Cosa ti ho fatto di così male per essere trattata in questo modo? Hai ragione, sono una povera donna in cerca di aiuto e denaro, ma lo sto facendo per la mia famiglia. Non sono così egoista da mettere la loro felicità al secondo posto e la mia al primo, Glenda. E sto facendo di tutto pur di raggiungere il mio obiettivo, lo sai! Ma lavorare con qualcuna che mi odia per il semplice fatto che il suo ex ragazzo mi dedica maggiori attenzioni, mi fa stare male. Non sono io che ho deciso di venire qui, davanti al cancello di questa casa a chiedere lavoro. È stato il destino, Glenda. Ed io voglio fare di questo destino la mia più grande opportunità per salvare ciò che amo. Quindi se non ti metti la testa apposto, non è un mio problema. Puoi dire tutto quello che vorrai a Michael, purché mi licenzi, ma alla fine non riceverai nulla, se non
odio! » sbottai adirata.

Ella sussultò violentemente, lanciandomi un'occhiata seria e torva.

« Come ti permetti di parlarmi in questo modo?! Sai chi sono?! » urlacchiò ad alta voce, stringendo i pugni lungo i fianchi.

« Avrei tanto voluto non risponderti in questo modo, Glenda. Ma non potevo lasciare che tu continuassi a perseguitarmi e a vedermi come una tua nemica. Io sono come te e tu sei come me. Se siamo qui a spazzare pavimenti e a lavorare duro è perché abbiamo bisogno entrambe di aiuto. Quindi, ti prego, smettila di guardarmi in modo diverso, perché io non lo faccio. Quello di cui abbiamo bisogno adesso è dell'appoggio di entrambe. Se non sei d'accordo, allora non so più come dirtelo » mormorai, riprendendo la bacinella azzurra.

Glenda mi fissò negli occhi con intensità, portandosi subito dopo una ciocca di capelli dietro all'orecchio.
Il suo sguardo profondo vagò per tutto il mio corpo, soffermandosi infine sulle mie iridi scure.

« Con permesso » sussurrai, voltandomi per allontanarmi, dirigendomi con passi spediti verso all'entrata della cucina.

Una volta dentro presi un bel respiro, chiudendo per brevi secondi gli occhi.
Portai due dita alla tempia, mugolando per il familiare dolore alla testa.
Odiavo litigare o alzare la voce, per di più con una mia collega di lavoro.
Speravo soltanto di non aver esagerato. E se così fosse?





Avevo da sempre amato l'aria fresca notturna e il silenzio tranquillante della notte, spezzato soltanto dal fruscio delle foglie che ricoprivano la maggior parte dell'erba.
Era da stamattina che cercavo di raschiare il terreno per togliere tutte le foglie morte cadute da quei alberi enormi, ma più il tempo passava, più mi rendevo conto che continuare a lavorare in quel grande terreno da sola, era inutile.
I giardinieri avevano deciso di prendersi la giornata libera, e Glenda si era inventata la scusa che doveva restare in casa a sparecchiare le ultime posate della cena abbondante che io non ero riuscita a finire per il mal di testa ormai aumentato.

« Di certo questo non cambierà nulla, ma se devo fare il mio lavoro per bene e se voglio continuare a sfamare la mia famiglia, dovrò far di tutto,
no? » parlottai a me stessa.

Le parole di Glenda mi piombarono in testa come un treno in corsa, e le immagini di noi due stamattina, intente a litigare si fecero sempre più chiare nel mio piccolo cervello, facendomi sospirare frustata.
Dopo a quella conversazione, ella non si era più degnata di rivolgermi una parola né uno sguardo, e quando Michael era ritornato a casa, lei gli era stata quasi tutto il tempo addosso.
Lo faceva apposta e lo sapevo, ma come darle torto?
Dopotutto lui per lei era qualcuno. Almeno lo era stato.
Io non ero nessuno. Soltanto una donna che era stata aggiunta in quella casa con lo scopo di far divertire i bambini.
Ma i bambini non venivano quasi sempre.
Cosa ci facevo lì, allora?
Lanciai uno sguardo alla grande vetrata che dava sulla cucina, incrociando subito la figura di Glenda intenta a ridere mentre portava alcune posate verso al lavandino.
Feci per voltare lo sguardo altrove, ma un'altra sagoma molto più alta e maschile, mi bloccò.
Michael.
Ecco con chi si divertiva. Con il nostro capo.
Lui le parlava con un largo sorriso divertito stampato sul viso e le sue due fossette marcate lo rendevano ancora più attraente di quanto lo fosse già.
Quanto avrei voluto essere al suo posto, parlargli con così tanta innocenza senza la paura di ricevere sguardi d'odio da nessuno.
Abbassai lo sguardo, puntando la mia attenzione sui miei vestiti ormai sporchi di polvere.
Avrei dovuto continuare così per sempre? Nascondere il mio amore, stare lontana dalla mia famiglia, soffrire per sempre e lavorare così tanto?
Era quello il mio destino?
Un groppo alla gola mi fece mancare per poco il respiro; i miei occhi si fecero umidi e le mie mani tremanti.
Ma non potevo fermarmi. Avevo ancora così tanto da raschiare e fare la bambina in quel momento non era ciò di cui avevo bisogno.
Tirai su col naso, asciugando le poche lacrime che rigarono il mio viso con la manica del mio abito buffo.
Ripresi ciò che stavo facendo, ma questa volta con un po' più di velocità.
Mi accorsi che la grande lampada in cucina si spense, cosa che mi fece comprendere che Glenda aveva finito il suo lavoro.
Ma io no.

