Capitolo 28


C A P I T O L O 28

Erano passati due giorni da quando vidi il volto di mio padre dopo diverso tempo e, dopo a quell'avvenimento improvviso, avevo passato il resto delle mie giornate e del mio tempo, correndo all'ospedale, per poi ritornare a casa tardi, quando mia madre rientrava da lavoro stanca e senza forze.
Mi preoccupavo di cucinarle da mangiare, pulire la casa e fare spesa.
Ma quella mattina, fu diversa.
Avevo da poco finito di sistemare la casa e dato che quel giorno il sole splendeva alto nel cielo, avevo deciso di uscire un po', per poter ritornare a visitare quella città che mi aveva accompagnata durante ai giorni della mia infanzia.
Mia madre era andata al lavoro presto, raccomandandomi di non aspettarla per cena.
"Ritornerò tardi, come sempre", mi aveva detto, ma sprecare quell'opportunitá di poter risedere a tavola con la donna che mi aveva cresciuta, sarebbe come sprecare l'ultimo pezzo di torta rimasto.
Indossai una semplice gonna nera attillata e corta fino alle ginocchia, un maglioncino azzurro incastrato dentro ad essa e i miei tacchi alti, accompagnate da delle calze trasparenti e sottili, lunghe fino alle gambe.
Lasciai i miei capelli sciolti, pettinandoli con estrema cura, com'ero solita fare, poi, dopo aver afferrato la mia borsa e il mio cappotto scuro, uscì di casa velocemente, chiudendomi la porta alle spalle.
Percorsi il tratto di scale con rapidità, lasciando che il rumore fastidioso dei miei tacchi, riecchegiasse per tutto l'appartamento.
Quando raggiunsi l'uscita, l'aria mattutina fresca mi sfiorò il viso, ricoprendo la mia pelle di brividi che solleticarono le mie guance rosee, pizzicandomeli.
Brooklyn era magnifica sotto ai raggi di quel sole abbagliante.
I passanti correvano da una parte all'altra con bambini in ritardo alla lezione e uomini in giacca e cravatta in ritardo al lavoro.
Li guardavo attentamente, passando il mio sguardo da una parte all'altra, lasciandomi sfuggire un sorriso divertito, qualvolta incrociavo lo sguardo disperato di un passante.
Tirai su il colletto del mio maglioncino, respirando a pieni polmoni l'aria rinfrescante del giorno.
Avevo voglia di passare da mio padre, magari a portagli uno dei suoi cornetti alla marmellata preferita che sfornavano caldo e profumato nel panificio poco distante da casa.
Ricordo che era solito comprarne quattro quasi ogni lunedì, quando il prezzo di essi si dimezzava.
E mia ed io, contente, correvamo a tavola come razzi, saltando sulla sedia in legno, per poi consumarli in compagnia dei nostri genitori.
Mi fermai per un minuto, guardandomi attorno lentamente, mentre lasciavo che un leggero sorriso aleggiasse sulle mie labbra rosee.
Era da un lasso di tempo che non percorrevo quelle stradine così affollate e, ritornarci era come ritornare in un posto tanto atteso e cercato.
I miei tacchi calpestavano l'asfalto grigio, dove gran parte dalle auto e dei motociclisti la bruciava sotto alle loro grandi ruote.
L'odore del fumo e della benzina aveva contaminato gran parte dell'aria, arrivando a sfiorare anche le mie piccole narici.
Una smorfia disgustata si dipinse sul mio volto coperto da piccoli brividi, causati dal vento che continuava a soffiare nella mia direzione.
Poi, riprendendo a camminare, attraversai la strada, camminando sulle strisce pedonali, mentre altri passanti mi sfioravano il gomito.
Il panificio non era molto distante, infatti, dopo vari minuti, mi ritrovai ad attraversare la piccola soglia che, all'aprire la porta di vetro, un piccolo campanellino sopra alla mia testa, suonò.
Un forte profumo di lievito mi avvolse a pieno e un dolce calore abbracciò il mio esile corpo.
Mi guardai attorno con ammirazione, notando che tutto era rimasto lo stesso, anche i più piccoli particolari.
Un piccolo tappeto marrone era stato tappezzato proprio all'entrata, ed io, non volevo essere maleducata, strofinati leggermente i miei piedi su quel tessuto ruvido, emettendo un leggero suono tedioso, dovuto alle suole delle mie scarpe.
Avanzai verso al bancone, cominciando ad osservare con estrema lentezza e attenzione, ogni dolcetto che vi era esposto.
La maggior parte di essi erano farciti o riempiti di marmellata alle fragole, lamponi ed albicocche.
Solo pochi pasticcini erano imbottiti di crema e cioccolato.

« Buongiorno signorina. Come potrei essere d'aiuto? »

Alzai lo sguardo, incrociando un paio di occhi neri come la pece e un viso pallido ricoperto di piccole lentiggini che si formavano sulle guance, divulgandosi in tutta la zona t, per poi sparire sulla punta del naso.
Un ragazzo giovane, direi, era ferma davanti a me, un sorriso amichevole aleggiava sulle sue labbra carnose.
Indossava un grembiule rosso, sotto una camicetta nera.
Ricambiai il sorriso, raddrizzandomi per poterla osservare meglio.

« Buongiorno anche lei. Mi domandavo se avete ancora quei cornetti alla marmellata di fragole. Non ricordo bene il nome, mi scusi » mormorai, con un sorriso impacciato sul volto.

