15. Nuova missione

I guerrieri della luce hanno sempre un bagliore nello sguardo.
Essi vivono nel mondo, fanno parte della vita di altri uomini, e hanno iniziato il loro viaggio senza bisaccia e senza sandali. In molte occasioni sono codardi. Non sempre agiscono correttamente.
Soffrono per cose inutili, assumono atteggiamenti meschini, e a volte si ritengono incapaci di crescere. Sovente si credono indegni di qualsiasi benedizione o miracolo.
Non sempre sono sicuri di ciò che stanno facendo. Molte volte trascorrono la notte in bianco, pensando che la loro vita non ha alcun significato.
Per questo sono guerrieri della luce. Perché sbagliano. Perché si interrogano. Perché cercano una ragione: e certamente la troveranno.

Paulo Coelho, Manuale del guerriero della luce


Kamal


Baghdad, 16 agosto 2004

Da oltre cinque minuti fisso il mio zaino abbandonato per terra, mentre aspetto di partire per raggiungere l'aeroporto e tornare a New York.

Nonostante siano passati mesi dall'ultima volta che sono stato con la mia famiglia, non ho nessuna voglia di tornare a casa: dopo quella missione fallita, mi sembra di aver lasciato un conto in sospeso.

Non riesco a togliermi dalla testa i volti di quei bambini barbaramente uccisi dai ribelli e le urla disperate di Serdar, il kamikaze che ho salvato da un attentato suicida.

Deve aver fatto di tutto per trovarli ed ora è piuttosto probabile che stia facendo di tutto per ritrovare l'ultima figlia, nella speranza che fosse ancora viva.

Quel giorno gli ho voltato le spalle quando mi ha chiesto aiuto.

Solo in seguito, mi sono reso conto di quanto mi fossi alienato come un vile. In quel momento non provavo nulla: la mente del tutto lucida, il corpo teso come una macchina da guerra; il cuore di ghiaccio.

Quando sono in missione, tra le granate e i tiri dei cecchini che fendono l'aria e fischiano a pochi centimetri dalle orecchie, i sensi sono in massima allerta e schiacciano tutto il resto: bisogni, emozioni, ricordi... Tutto spento per lasciar spazio alla concentrazione.

Sono un soldato che non può lasciarsi intenerire, ma da quel giorno, notte dopo notte passata in bianco, è scattato qualcosa, come un interruttore che ha generato dentro di me il seme dell'ossessione.

Da allora non trovo pace e quelle poche volte che riesco a dormire, sogno i volti di quella donna e di quei due bambini sfigurati dalla crudeltà di quegli assassini.

Hanno vinto loro, costringendoci a lasciare Najaf entro poche ore per non rimanere intrappolati tra gli scontri incrociati dei movimenti contrapposti.

Un mese fa, abbiamo liberato i prigionieri con l'aiuto di un commando di truppe corazzate, ma non siamo riusciti a ritrovare nessuna bambina.

Dove l'hanno portata? Il pensiero che possa essere imprigionata da qualche parte, sola e spaurita, è ormai diventato un rodimento continuo.

Penso a lei e rivedo me stesso bambino quando ho perso mio padre e mio fratello. Io mi sono salvato dagli orrori della guerra, lei invece è ancora chissà dove.

Un senso di colpa s'insinua sottopelle come se fossi responsabile di ciò che è accaduto.

«Hey, soldato!» mi riscuote la voce di un mio commilitone con un calcio a uno dei miei anfibi. «Non sei felice di tornare a casa?» mi chiede deridendomi.

«Certo che sono felice... non avrò più davanti alle palle quella tua faccia di merda!» gli rispondo ignorando la sua domanda, alzandomi in piedi e avvicinandomi con una finta aria minacciosa.

L'altro scoppia a ridere alzando le mani in segno di resa.

«Che cazzo vuoi?» gli chiedo accennando un mezzo sorriso, sperando che non continui a prendermi in giro per avermi sorpreso assorto nei miei pensieri.

«Il colonnello vuole vederti. Mi ha mandato a chiamarti» mi dice tornando serio.

Con un gesto della mano lo saluto e mi dirigo verso i reparti degli ufficiali, non sapendo cosa aspettarmi: deve essere successo qualcosa per chiamarmi mentre sto per andare in licenza.

Quando entro nel suo ufficio, in un container spoglio con un enorme tavolo e delle panche che fanno da salotto, mi accorgo che non è solo: con lui c'è un uomo che riconosco subito e una giovane donna in abiti civili.

Sono sorpreso, soprattutto per la presenza della ragazza, che da una rapida occhiata ai suoi tratti somatici, sembra di nazionalità slava o russa.

Dopo i saluti e le presentazioni, il colonnello mi rivela il vero nome dell'uomo che ha di fronte a lui, William Carson, mentre io lo avevo conosciuto solo con il suo nome in codice: Charlie 14.

Ci guardiamo senza fiatare, nonostante quanto abbiamo vissuto durante quella terribile notte in cui abbiamo fatto irruzione nel casolare dove si pensava ci fossero i prigionieri.

La soffiata che aveva ricevuto, alla fine, si era rivelata fasulla, anche se aveva permesso di ritrovare i corpi della moglie e dei figli di Serdar.

«Il colonnello ti reputa il migliore con le armi e con gli esplosivi. Ho visto anche il tuo fascicolo... Ti sei laureato al Politecnico?» mi chiede Carson, indicandomi un pc poggiato sulla scrivania. Confermo con un cenno della testa, mentre guardo incuriosito lo schermo.

«Conosci questo codice?»

Sposto il mio sguardo dal monitor al suo viso e gli rispondo di sì.

«E sapresti creare un worm?»

