Capitolo 24


C A P I T O L O 24

Il mio cellulare squillò all'immprovviso, destandomi bruscamente dai miei pensieri poco intelligenti.
Avevo appena finito di sistemare i divani del grande salone, posizionando i cuscini colorati al loro posto e, svolgendo quel lavoro, mi era apparso in testa il ricordo di me e dei bambini, insieme ad Angie, seduti per la prima volta in quella stanza enorme con quel bellissimo camino elegante.
Mi raddrizzai, estraendo fuori dalla tasca del mio grembiule, il mio vecchio cellulare.
Appena lessi il nome sullo schermo illuminato, sorrisi allegra, rispondendo subito.

« Papà! » esclamai.

Un sospiro e poi un singhiozzo dall'altra parte spazzò via la mia allegria, facendo comparire sul mio volto un'espressione confusa e preoccupata.

« Pronto? » mormoro.

« Kara. »

Quella voce l'avrei potuta riconoscere fra mille. Mia madre. Singhiozzava e riuscivo perfettamente ad udire il suono di lei mentre singhiozzava, tirando su col naso.

« Kara, tuo padre sta molto
male » esclamò in un pianto disperato.

Tuo padre sta molto male. Spalancai gli occhi bruscamente, cadendo sul divano con peso morto.
Non ero riuscita a sentire la voce di mio padre per così tanto tempo ed ora che pensavo fosse stato lui a chiamarmi, avevo ricevuto una notizia allarmante.
Ero molto lontana dai miei genitori, dalla mia famiglia ed arrivare entro l'indomani mattina, sarebbe stata un'impresa difficile.
Erano già le nove passate ed il buio era calato notevolmente, avvinghiando il paesaggio con un'oscurità disarmante.

« Mamma...Di cosa stai parlando? Cosa gli è successo? » domandai velocemente, cercando di trattenere le lacrime che avevano cominciato a formarsi nelle mie iridi poco chiare.

« Lui... » - singhiozzò - « Stavamo mangiando ed all'improvviso è caduto privo di sensi. Non respirava e ho chiamato l'ambulanza. L'hanno trasportato in terapia intensiva » replicò a tratti, soffermandosi di tanto in tanto per riprendere fiato.

Era spaventata e lo potevo perfettamente udire nel tremolio della sua dolce e candida voce ormai strozzata dal dolore.

« Kara, ho bisogno di te. Vieni qui subito, ti prego » sussurrò, riprendendo a piangere.

Un groppo dolorante si formò nella mia gola e tutto quello che riuscii a fare fu quello di reprimerlo con tutte le mie forze, seppur esso risultasse difficile.
Non dovevo piangere. Avrei dovuto sostenere mia madre, essere forte per lei e per mio padre.
Dovevo essere forte per la mia famiglia.

« Mamma, sto arrivando, non ti preoccupare. Sei ancora all'ospedale? » domandai, alzandomi di scatto dal divano.

« Sì, ti prego, fai in fretta » mi supplicò ella, chiudendo poi la chiamata.

Allontanai il cellulare dal mio orecchio, guardandolo per brevi secondi, non riuscendo ancora ad accettare ciò che poco prima udii.
Era la prima volta che ciò succedeva a mio padre e la paura aveva preso il sopravvento anche su di me, tant'è che, come un fulmine, corsi verso alla porta principale, cercando Michael con lo sguardo e chiamandolo per nome.
Quando voltai nell'angolo, andai a finire contro qualcuno che mi afferrò saldamente per le braccia e, solo quando alzai lo sguardo, incontrai il viso di Michael contratto in un'espressione preoccupata.

« Michael, ti prego, devi
aiutarmi » lo supplicai, afferrandogli velocemente le braccia.

Lui aggrottò la fronte, anche se il suo sguardo allarmato non svanì.

« Di cosa stai parlando? Che succede Kara? » chiese.

« Mio padre » - esclamai, con gli occhi ormai lucidi - « mio padre sta molto male. È all'ospedale. Ti prego Michael, potresti accompagnarmi? Te ne sarò debitosa, ma ora ho bisogno del tuo aiuto. »

A quella frase, i suoi due bodyguards che in quel momento mi scrutavano confusi, si raddrizzarono immediatamente, con il petto leggermente in fuori e la schiena dritta.
Michael invece spalancò gli occhi.

« Cosa? Dove si trovano i tuoi genitori? » domanda, scrutandomi negli occhi attentamente.

« Brooklyn. Si trovano a Brooklyn » risposi affannata.

« Javon, Bill, vi prego, preparate il mio jet privato. Entro mezz'ora lo voglio pronto » disse, rivolgendosi ai due omoni in giacca e cravatta con voce autoritaria.

Loro annuirono immediatamente, e, avermi rivolto uno sguardo rassicurante, si allontanarono velocemente.
Michael invece si apprestò a guardarmi, poggiando una mano sulla mia testa, accarezzandomi i capelli.

« Saremo lì in poco tempo. Non ti preoccupare. Se vuoi intanto puoi preparare alcuni tuoi
vestiti » disse.