Ella sorrise divertita, forse dalla mia espressione incagliata, poi, dopo avermi fatto un cenno con una mano, si allontanò, sparendo dietro ad una porta in metallo, che forse, conduceva alla cucina.
Aspettai in silenzio, picchiettando piano un piede contro alla superficie in legno scura.
Era da tanto tempo che non entravo in quel posto e con il passare del tempo, la vecchia signora simpatica, proprietaria del negozio, aveva ceduto il suo posto ad un'altra ragazza che non avevo mai visto prima.
Dopo un paio di minuti, ella sbucò nuovamente, con un largo sorriso dipinto sul volto e una taglia da cui proveniva del fumo che si alzava, dissolvendosi nell'aria.

« Eccoli qui i cornetti! Stamattina è arrivato un signore alquanto strano e bizzarro e aveva preso gli ultimi sei cornetti rimasti » esclamò ridacchiando.
Poi, poggiandoli sul bancone in marmo grigia, mi sorrise.

« Quante ne desidera? » domandò.

« Due. Ne vorrei due » risposi, ricambiando il sorriso.

Ella annuì e, dopo aver afferrato un sacchettino blu e bianco, afferrò due cornetti, mettendoli dentro ad esso.
Poi, dopo averlo piegato accuratamente, me lo porse.
La ringraziai, prendendolo e dopo aver pagato uscii, incamminandomi verso ad una fermata.






Arrivai all'ospedale in poco tempo.
L'autobus si fermò proprio di fronte al grande edificio e quello che subito notai, fu una massa di persone ferme proprio davanti all'entrata e quattro poliziotti intenti a bloccare le persone che, urlando, protestavano di entrare.
Due grande macchine nere erano parcheggiate proprio all'entrata dell'enorme edificio e subito riconobbi a chi appartenessero.
Spalancai gli occhi e, con rapidità assurda, scesi dal grande mezzo di trasporto, correndo verso all'ospedale noncurante dei passanti che mi rivolgevano sguardi confusi.
Poi, una ragazza poco distante da me, si voltò verso alla mia direzione e, puntandomi un dito contro, spalancò gli occhi, urlando: « È la ragazza misteriosa! È lei! »

Mi fermai, guardandola con un'espressione confusa, poi, quando mi accorsi che gran parte della folla si voltò verso di me, spalancai gli occhi, correndo da tutt'altra parte.

« Fermati! Vogliamo una tua foto! » esclamavano.

Il mio cuore cominciò a battere velocemente, e le mie gambe avevano cominciato a tremare senza sosta, tant'è che correre era ora un problema.
Mi fermai per brevi secondi, cercando di riprendere fiato, e, quando mi voltai per controllare di averli seminati, un uomo cinese, con una macchina fotografica appesa attorno al collo e un paio di occhiali da vista sopra alla punta del naso, si fermò per un po', guardandosi attorno e, quando scorse la mia figura, urlò con gli occhi spalancati: « Da questa parte! »
Imprecai ad alta voce, riprendendo a correre verso ad una meta a me sconosciuta, svoltando l'angolo del grande edificio che sembrava non finire mai.
Le piante dei miei piedi cominciarono a duolersi, a causa dei miei tacchi un po' troppo alti e divenuto scomodi.
Correvo velocemente, seminandoli per poco quando una mano afferrò il mio polso sinistro, trascinandomi dentro ad una stanza nera.
Urlai per la paura, ma il mio urlo fu soffocato da un'altra mano che andò ad appoggiarsi sopra alle mie labbra rosee e secche, mentre quella che teneva il mio polso, andò a circondarmi la vita con una velocità assurda.
Udii la mia spalla scontrarsi contro ad una parete fredda e senza volere un gemito di dolore soffocato, lasciò la mia bocca.
Alzai lo sguardo, cercando, con quel buio assurdo, di identificare il volto del mio salvatore, ma tutto quello che riuscii a scorgere fu un'altra parete bianca illuminata leggermente dalla luce proveniente da sotto alla soglia della porta.
Un fiato caldo solleticò il mio collo e la mano che fino a poco prima copriva le mie labbra, si allontanò dal mio corpo, andando a depositarsi sopra al mio fianco destro.
Cercai di riprendere fiato e, quando la figura allontanò leggermente il viso dal mio collo, la prima cosa che incrociai furono i suoi occhi color pece.
Spalancai le mie iridi e le mie gambe si fecero gelatina.
Il mio cuore riprese a battere velocemente, anzi, questa volta batteva più veloce di prima, sobbalzandomi quasi nel petto.
Erano soltanto da due giorni che non incrociavo quel viso dai lineamenti eleganti, ma quel piccolo tempo passato in sua lontananza, mi aveva in un certo senso attanagliato l'anima.

« Stai bene? » mi domandò con la sua voce roca, inumidendosi le labbra con la propria lingua.

A quella domanda sussultai, risvegliandomi dal mio stato di trance.
Ero rimasta ad osservare il suo volto illuminato da quella fioca luce, riuscendo a marcare i suoi lineamenti meno visibili.
Annuii velocemente, rilasciando tutta l'aria che avevo trattenuto per quel piccolo lasso di tempo, mentre ero intenta ad ammirare affascinata, quel volto che sembrava essere stato da poco scolpito, dal miglior scultore fosse mai esistito.
E proprio quando pensavo di riprendermi da quella turbine di emozioni, Michael, in un gesto veloce, mi afferrò per le spalle, attirandomi contro al suo corpo fasciato dal suo cappotto pesante.
Avvolse il mio busto con le sue braccia, portando una mano sulla mia testa, mentre l'altra andò a depositarla sopra alla mia schiena e, nascondendo il suo viso nell'incavo del mio collo, strofinò leggermente il suo naso e le sue labbra contro alla mia pelle ormai accaldata.

« Mi sono spaventato » sussurrò con voce leggermente tremante e bassa.

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