Capitolo 1 - In mezzo al nulla.

Katherine.

Una delle prime regole dell'amicizia è aiutarsi l'un l'altro quando si è in difficoltà. O, meglio, non mettere in difficoltà un tuo amico.
Ci avevo sempre creduto e l'avevo sempre rispettata. Io. Già, io.
Lei no. Lei mi aveva scaricata lì, in mezzo al nulla, in quella stazione di servizio, aveva messo in moto la macchina e se ne era semplicemente... andata.
Roxi Smith, una delle persone che consideravo amiche, mi aveva abbandonata.
Era sparita.
Evaporata.
Scomparsa.
L'unica traccia della sua precaria presenza su quella strada si riduceva all'insieme di striature scure sopra l'asfalto.
Va bene, Katherine, mi dissi cercando di stemperare la mia mente dalla rabbia. Adesso mantieni la calma. Trova una soluzione.
Trovare una soluzione.

Mi guardai intorno; c'era solo la stazione di servizio, alle mie spalle, e un tipo sulla cinquantina, barbuto e segaligno, che mi fissava come se non avesse mai visto una ragazza con una minigonna, scarpe tacco dieci e una camicetta bianca ornata di pizzo prima d'ora. Cominciai a battere la punta dei miei stivali contro l'asfalto impolverato, controllando l'ora sull'orologio al mio polso. 12:37, ora di punta nella mia amatissima New York.
New York, che adesso mi mancava più che mai. Dannata Roxi, pensai con rabbia scuotendo la testa.

In preda all'ira sganciai di fretta l'apertura della borsa e, rovistando tra ombretti, rossetti e portacipria, estrassi il cellulare.
L'ultima chiamata era proprio la sua. Schiacciai sul tasto verde e attesi ansiosa, mentre camminavo avanti e indietro facendo attenzione a non avvicinarmi troppo al tipo attempato a pochi metri da me.

-Kathie, tesoro!-
La voce di Roxi, cristallina e squillante, sembrò voler uscire dallo schermo. Mi punse le orecchie come uno spillo.
Serrai le labbra.

-Dove diavolo sei?-

La mia voce risultò essere quanto di più vicino a un'aggressione potesse esistere. Non riuscivo davvero a credere che mi avesse lasciata lì, a piedi, senza nemmeno uno straccio di bagaglio, e se ne fosse andata chissà dove a fare chissà cosa. E con chi, poi?

-Se non sbaglio avevi detto di volere un'avventura, no?- rispose lei. In sottofondo sentii una risata.
-Beh, è il momento di muovere il culo, K. Vedrai, quando avrai vissuto quest'avventura mi ringrazierai.-
-Roxi, te lo dico una volta soltanto: torna a prendermi.-
Presi un respiro profondo, mordicchiandomi il labbro inferiore.
-Per favore- aggiunsi in tono più mite. Con lei le maniere forti non servivano.
-Potrei farlo- replicò con una leggera venatura di sarcasmo. -Ma non lo farò. Hai ventiquattro anni, K, non credi sia il caso di dare una scossa alla tua monotona vita? Divertiti!-

Due secondi dopo mi ritrovai a fissare lo schermo spento del telefono.
Aveva riattaccato. Aveva davvero riattaccato. Lei, che avrebbe dovuto starmi accanto, che non avrebbe dovuto rimarcare il concetto di monotonia della mia vita. La cosiddetta monotonia dipendeva da mia madre, comunque. Mia madre, che mi aveva sbattuta fuori di casa due mesi prima accampando la scusa che dovevo prendere in mano la mia dannatissima vita, una volta per tutte. Da allora vivevo con Roxi, che mi aveva ospitata a casa sua dopo avermi sentita piangere al telefono per una notte intera.
Piangere.
Credo fosee una delle poche cose che mi riuscivano più facilmente, nell'ultimo periodo. Dopo la morte di mio padre, maledetto incidente che gli aveva stroncato la vita, ero caduta in uno stato di immobilità catartica, inframmezzata solo dalle lacrime. Credevo di averne versate litri su litri. (Si possono quantificare le lacrime?)
Forse avevano ragione, dopotutto.