Sgranai leggermente gli occhi, guardandolo.
Preparare dei vestiti? Perché?
Lui, restò per brevi secondi in silenzio, poi, come se mi avesse letto nei pensieri, parlò: « Non puoi lasciare tua madre in quello stato. Provvederò a darti un po' di tempo per la tua famiglia. Non preoccuparti per il lavoro. »

I miei occhi si riempirono di lacrime. Quest'uomo era in grado di sorprendermi ogni volta sempre di più.
Era una persona dall'animo genuino e gentile e persone come lui vi erano poche al mondo.

« Ti ringrazio » riuscii a dire, con la voce spezzata dal groppo fastidioso in gola.

Lui mi accennò un leggero e malinconico sorriso, prima di incitarmi con il capo ad affrettarmi.

« Tra quindici minuti saremo fuori. Preparati » sussurrò.

Mi allontanai velocemente dalla sua figura, correndo su per le scale con una velocità assurda.
Non dovevo perdere tempo.
I miei genitori mi stavano aspettando e non potrei farli attendere ancora per molto.






Eravamo già da tre ore che sorvolavamo una parte della grande America addormentata con il jet privato di Michael.
Ed in quelle tre ore ero riuscita a contattare mia madre per sapere come stesse papà ed a domandarle in che ospedale si trovassero.
Avevo parlato anche con Angie che si era offerta di accompagnarmi, ma avevo rifiutato gentilmente, dicendole che si sarebbe dovuta prendere cura dei bambini e di Lily che si stava rimettendo pian piano.
Michael invece, osservava fuori dal finestrino in silenzio, con un velo di malinconia a dipingergli quelle iridi scure e profonde.
Si era preoccupato di contattare un taxi privato che si sarebbe poi preoccupato di accompagnarci all'ospedale e si era anche preoccupato di cercare un luogo dove ci sarebbe avuto la massima riservatezza.
Era pur sempre Michael Jackson. Non voleva di certo essere assalito da giornalisti e persone pazze.
Io ero seduta al suo fianco, intenta a pregare ed a giocherellare con le mie stesse mani, nervosa ed in preda all'ansia.
Poi egli si mosse, voltando la testa nella mia direzione.
Mi osservò per brevi secondi e, dopo aver esitato, poggiò una sua grande e calda mano sulle mie, bloccandole.
Sussultai leggermente, guardando le sue mani per interminabili secondi.
Il contatto della sua pelle contro alla mia, mi causò leggeri brividi che percorsero la mia schiena, arrivando fino al collo.
Con l'altra mano invece, andò a portarlo sotto al mio mento, voltando dolcemente il mio viso verso al suo perfetto.

« Andrà tutto bene, vedrai » mi sussurrò, accennandomi un dolce sorriso.

« Ho paura, Michael » mormorai, con la voce tremante e il corpo scosso da brividi ed emozioni in contrasto fra di loro.

Lui, senza parlare, andò ad appoggiare la mano che, fino a poco prima si trovava sotto al mio mento, ora sulla mia testa, attirandomi con cautela verso di lui, facendo così appoggiare la mia testa contro al suo petto.
Cominciò a cullarmi in silenzio, accarezzandomi i capelli e le mani con dolcezza.
Non riuscivo ad opprimermi.
Avevo bisogno di qualcuno che fosse in grado di stare al mio fianco in quel momento e, lui, seppur non mi avesse conosciuto abbastanza, si era fin da subito dimostrato disponibile ad aiutarmi.
Un angelo. Ecco cos'era.
Con voce bassa e dolce, cominciò a cantare una canzone che ricordai di aver sentito passare alla radio, quando lavoravo ancora all'orfanotrofio.
E quella fu la prima volta che lo sentii cantare. La prima volta in quasi un mese di conoscenza.
La sua voce era dolce, melodiosa e tranquilla. L'ascoltavo in silenzio, e senza accorgermene essa mi stava cullando dolcemente.
Il suo respiro caldo e sottile facevano da sottofondo a quella melodia ormai divenuta padrone di quel silenzio provocante e le sue mani avevano cominciato ad accarezzarmi le braccia, come se quello fosse il suo modo di dirmi che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Non sapevo se credergli o no. Nella mia vita avevo ricevuto così tante sconfitte e problemi che avevo superato con tanta fatica e dopo un lasso di tempo ormai scontato.
Ma ogni qualvolta che mi ritrovavo fra le sue braccia, tutte le mie paure ed insicurezze scomparivano.
Mi sentivo rinata, diversa e con il passare dei giorni mi ero accorta che la sua presenza non solo mi faceva stare bene, ma mi curava da ogni mio problema.
Mi bastava poterlo vedere per sentirmi viva e felice, udire una sua risata cristallina per ridere e un suo sguardo e carezza leggera per sentirmi amata.
Mi bastava solo lui, eppure non riuscivo a comprenderlo.
E proprio in quel momento, stretta fra le sue braccia, ascoltavo la sua voce melodica cantarmi una canzone a bassa voce, cullandomi con le sue braccia forti e rassicuranti.
Avvicinò le sue labbra al mio orecchio, smettendo di cantare e, dopo aver preso un lungo respiro sussurrò: « Ci sono io qui con te, Kara. Non temere. »

E mi bastò quella frase per dar riposo alla mia anima ormai abbattuta e il mio cuore scosso da tremolii asfissianti.
Mi bastò avere lui al mio fianco.

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