Capitolo 25
C A P I T O L O 25
Udii qualcuno scuotermi leggermente ed una voce dolce e bassa, chiamarmi per nome.
Socchiusi gli occhi, percependo subito un calore sotto al mio orecchio.
Aggrottai la fronte, inumidendomi le labbra con la lingua e, dopo essermi accorta di dove fossi, balzai in piedi, causandomi un lieve giramento di testa che mi fece barcollare leggermente.
Mi ero addormentata sul petto di Michael e questo ora era di fianco a me, in piedi.
« Stai bene? » mi domandò, sfiorando leggermente il mio braccio avvolto dal mio cappotto grigio.
Lo guardai, notando che teneva in una mano il suo cappotto nero e il suo cappello.
Mi scrutava con attenzione, assicurandosi forse che stessi bene, prima di farmi scendere.
« Sì. Sì, sto bene » risposi, cercando di mettere a fuoco ciò che successe poco fa.
Cercai di fare un piccolo salto nel passato, ricordandomi di essere stata avvolta fra le sue braccia ed essere stata cullata con la sua voce angelica, prima di cadere in un sonno traditorio.
Avevo perso la concezione del tempo e, solo quando mi accorsi di quanto tardi fosse, sobbalzai, spalancando gli occhi.
« Michael, dobbiamo andare » esclamai.
A quel punto sentii delle urla provenire da fuori. Mi affacciai al finestrino, notando un paio di persone intente a reggere in mano dei cartelloni con il suo nome scritto in grande.
Erano i suoi ammiratori e con loro vi erano anche tre giornalisti pronti a riempirlo di domande e sciocchezze.
Sapevo quanto tardi fosse e mi meravigliai di sapere che quelle persone erano uscite di casa per assistere al suo arrivo.
Ma come avevano fatto a scoprirlo?
Guardai Michael con una nota di preoccupazione in volto.
« Michael, cosa - »
Egli si infilò il cappello frettolosamente, indossando poi il suo cappotto scuro e un paio di occhiali neri, prestandomene un paio anche a me.
« Mettiteli e non rispondere a nessuna domanda. Cammineremo dritto fino all'auto che ci attende, chiaro? » disse.
Presi gli occhiali, leggermente titubante e, dopo avermeli indossati, portai una ciocca dei miei lunghi capelli dietro all'orecchio.
« Cosa devo fare allora? » chiesi.
Lui afferrò subito una mia mano, guardandomi attraverso a quelle lenti scure.
« Stammi soltanto vicino. Javon e Bill ci faranno da scudo » replicò.
Annuii e basta, forse un po' incerta. Era la prima volta che mi trovavo in una situazione di quel genere e per di più si parlava del re del pop. Di Michael Jackson.
Strinsi la presa, nervosa. Le mie mani tremavano e sudavano senza sosta e lui se ne accorse subito. Infatti mi rivolse una veloce occhiata, accennandomi un mezzo e dolce sorriso che io ricambiai con uno tremante.
Ci avviammo verso all'uscita e le sue due guardie del corpo, erano dinanzi a noi, proteggendoci con il corpo e le mani da quei flash abbaglianti che avevano cominciato ad accecarci.
« Michael, l'auto si trova alla sua destra. Raggiungetela con prudenza » parlò Javon, lanciandogli una veloce occhiata.
Jackson lo ringraziò gentilmente, e, dopo avermi guardata di nuovo, cominciò a scendere le scale, con me al suo fianco.
Il vento mi colpì a pieno le gambe scoperte da quella gonna lunga fino alle ginocchia ed il viso, scompigliandomi i capelli che andarono a depositarsi davanti ai miei occhi.
Michael era tranquillo, anzi si limitava pure a sorridere, salutando quelle persone che avevano appena comincia ad urlare a squarciagola il suo nome.
Alzava le mani per aria, agitandola e mostrando loro il segno della pace, a volte invece mandava loro dei baci, ridacchiando subito dopo.
La sua risata contagiò di poco anche me, anche se ero spaventata.
Un uomo sulla trentina si avvicinò a me, reggendo in mano una fotocamera ed un microfono con una striscia rossa attaccata al manico.
Cominciò a scartarmi alcune foto ed io istintivamente mi parai il viso con le mani, cercando di evitare quella luce abbagliante.
« Signorina, mi dica chi è lei » esclamò, tendendo il microfono in avanti.
« Signore, la prego, si allontani » lo congedò gentilmente Bill, poggiando una mano sulla sua spalla per allontanarlo dal mio corpo ormai tremante.
Ma egli sembrava opporsi. Si dimenò e, dopo essersi sciolto si avvicinò nuovamente alla mia figura, questa volta finendomi praticamente addosso.
Barcollai leggermente, sbattendo contro al braccio di Michael ed attirando così la sua attenzione.
Mi guardò e, dopo aver guardato di fianco a me, lo vidi mordersi il labbro inferiore, contraendo istintivamente la mascella.
Allungò una mano e, in uno strattone mi attirò a sé, allontanando bruscamente l'uomo che spalancò sorpreso gli occhi.
« Le stia lontano! » esclamò alterato.