Una volta mia madre mi aveva dato della perdente davanti a tutta la scuola. Mi ero appena diplomata, il mio futuro sembrava roseo e senza troppi ostacoli, eppure ero scoppiata a piangere nel bel mezzo della consegna. Lei, quella donna arcigna, slanciata e misurata in tutto quello che faceva, la donna che mi aveva dato la vita, mi aveva umiliata davanti a compagni, amici e professori. Non avevo mai avuto un rapporto pacifico con mia madre. Del resto, lei non si era mai adoperata troppo per capire i miei stati d'animo, i pensieri e i discorsi. Non mi aveva mai capita, e forse era meglio così. L'unica persona con cui avevo un bel rapporto era papà.
Fiducia, rispetto, affetto. Gli elementi che componevano quel puzzle che ci eravamo costruiti anno dopo anno e che, dopo l'incidente, si era completamente frantumato.
Mi mancava, mio padre. In quel momento più che mai.

Meditai se chiamare qualcuno dei miei amici fosse una buona idea, ma avevo paura, stupidamente, che potessero reagire come mia madre e ridermi in faccia per la mia tangibile mancanza di orientamento e capacità organizzativa. Avevo ventiquattro anni e nessuna esperienza. Forse solo in campo di moda, ma a cosa diavolo mi serviva, la moda, in quella situazione?

Gettai il telefono nella borsa e alzai il mento, inspirando l'aria calda di quel posto sperduto nel nulla. Respirare l'aria mi aiuta a schiarirmi le idee. Alla fine decisi che rimanermene lò, con le mani in mano aspettando e sperando che qualcuno tornasse a prendermi, non mi avrebbe portato a niente. Perché nessuno sarebbe venuto a prendermi, nessuno mi avrebbe riportato a casa. Non sapevo nemmeno dove fossi capitata, ma non potevo restare ad autocommiserarmi in eterno.

Assottigliando lo sguardo mi voltai, diretta verso l'uomo che si era allontanato e ora stava passando un panno lungo il vetro della cabina.

-Mi scusi- balbettai avanzando rapidamente. Il fatto di trovarmi in minigonna davanti a un tipo che sarebbe potuto essere mio padre e che, quando si voltò, mi fissò come se fossi stata un boccone prelibato, mi rese alquanto nervosa, ma sollevai la testa dando prova di tutta la dignità che riuscii a racimolare.

-Sì?- replicò indugiando un attimo di troppo sulla mia scollatura.
Mi schiarii la gola incrociando le braccia al petto, in modo da nascondere almeno in parte l'oggetto della sua malcelata attenzione.
-Saprebbe indicarmi, per caso, un hotel o qualcosa... del genere?-
Cercai di apparire il più decisa possibile, ma quando mi guardai intorno e non notai nemmeno un'abitazione nelle vicinanze, cominciai a pensare di essere nei guai.
L'uomo sembrò meditare qualche istante, distogliendo fortunatamente l'attenzione dal mio seno, poi scosse la testa.
-Uno ci sarebbe, in effetti- disse allungando un braccio smilzo e indicando verso destra, in lontananza.
-Ma è a due miglia da qui. E con quei tacchi, perdoni la sgarbatezza, non arriverebbe a percorrere dieci metri.-
Finsi di non essere turbata da quelle parole, sfoggiando un sorriso forzato. Lo ringraziai educatamente, girandomi e tornando indietro, in direzione della strada.

