23. Interrogatorio

Perituri intra peritura vivimus.
Destinati a morire viviamo tra cose destinate a morire.

Seneca


Marah

Cos'era la morte?

Un tuffo effimero nel baratro, la fine di ogni speranza o l'inizio di una nuova vita?

Se il dissolversi del mio corpo avesse portato sollievo alla mia anima, forse non sarebbe stata la fine, ma una liberazione, dalla sofferenza, da una vita priva di ogni senso.

Non ricordo quanto tempo sia trascorso, mentre da sola, legata su quella sedia, aspettavo che il timer di quella bomba appoggiata sul mio petto giungesse al countdown.

Al solo ripensarci, un brivido lungo la schiena mi fa sussultare.


«Se la sente di riprendere?» mi chiede il poliziotto impaziente di continuare l'interrogatorio.

Mi riscuoto dai ricordi della notte appena trascorsa e guardo l'uomo che ho di fronte, così diverso da colui che poche ore prima mi aveva sussurrato sulle labbra di essere il Diavolo. Sbatto le palpebre e poi mi guardo attorno confusa: per un attimo mi ero dimenticata di essere seduta in una stanza del commissariato di polizia e non più in quel locale sotterraneo del museo.

Mi porto una mano sul petto per controllare per l'ennesima volta di non avere più stretta intorno al busto quella cintura letale.

Alla fine, non è arrivato nessun angelo a salvarmi, eppure, non so per quale miracolo, la bomba non è esplosa. Quando mi hanno trovata nei depositi dei musei, avevo ormai la testa del tutto vuota, come in uno stato catatonico, del tutto logorata da quell'attesa della morte che però non è mai sopraggiunta.

Sono rimasta così immobile per interminabili ore, finché una squadra di artificieri ha dato il via libera.

«Io non ho nient'altro da dire» proseguo con voce stanca e malferma. «Non c'entro nulla con quello che è successo...»

Il poliziotto, nonostante gli avessi ripetuto quanto era accaduto per almeno dieci volte, continua a guardarmi come se nascondessi la verità.

«Signorina Brody, sappiamo che conosceva già Ibrahim Ghulam. Conosceva anche gli altri uomini che hanno fatto irruzione nel museo ieri notte? Dove sono fuggiti? Cosa ci faceva nei depositi a quell'ora? Era loro complice?»

Quante altre volte devo ripetere che non so nulla, che non immaginavo minimamente di rivedere Ibrahim e che non avevo scelto io di farmi esplodere come un kamikaze?

Il tono autoritario e accusatorio dell'agente non mi scalfisce per niente.

Ho diritto di non rispondere e forse è il caso di chiedere di un avvocato... Oddio, non mi sono mai trovata in una situazione del genere: possibile che da vittima, mi ritengano colpevole?

Nonostante lo sgomento che provo dentro, non riesco a piangere, né a esternare la più piccola emozione: voglio solo tornare a casa... Sì, sono stanca, voglio solo chiudere gli occhi e non pensare più a nulla.

Rimango in silenzio e abbasso il capo, finché l'agente decide di arrendersi e di lasciarmi sola nella stanza spoglia.

Con un lungo respiro cerco di calmarmi e per allontanare dalla mia mente le immagini della scorsa notte, fisso lo specchio davanti a me fino a quando incontro il mio sguardo riflesso. Sono davvero io? Il trucco sbavato sotto gli occhi, i capelli arruffati, ma nonostante l'aspetto orribile, ciò che mi colpisce di più è la mia espressione vacua, come se non fossi più io, come se non m'interessasse più nulla, come se fossi davvero morta.

Sì, sono morta dentro. Questa volta non mi è rimasto davvero più nulla a cui aggrapparmi.

Dietro quello specchio sono certa che ci sia qualcuno che mi osserva, così rimango immobile e in attesa.

Dio, mi sembra di vedere un episodio di NCIS, uno delle tante serie poliziesche americane.

La stanza è fredda e non c'è nient'altro a distrarmi, se non un tavolo e delle sedie.

Dopo altre ore interminabili, la porta si riapre con un tonfo, ma sono ormai così estraniata da tutto, che nemmeno io mi meraviglio di non aver sussultato per la sorpresa.