Mi aggrappai al suo braccio, come se esso fosse un mio rifugio.
Raggiungere la vettura nera fu un'impresa difficile.
Il nostro cammino era sempre stato ostacolato dai giornalisti e, per avere due soli bodyguards, ci risultava difficile allontanarli.
E, una volta arrivati, Michael spalancò velocemente la porta, invitandomi ad entrare.
Non me lo feci ripetere e senza aspettare più di un secondo, mi fiondai dentro all'auto, prendendo posto nei sedili posteriori.
Notai Michael intento a lanciare un ultimo saluto ai suoi ammiratori che risposero con un urlo straziante, poi, dopo essersi assicurato che Bill e Javon avessero seminato tutti i giornalisti, entrò dentro, prendendo posto di fianco a me.
Mi tolsi velocemente gli occhiali, prendendo un lungo e profondo respiro.
Ero ancora terrorizzata e confusa dal caos che si era creato fuori in così poco tempo ed ora mi ritrovavo a riprendere fiato in un veicolo che non emanava aria.
I finestrini erano tutti alzati e le portiere chiuse.
« Midispiace » sussurrò egli, togliendosi pure lui le lenti scure, rivelando così i suoi occhi color pece.
Lo guardai e gli accennai un dolce e rassicurante sorriso. Almeno cercavo di farlo apparire tale.
« È tutto apposto. Non ti preoccupare » risposi.
Lui mi scrutò in silenzio per brevi secondi, sorridendomi infine.
Javon e Bill entrarono subito in macchina, cominciando a sistemarsi per partire.
« Stai bene? » mi domandò Michael.
Annuii, sorridendogli timidamente.
Il suo sguardo bruciava sulla mia pelle.
« Credo di stare bene » mormorai.
Lui sospirò, lasciandosi andare completamente, poggiando la schiena sul sedile in pelle nera ed allungando leggermente i piedi in avanti.
Si tolse il cappello, poggiandolo in mezzo a noi e, dopo aver preso un lungo respiro, chiuse gli occhi, rovesciando leggermente la testa all'indietro.
Lo guardai, cercando un modo per rompere quel silenzio imbarazzante.
I suoi bodyguards non parlavano, anzi, lanciavano di tanto in tanto delle occhiate allo specchietto retrovisore, accertandosi che fosse tutto apposto, poi, con voce bassa conversavano fra di loro. Affari, credo.
« Ti ringrazio per poco fa » dissi, guardandolo con un sorriso di gratitudine.
Lui, sempre con gli occhi chiusi sorrise.
Alzò una mano, facendo un cenno che mi fece capire di aver ricevuto il mio messaggio ed aver risposto con un 'non ti preoccupare'.
Sorrisi, sistemandomi completamente sui sedili, portando entrambe le mani sulle mie gambe coperte dal tessuto di quella donna leggermente alzata.
Lanciai uno sguardo fuori dal finestrino, osservando il paesaggio malinconico ed avvolto dalle tenebre, che scorreva veloce davanti ai miei occhi stanchi.
E fu in quel momento che le parole di mia madre mi ritornarono in testa come un treno in fuga.
"Ho bisogno di te"
Se in quel momento ci fosse stata pure mia sorella, al nostro fianco, ella sarebbe di sicuro accorsa in suo aiuto per prima, dimenticandosi del resto.
Ma no. Ella non era più presente.
Si trovava da tutt'altra parte del mondo, forse vagando in giro con i suoi bambini, la sua famiglia.
Ed aveva dimenticato una parte importante della sua vita.
Sospirai affranta, poggiando la fronte contro al finestrino.
« Spero che suo padre si rimetta presto, signorina Jones. »
La voce roca e profonda di Javon mi risvegliò dai pensieri, obbligandomi ad appoggiare lo sguardo davanti a me.
Sorrisi appena, passandomi una mano sul viso.
« Lo spero anch'io. Ma la prego, mi dia del tu » replicai.
Lui ridacchiò impacciato, seguito da Bill che sorrise.
« Solo se lo farà anche lei, signorina » replicò, lanciandomi uno sguardo veloce dallo specchietto retrovisore.
Sorrisi.
« D'accordo » mi limitai a rispondere.
Il cellulare di Michael squillò all'immprovviso, facendomi sussultare.
Egli invece sembrò frustato. Mormorò parole incomprensibili, estraendolo fuori dalla tasca del suo cappotto.
Lesse il nome sulla schermata ormai illuminata e la sua espressione si tramutò radicalmente dal irritato al sorpreso.
Io invece, non volendo invadere la sua privacy, distolsi lo sguardo dal suo corpo, ritornando a guardare il paesaggio che ormai aveva preso una sfumatura diversa.
« Pronto? Sì, ciao... Da quanto tempo » mormorò.
Udii una voce femminile ma grave, dall'altro capo della cornetta.
Michael mi lanciò una veloce occhiata, sistemandosi per bene sui sedili ed avvicinando maggiormente l'oggetto al proprio orecchio.
« Ora non posso, midispiace » mormorò.
Ci fu un minuto di silenzio, poi, egli riprese a parlare.