Era tutto tranquillo, non soffiava un alito di vento, il paesaggio sembrava così desolato e vuoto che mi corse un brivido di nostalgia lungo la schiena. Mi mancava New York più di qualunque altra cosa, forse perfino più di quanto mi mancasse Roxi. Quando avessi scoperto il vero motivo per cui mi aveva fatto questo, mi avrebbe sentita. Dio, avrei voluto prendere a pugni qualcosa, qualunque cosa. Mi appoggiai le mani sui fianchi, fissando la strada che si estendeva per chilometri in lontananza come se aspettassi di vedere arrivare una macchina.

Non ero un'indovina, e non avevo idea di come sia possibile, ma, come un miraggio, vidi giungere la sagoma di un'auto, in lontananza. Fare autostop? Era davvero questo che stavo per fare? Chiunque ci fosse stato alla guida mi avrebbe preso una prostituta -il mio abbigliamento era un punto a mio sfavore. Naturalmente era così, quindi decido di indietreggiare. Tanto, comunque sia, quella macchina non avrebbe accostato.
E invece, contro ogni logica, fu proprio quello che accadde.

Assottigliai lo sguardo mentre il finestrino si abbassava, rivelando il viso di un uomo. A primo impatto sembrava essere sulla trentina, anno più anno meno, mascella squadrata, carnagione olivastra. Indugiai un attimo di troppo a fissare i suoi occhi... grigi? Occhi grigi? Dovevo essere impazzita. O forse era solo che non ne avevo mai visti prima di quella tonalità. Sentii la bocca secca quando quegli occhi sembrarono sorridermi.

-Ha bisogno di un passaggio, signorina? -
Allibita, indietreggiai ancora.
-Io... no, certo che no. Non sono una prostituta!- Mi scappò un gridolino d'indignazione. Mi sentivo talmente stupida in quel momento che desiderai sotterrarmi per l'imbarazzo.
Gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso appena accennato.
-Non mi ha sfiorato nemmeno per un secondo l'idea che lo fosse- replicò con voce profondamente virile.
Preda degli ormoni, ecco cosa dovevo evitare di essere. Non era propriamente un complimento, giusto?
No, Katherine, mi rispose una voce nella mia testa. Non lo è. Cielo, avevo ventiquattro anni e stavo per avere una reazione da adolescente in piena crisi ormonale.
Cercai di darmi un contegno sorridendo a mia volta.
-Grazie.-
-Quindi- riprese lui appoggiando il braccio, coperto da una camicia grigia arrotolata fino al gomito, sul finestrino. -Questo passaggio le serve o no? -
Rimasi a fissarlo interdetta, inghiottendo nervosamente.
-Potrebbe essere un assassino o uno stupratore seriale- ribattei incrociando le braccia al petto. Lo fissai tentando di assumere un'espressione indagatrice.
-Le sembro davvero una di queste due cose, signorina?-
Chiuse gli occhi scoppiando a ridere. La sua risata mi penetrò nelle orecchie e rimbombò in ogni parte più recondita del mio corpo.
Che cosa diavolo mi succedeva? Ero Katherine Stevenson e non avevo mai avuto una reazione del genere, davanti a un uomo, prima d'ora. Probabilmente era a causa di quegli occhi, così profondi e languidi, che mi sentivo così persa. Non avrei dovuto, però.
Sapevo molto bene come finivano certe questioni. Ma rimaneva, comunque, il solo modo che avevo per andarmene da qui. L'alternativa sarebbe stata sostare tutto il giorno in quella stazione di servizio, sotto la costante attenzione di quel tipo che, sospettavo, stava ancora osservando la scena da lontano.

Sbattei le palpebre, schiarendomi la gola.
-E va bene, accetto- acconsentii lanciandogli uno sguardo determinato. -Ma la avverto: con questi tacchi posso sfondare la retina di un occhio nel giro di due secondi.-
L'ammonimento sembrò inspiegabilmente divertirlo, perché arricciò il naso e sorrise di nuovo.
Poi tornò a guardarmi, annuendo in segno di resa, eppure colsi una scintilla nel suo sguardo grigio argenteo.

-Correrrò il rischio- disse suadentemente, mentre salivo in macchina.

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