3. Città invisibili

L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n'è uno è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Italo Calvino, Le città invisibili


Kamal


Baghdad, 2 luglio 2003

Con lo sguardo fisso al deserto roccioso che si staglia davanti ai miei occhi, espiro rumorosamente asciugandomi un rivolo di sudore sulla fronte.

Le pareti cristalline di basalto, che non lontano si sono sedimentate strato dopo strato, sembrano drappi di antichi altari che riflettono il cielo stellato della notte. Il paesaggio è così suggestivo da rendere sopportabile qualsiasi cosa, persino il caldo asfissiante che senza tregua ci opprime da giorni.

Vorrei rilassarmi per godermi quello spettacolo della natura, ma non posso: il mio compito non è quello di ammirare il panorama, ma sorvegliare e percepire qualsiasi cosa possa rappresentare una minaccia.

«Kamal, vuoi una sigaretta?» mi chiede il mio compagno d'armi uscendo dall'angolo buio alla mia destra.

«Non fumo» gli rispondo spazientito per la decima volta.

«Non è mai troppo tardi per cominciare» mi canzona mentre dalla sua bocca fuoriesce una nuvola di fumo che incombe verso di me. La sua provocazione mi manda in bestia, ma non reagisco perché so che è proprio la mia reazione che vuole. Io invece fingo la più totale indifferenza, continuando a scrutare l'orizzonte. Per fortuna quell'idiota smette di parlare, finché, finita la sua sigaretta, decide di lasciarmi in pace.

Sa bene che in fondo sono lì per salvargli il culo e che se stanotte potrà dormire sonni tranquilli sarà per merito mio.

Gli faccio una smorfia non appena si volta di spalle. Senza distogliere lo sguardo da ciò che ho di fronte, avvicino al volto il visore notturno per scrutare meglio qualcosa che sembra essersi mosso nelle tenebre.

Una piccola distrazione può essere fatale: il nemico può farci una rappresaglia in qualsiasi momento. Di rado mi distraggo. Osservo con attenzione e ascolto ogni più piccolo rumore che interrompe il silenzio della notte che ci sovrasta, ma sembra apparentemente tutto a posto. Eppure, non mi fido.

A volte star lì fermo per ore mi fa uscire pazzo: non ho pazienza, nonostante la prontezza e il sangue freddo che al contrario dimostro quando sono in azione. I pensieri in quel caso non hanno alcuna possibilità di paralizzarmi.

È uno dei miei limiti, per questo spesso mi mettono di turno a osservare i movimenti dell'area che circonda la base Alfa a poche miglia da Baghdad, che è caduta sotto gli Americani da qualche mese. Sono quel che si dice una testa calda. Allora lo fanno per farmi allenare alla calma e a obbedire a qualsiasi ordine di quei gran figli di puttana dei miei superiori.

Questa notte ho come un presentimento e questa sensazione non mi lascia il tempo di rimuginare sulla scelta che ho fatto due anni fa: pensavo che arruolandomi avrei combattuto in guerra e invece fino a questo momento non ho fatto altro che vedere la gente morire davanti ai miei occhi per colpa delle bombe lasciate in mezzo alla strada o dei cecchini nascosti sui tetti delle case.

Questa non è guerra, ma l'inferno.

Il nemico è ovunque, eppure mi sembra invisibile, nonostante la scia di sangue che lascia al suo passaggio.

Odio stare di guardia. Preferisco di più essere di pattuglia perché non devo combattere anche contro i miei pensieri che cercano di stanarmi come il nemico che è là fuori. Agire è diverso: è il momento in cui posso fidarmi solo di me stesso, devo essere freddo, vigile e attento come una macchina.

Quando sono di guardia invece, i pensieri e i ricordi cercano di risalire dagli scrigni segreti dell'anima.

Soprattutto i ricordi. Ho passato la mia infanzia, infatti, a poche miglia da qui, ma nell'oblio della mia memoria, ci sono solo sprazzi offuscati di piccoli pezzi del passato che fatico a mettere insieme.

Come il ricordo degli occhi di mio fratello, ancorato ai muri che rinchiudono il mio cuore: quegli occhi che a volte rivedo nei bambini iracheni che si avvicinano alla base senza nessuna paura e che hanno gli occhi grandi e curiosi di chi pensa che sia solo tutto un gioco: i missili, le bombe, i carrarmati che avanzano verso le loro case ormai quasi distrutte dai raid aerei.

Sono in Iraq da soli tre mesi, eppure mi sembra di essere qui da tre anni: durante il mio addestramento, le simulazioni, le operazioni che mi hanno fatto diventare un soldato preparato, ho pensato per tutto il tempo a quando sarebbe arrivato questo momento.

La mia prima missione e mi hanno mandato proprio qui, non lontano da dove sono nato.