« Una bella ragazza non dovrebbe mai piangere. »

Una voce maschile possente, mi fece sussultare all'improvviso.
Alzai lo sguardo, spostandolo leggermente a destra e chi incontrai fu Javon, stretto nel suo completo scuro ed elegante.
Nonostante fosse sera, egli indossava gli occhi dalle lenti scure e lo non avevo mai visto toglierseli, dal mio arrivo.
Gli sorrisi leggermente, annuendo.

« Ha ragione. È ridicolo » replicai.

Lui ridacchiò.

« Ridicolo? Non credo. Tutti piangono, Kara » disse, sfoggiandomi un dolce sorriso.

Continuai a sorridergli, fermandomi per osservarlo meglio.
Aveva i primi tre bottoni della sua giacca aperti, da cui potevo scorgere perfettamente una camicia blu scura e una cravatta nera.
I suoi pantaloni aderenti alle sue gambe muscolose, gli mettevano in risalto le forme da uno che giocava basketball. Inoltre era anche molto alto.

« Come mai è qui? Non si
riposa? » domandai.

Lui intascò le mani, facendo le spallucce.

« Avevo intenzione di dormire, ma poi mi sono accorto che eri qui da sola e un po' di compagnia ne avresti bisogno » rispose.

La sua risposta mi fece leggermente intenerire.
Era da sempre stato così gentile e premuroso nei miei confronti.
Un uomo adorabile, direi.

« Beh, se è questo quello che dice, signor Beard, sarei più che felice di accettare la sua compagnia. Ma dal momento che lei non faccia nulla » dissi dilettata.

Lui rise, annuendo.

« Certo. Sarei più che felice di accontentarla. »

Fece un passo in avanti, ma quando volle fare il secondo, il suo cellulare squillò.
Si bloccò mentre io continuai il mio lavoro, non degnandolo di uno sguardo.

« Pronto? Sì, certo. Ma non è già chiuso? D'accordo, prenderò le chiavi. A più tardi. »

Chiuse la chiamata e mi guardò, sospirando appena.

« Tutto apposto? » mi azzardai a domandare.

Javon annuì, intascando il cellulare.

« Il signor Jackson dice di aver dimenticato qualcosa di importante nello studio di registrazione. Dovrei andare. Mi scusi, la prego » mormorò mortificato.

Gli sorrisi come per tranquillizzarlo. Non volevo che si sentisse in colpa.

« Sto quasi per finire. Può andare. La ringrazio per la campagnia » parlai.

Lui annuì, congedandomi con un cenno del capo. Poi si voltò e camminò via, calpestando l'erba con i suoi mocassini lucidi e neri.
Stavo per riprendere a lavorare, ma la sensazione di essere osservata mi bloccò.
Voltai lo sguardo a destra e poi a sinistra, ma in quel grande parco c'ero solo io.
Alzai istintivamente la testa verso alla finestra che dava sulla camera di Michael, restando leggermente sorpresa quando incrociai la sua figura intenta ad osservarmi dall'alto.
Teneva in mano il suo costoso cellulare mentre l'altra era intascata nei suoi pantaloni aderenti in grado di mettergli in risalto le gambe da urlo che possedeva.
Lo accese nuovamente, digitando qualcosa velocemente, poi lo portò all'orecchio, riportando la sua attenzione sulla mia figura.
Il mio cellulare squillò ed io passai il rastrello nell'altra mano, prima di cercarlo nelle mie tasche anteriori ed estrarlo.
Il suo nome comparve sulla schermata illuminata.
Presi un bel respiro, per poi rispondere, portandomi il telefono vicino all'orecchio.

« Mi copriva la vista. »

La sua voce era roca e profonda.
Alzai gli occhi con sguardo sorpreso, guardandolo.
Aveva un'espressione seria; la mascella contratta in una smorfia che non seppi decifrare.
L'unica cosa che percepii in quel momento, fu il tremolio delle mie gambe.
E persi un battito.

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