Tre uomini entrano ed io sollevo appena il viso nella loro direzione: anche se quasi non m'interessa più nulla, non riesco a fare a meno di chiedermi se finalmente questo supplizio stia per finire.

Uno degli uomini è il poliziotto che mi ha interrogata ore prima, gli altri due invece sono vestiti in abiti civili e non sembrano del posto.

Uno di quest'ultimi mi saluta, ma io non lo degno della minima attenzione.

Abbasso lo sguardo indifferente, mentre il compagno mi si avvicina come se volesse sollevarmi di peso dalla sedia.

«Sono il detective Miller, non si ricorda di me?»

Lo esamino stranita non capendo, ma poi all'improvviso lo riconosco: è lo stesso poliziotto che era venuto a interrogarmi a casa mia, poco dopo l'attentato di New York.

Cosa ci fa qui in Siria?

Gli faccio un cenno affermativo con la testa e questi continua come se avesse ascoltato la mia domanda silenziosa: «Ero qui in Siria per affiancare l'Interpol nelle indagini: sapevamo che i terroristi avrebbero colpito di nuovo... Ciò che non credevamo era che l'avrebbero ancora una volta presa di mira. Tutto ciò è molto sospetto, non le sembra?»

«Io... no, non ho avuto nessun contatto con Leyla per mesi... non so come facesse suo fratello a sapere che fossi qui a Palmira...»

«Già, che strana coincidenza!» mi risponde con un tono sarcastico.

«Forse ha parlato con qualcuno o ha fatto domande in giro su di loro?» mi chiede il poliziotto che mi aveva interrogata in precedenza.

Spalanco la bocca, ma prima che possa rispondere, il detective Miller interviene minaccioso facendomi tremare per la prima volta.

«Le ricordo che il caso è dell'Interpol, quindi le domande le faccio io!» si rivolge autoritario al poliziotto, che annuisce mostrandosi comunque contrariato, soprattutto quando il detective Miller mi chiede di rispondere ugualmente alla domanda.

Ci penso per qualche secondo e quando riesco a concentrarmi, mi torna in mente di colpo che avevo chiesto di Leyla a Naima e Aisha, che ho chiamato proprio l'altro giorno dopo aver parlato con Niklaus. Nei mesi scorsi, loro hanno chiesto di lei in giro con il solo scopo di aiutarmi e hanno diramato la notizia sui loro profili social. Le voci, senza volerlo, forse sono circolate finché qualcuno vicino ai terroristi deve averlo scoperto.

Faccio i nomi delle due studentesse di Damasco e mostro al detective anche la cronologia delle mie chiamate. Quest'ultimo annuisce soddisfatto dicendo che avrebbero fatto dei controlli.

«Va bene... per oggi può bastare! È libera di uscire, ma non potrà rientrare in America senza prima avvisarci. Fuori ci sono i suoi colleghi che la riporteranno ai suoi alloggi per riposare.»

«I miei colleghi?» chiedo stralunata, ma il detective Miller non mi degna di risposta ed esce dalla stanza senza nemmeno salutare.

L'altro agente, invece, mi fa cenno di seguirlo e dopo pochi minuti mi ritrovo catapultata tra le braccia di Niklaus: «Marah, finalmente!» esclama stringendomi sollevato, come se la pena di quelle ore d'attesa al commissariato l'avessero del tutto sfiancato.

«Stai bene?» mi chiede accarezzandomi la testa affettuosamente. Annuisco sprofondando in quell'abbraccio, ma non riesco a reagire né a provare consolazione dopo tutto ciò che è successo.

Dopo quella notte e un intero giorno sotto torchio, mi sento del tutto svuotata.

Quando rialzo la testa, oltre la spalla di Niklaus, noto che nella stanza c'è anche Lana, che mi squadra del tutto contrariata e disgustata.

La ignoro e, per la prima volta da quando l'ho conosciuta, me ne frego di lei e di quello che pensa di me: oggi non ho né la testa né la voglia di sapere cosa le passa per il cervello.

Dopo un rapido sguardo alla sala d'attesa del commissariato, torno a guardare negli occhi Niklaus e non posso però fare a meno di chiedere dove sia il professor Walton e se stia bene.