Le mie preghiere sono state ascoltate: Allah, con la sua infinita bontà, mi ha fatto arrivare proprio qui, a combattere al fianco dei miei fratelli curdi... solo che a volte non so da quale parte stare: la gente muore, amico o nemico, obbedendo agli ordini e spesso, senza nemmeno sapere per che cosa combatte.

Io parlo l'arabo e vengo visto a volte come un amico, a volte come un traditore per la divisa che porto, eppure io combatto solo per la loro libertà, o almeno è questo che mi ha spinto a voler venire qui, ma in questo momento non so più in cosa credere: so solo che non posso distrarmi nemmeno un secondo perché per una mia debolezza, in un attimo, migliaia di persone possono perdere la loro vita.

Per ognuno di loro potrei morire anch'io da un momento all'altro.

Persone sconosciute, o compagni di squadra con cui condivido tutto, nonostante non sia un tipo socievole e i momenti liberi quaggiù siano molto rari.

Preferisco passare i tempi morti pregando o divorando libri.

La mia fede mi spinge a rimanere fermo e saldo nei miei propositi; la mia sete di conoscenza mi fa leggere di tutto... Leggo soprattutto poesie dei poeti della mia terra.

Non riesco ancora a spiegarmi la gioia che ho provato quando un mio compagno di stanza mi ha prestato un libro di un autore italiano che non conoscevo: "Le città invisibili". L'ho finito in poche ore, conquistato soprattutto dal linguaggio metaforico.

È stato proprio leggendo questo libro che ho cominciato a interessarmi delle antiche vestigie che sorgevano nella mia terra natia.

La nostra base militare non è che un insieme di tende e prefabbricati dove la sabbia arriva dappertutto. Eppure, a pochi passi da noi, sorgeva un tempo il palazzo di Nabucodonosor II.

Ogni pietra che calpesto potrebbe essere testimonianza di quel passato di gloria in cui regnavano spietati conquistatori in guerra, ma anche grandi costruttori dei simboli della loro grandezza. Quei simboli che oggi sono diventati illeciti pezzi di scambio per racimolare i fondi per la guerra.


Mentre con lo sguardo perlustro la zona, un'ombra nel buio cattura nuovamente la mia attenzione: qualcosa si muove avanzando verso la barricata che delimita i confini del campo.

È un uomo e da come cammina sono sicuro che porta addosso qualcosa di pesante: tritolo...

Cazzo! Se si avvicina ancora rischiamo di saltare tutti per aria...

«Fermo dove sei!» gli urlo puntandogli il fucile contro.

L'uomo si ferma e alza le mani in segno di resa. Sembra che abbia paura, paura di morire... Ma allora chi diavolo gli ha messo quell'esplosivo addosso?

«Ehi?» lo chiamo e lui alza la testa cercando di capire dove mi trovo.

Fanculo alle regole! Senza lanciare l'allarme, scavalco il muro di cinta e mi avvicino fino a riuscire a scorgere l'espressione del suo volto: è un uomo di circa quarant'anni, che sembra farsela sotto non appena mi vede.

Abbasso la canna del mio fucile e mi fermo a pochi passi da lui.

«Non ti muovere e tieni le mani in alto» gli intimo in arabo e lui, sorpreso di sentirmi parlare la sua lingua, comincia a supplicare di risparmiargli la vita.

«Non sparare!» mi dice singhiozzando. «Non voglio morire... ho tre bambini piccoli... mi hanno costretto... loro mi hanno ricattato...» continua in preda al panico.

A quel punto cambio il mio tono di voce e gli dico ancora: «Non ti muovere!»

Questa volta non è una minaccia, ma una raccomandazione.

«Aiutami!» mi chiede disperato. «Non voglio morire! Non voglio morire» ripete come una preghiera.

Gli dico di inginocchiarsi a terra, lentamente e lui esegue senza farselo ripetere due volte.

Lo fiancheggio con cautela fino ad arrivare a un metro da lui. Osservo la cintura esplosiva che gli avvolge il petto e in pochi secondi decido di agire. Forse c'è un timer o un dispositivo a distanza, ma non riesco a vederlo.

Devo disinnescarlo anche se so che questo mi costerà una bella punizione, ma non me ne frega un cazzo.

Mi avvicino all'uomo e guardandolo negli occhi gli chiedo: «Hai fede?»

Come se non capisse il nesso della mia domanda, l'uomo non mi risponde, ma io continuo: «Oggi non andremo in paradiso».

Passano pochi minuti e uno scoppio assordante si propaga sollevando polvere e detriti.

Lo spostamento d'aria mi spinge in avanti facendomi cadere al suolo. Rimango accasciato dal frastuono immane, mentre un fumo nero m'impedisce di tenere gli occhi aperti.

Il cuore mi batte fortissimo e non sento più nulla, se non un sibilo che persiste nelle orecchie a lungo, nonostante sia tutto finito.

Riapro gli occhi in cerca dell'uomo che ho salvato e lo vedo far leva sui gomiti per sollevarsi.

Sia gloria ad Allah, siamo vivi!

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