« Lisa, ora sono impegnato. Potrei richiamarti in mattinata? Certo, puoi venire a Neverland tra due giorni, se vuoi » disse.
Lisa. La figlia di Elvis Presley, la donna cui Michael aveva perso la testa.
Cosa ci faceva a quella tarda ora sveglia?
Michael le parlava con una nota di allegria nella sua espressione stanca, quasi avesse tanto atteso quel momento che arrivò nel giorno sbagliato e nell'ora sbagliata.
Non ero per niente riuscita ad udire ciò che ella gli disse, ma sapevo soltanto che sarebbe arrivata tra due giorni a Neverland, quanto io sarei stata lontano da lui.
Avrebbero passato una giornata insieme e magari anche una notte ed io sarei stata lontana a prendermi cura della mia famiglia.
Egli, dopo averla congedata dolcemente, chiuse la chiamata, intascando il cellulare, per poi lanciarmi una veloce occhiata.
Ricambiai, ritornando poi a fissare fuori dal finestrino.
Non ero arrabbiata con lui, anzi, ero soltanto ferita.
In fondo, sapevo che quello che provavo io, lui non lo ricambiava. Eppure ero così cocciuta da mentire me stessa, ogni volta che lui mi rivolgeva attenzioni e carezze.
Mi ferivo da sola perché non riuscivo ad accettare di essermi forse innamorata di una persona diversa da me e dai sentimenti offuscati a causa di quella donna che aveva fatto la sua comparsa anche quella notte, facendomi fare due passi indietro, mentre lei ne faceva tre in avanti.
La luce abbagliante che circondava l'edificio, mi colpì in pieno viso.
Una grande scritta aleggiava sopra, quasi vicino al tetto.
Interfaith Medical Center.
Realizzai solo allora di essere arrivata a quel posto così terrificante.
Avevo da sempre odiato gli ospedali e tutto quello che c'entrava con i dottori.
Da bambina esso era stata la mia più grande paura.
Lanciai uno sguardo veloce al cielo che pian piano cominciava ad emanare luce e ciò mi fece pensare che il sole stava per sorgere.
Era quasi l'alba e l'orologio segnavano quasi le sei.
Bill parcheggiò l'auto proprio dietro all'ospedale, dove ad attenderci vi erano altri tre uomini in giacca e cravatta e due poliziotti intenti a scrutarsi attorno.
Presi un lungo respiro e dopo che l'auto fu parcheggiata, ringraziai i due omoni, uscendo velocemente dalla vettura, seguita da Michael che indossò nuovamente i suoi occhiali e il suo cappello scuro.
« Papà si trova al quarto piano » dissi.
Lui annuì e quando fummo scortati davanti all'ascensore, le mie mani ripresero a tremare ed a sudare con insistenza.
Molte persone si erano fermate ad osservarci con stupore e meraviglia.
Altri ancora si sono avvicinati domandando a Michael una foto ed un autografo, ma lui aveva rifiutato gentilmente e con una punta di amarezza, spiegando velocemente loro la situazione.
Mi sentii vulnerabile, esposta sotto a tutte quelle attenzione da parte di persone a me sconosciute.
Ero agitata anche perché mi sarei dovuta presentare con al fianco la persona più famosa di questo pianeta. Non sapevo quale sarebbe stata la reazione di mia madre, ma di sicuro sarebbe rimasta anche scioccata nel sapere che Michael si era preoccupato di accompagnarmi, senza chiedere nulla in cambio.
Entrammo nell'ascensore ed una volta che Javon cliccò sul tasto che raffigurava il numero quattro, ovvero reparto di terapia intensiva cominciai ad udire le mie gambe tremare.
Sembravano due gelatine scosse da un tremolio.
Mi sentivo debole. Non ero riuscita a dormire bene e Michael non aveva per niente chiuso occhio, tanto preoccupato fosse.
Ed ora, con lo sguardo stanco e il volto leggermente pallido, fissava un punto indefinito, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Avrei voluto prendergli la mano, stringerlo e magari dirgli che andrà tutto bene, ma la presenza di tutte quelle persone me lo impedivano.
Quando le porte si aprirono, scorrendo, uscimmo insieme, iniziando a correre in cerca di mia madre.
Era da sola in quel momento e sapevo quanto fosse spaventata.
Cercammo in tutti i corridoi, ed infine, quando notai una figura femminile seduta su una di quelle tante sedie scomode, mi bloccai all'immprovviso e con me tutti gli altri.
La osservai in lontananza per qualche minuto, mentre i miei occhi cominciarono a farsi lucidi.
Era quasi ranicchiata su se stessa mentre davanti al naso ed alla bocca, si teneva un fazzoletto bianco. I suoi capelli biondi erano raccolti in una crocchia disordinata, mentre il suo corpo era avvolto attorno ad una coperta grigia.
Dondolava in avanti e all'indietro, fissando il pavimento di marmo azzurro, con sguardo abbattuto.
Feci un passo in avanti, mentre gli altri erano fermi sul posto, osservando con malinconia, la donna afflitta dai suoi sentimenti ed in preda al panico per la persona che più amava al mondo.
« Mamma » sussurrai.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top