«È qui da qualche parte. Stanno interrogando anche lui, anche se l'hanno visto uscire dal museo prima di sera e prima che...» s'interrompe guardando nei miei occhi. Forse solo ora si rende conto che non ho voglia di ricordare, né di scoprire il motivo per cui ieri sera Lucas mi ha chiesto di scendere nei sotterranei.

Tutti i sospetti, le congetture, il dolore... sono sepolti dentro di me da qualche parte...

L'immagine di due occhi neri e profondi, che mi guardano con intensità, riemergono nella mia mente. Mi si blocca il respiro, ma con l'ultimo briciolo di forza che mi è rimasta, ricaccio indietro il ricordo di quell'uomo di nome Kam, che era pronto a farmi saltare per aria con una cintura esplosiva.

Non riesco a fermare i miei occhi che cercano quelli di Lana, l'unica che potrebbe sapere chi è davvero quell'uomo misterioso, ma la voce dell'agente al mio fianco mi riporta al presente: «Andiamo! La vostra scorta vi aspetta di sotto».

Senza aggiungere altro, mi trascinano giù per le scale e ci apprestiamo tutti a uscire dal commissariato.


L'umidità della sera m'investe all'improvviso appena siamo per strada. Mi lascio trasportare dalla scorta e da Niklaus che non si è mai allontanato da me un solo istante. Solo quando entriamo nella volante, mi accorgo che con noi c'è anche Lana.

L'auto parte di corsa e mi aspetto di sentire risuonare la sirena sopra di me, ma per fortuna ci allontaniamo in silenzio dal commissariato. Mi volto un attimo per osservare un'ultima volta quel posto e con la coda dell'occhio mi accorgo che c'è un'altra macchina della polizia che ci segue.

«Grazie a Dio stiamo tutti bene: il museo è stato evacuato e gli artificieri stanno ancora lavorando per cercare e neutralizzare eventuali altri esplosivi, ma...»

Interrompo Niklaus che ha ricominciato a farmi una telecronaca di tutto ciò che è successo e lui si zittisce costernato. Non voglio sentire più nulla, né seguire le sue supposizioni.

Non m'interessa sapere.

Dovrei essere grata per essere sopravvissuta a un altro attentato e che questa volta non ci sia stato nessun morto, ma in questo momento non provo nulla, nessuna emozione.

Senza farmi domande, chiudo gli occhi e appoggio la testa al sedile nella speranza di riuscire ad addormentarmi e risvegliarmi presto da questo incubo.

Niklaus mi passa un braccio dietro la testa e mi attira a sé per offrirmi la sua spalla come cuscino.

Non faccio resistenza e lascio che lui mi abbracci.

Sono passati forse solo pochi minuti quando una brusca sterzata mi fa sbattere con forza contro qualcosa di duro. Spalanco gli occhi per capire cosa stia succedendo, ma non appena guardo dal finestrino, mi accorgo che un grosso furgone sta piombando verso di noi a una velocità pazzesca.

Lo scontro è inevitabile e passano solo pochi secondi che mi sento sbalzare all'indietro, mentre il rumore improvviso dello schianto mi esplode nelle orecchie.

La macchina viene ribaltata per due volte e mi ritrovo schiacciata tra il sedile e il tettuccio senza nemmeno capire come.

La testa, cosa succede alla mia testa?

Non riesco a muoverla e in un attimo vedo tutto sfocato... e poi... il buio.



Spazio autrice

Come avrete sicuramente notato, ho deciso di proseguire in un unico libro senza dividerlo, quindi non ci sarà il Volume 2, ma solo questo, anche se la storia è molto lunga.

Da questo momento, non ci saranno più flashback di Kamal e la storia si svolgerà sempre al presente.

Spero che non mi odierete per aver concluso il capitolo con un ennesimo cliffhanger, anzi spero vi sia piaciuto 😀

Io non vedo l'ora di farvi conoscere Kamal nel presente e di farvi sapere cosa succederà tra lui e Marah.

Voi cosa immaginate? Scrivetemi le vostre ipotesi e soprattutto fatemi sapere cosa ne pensate.

A presto ❤

D.J.

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