Annuisco ancora, mentre vorrei chiedergli cosa hanno in mente, ma in realtà ho già capito che cercano qualcuno in grado di usare tecnologie militari molto sofisticate, o di sabotarle.

Prima che possa dire qualcosa però, mi blocca cambiando discorso.

«Ti ho sentito parlare in arabo quella notte» mi dice scrutandomi dall'alto in basso. «Il colonnello mi ha anche detto che sei di origini irachene.»

«Confermo, signore!» gli dico dopo qualche secondo d'incertezza, non capendo il senso di questo colloquio.

«Ho vissuto qui fino all'età di dodici anni. Precisamente in Kurdistan...»

Immagino abbia già letto sul mio fascicolo che sono un orfano di guerra, sopravvissuto ai massacri che per anni hanno tormentato il mio popolo e di essere stato adottato da una famiglia americana.

Mi guarda con attenzione negli occhi, poi mi svela il mistero di quell'interrogatorio.

Fa un cenno alla donna al suo fianco e quest'ultima mi mostra alcune fotografie: al primo sguardo mi sembrano manufatti antichi: vasi, monili e statuette...

«Sono stati ritrovati nel covo in cui abbiamo fatto irruzione nell'ultima missione...»

«Non ho la più pallida idea di cosa siano» lo interrompo fingendo disinteresse, pur cominciando a sospettare qualcosa. In realtà sono molto curioso: in questi mesi, mi sono chiesto diverse volte che fine avessero fatto i tesori inestimabili della Mesopotamia. Da quando è scoppiata la guerra, sono stati lasciati incustoditi alla mercè di soldati e di contrabbandieri.

«Sono reperti archeologici» interviene la ragazza per la prima volta, tanto bella quanto arrogante.

«Al mercato nero valgono un mucchio di quattrini!» spiega invece Carson.

«E allora? Non capisco cosa c'entrino con il nostro lavoro: siamo in guerra, non in un videogame di Tomb Raider...» rispondo rimanendo con tono calmo per rispetto al mio superiore, ma la mia ironia non passa inosservata.

La ragazza che pensa di essere Lara Croft, solo perché ha un fisico da cintura nera, mi guarda in tralice come se l'avessi offesa.

«Prima fammi finire di parlare! Pensiamo che tu sia l'uomo giusto per una nuova missione...» mi blocca Carson, che conosce la mia fama di testa calda, soprattutto per via di quella mia prodezza dell'anno prima in quel tentato attacco da parte della sua guida.

Anzi, forse è proprio questa mia fama che ai suoi occhi mi reputa la persona più adatta per questo incarico.

«Una delle maggiori fonti di sovvenzionamento dei terroristi sono proprio i traffici di reperti che durante la guerra sono stati facilmente trafugati: seguendo queste tracce, possiamo avvicinarci a loro con molta facilità.»

Dopo aver ottenuto la mia completa attenzione, mi rivela che ha conosciuto Serdar mentre cercava informazioni nelle prigioni. Quando ha scoperto che era stato in contatto con alcuni terroristi, lo ha fatto rilasciare in cambio di alcune rivelazioni sul loro conto.

Le mie deduzioni alla fine si erano rivelate esatte: come poteva quell'uomo essere ancora libero dopo quello che aveva cercato di fare?

Carson era riuscito a scovare diversi gruppi combattenti di stampo terroristico grazie a lui, ma Serdar non era un militare, mentre io di sicuro gli sarei stato più utile anche grazie alla conoscenza della lingua araba.

Dopo avermi illustrato il suo piano, accetto la sua proposta.

Il colonnello farà richiesta ai suoi superiori e non appena verrà autorizzata, entrerò a far parte della task forse capeggiata da William Carson, nome in codice Charlie 14.

Esco dall'ufficio per dirigermi verso i miei alloggi: dopo aver accettato la nuova missione, è chiaro che non tornerò più a casa, ma non sono affatto dispiaciuto, anzi...

C'è una cosa che però voglio fare subito: prendo il telefono satellitare e avvio la chiamata.

A New York sono le due di notte, ma ho bisogno di sentire Grace per dirle subito che non mi vedrà chissà ancora per quanto altro tempo.

«Tesoro, che succede?» mi chiede non appena riconosce la mia voce.

«Non potrò più venire per ora: mi hanno revocato la licenza per riassegnarmi a un nuovo incarico...» le dico sperando che non la prenda troppo male.

«Che tipo di incarico?» mi chiede cercando di dissimulare la sua preoccupazione, ma penso che abbia ormai capito dal mio tono di voce che sarà una missione ad alto rischio. Mi conosce fin troppo bene da troppi anni.

«Sai che non posso dirti niente per telefono» le spiego, «ma volevo comunque salutarti prima di partire. Non so quando potrò richiamarti».

Fa una breve pausa di silenzio, poi mi dice quello che speravo mi dicesse: «Ti voglio bene. Io e tuo padre saremo sempre fieri di te. Non dimenticarlo mai!»

«Lo so, mamma. Grazie...» sussurro prima di chiudere la chiamata.

Solo dopo aver chiuso, mi accorgo che è stata la prima volta che l'ho chiamata mamma. Non l'avevo mai fatto prima, nonostante Grace sia stata una madre amorevole e al tempo stesso determinata.

Quando sono arrivato in America ero un ragazzino intrattabile e dal carattere difficile, ma lei è riuscita a far breccia subito nel mio cuore devastato dalla perdita della mia vera madre.

Chiamarla "mamma" era il minimo che potessi fare dopo tutto quello che ha fatto per me. Forse non avrei dovuto farlo per telefono e solo ora, ma potrebbe essere davvero l'ultima volta che ascolta la mia voce.

Non so se tornerò vivo da questa missione, ma ho fatto questa scelta e devo portarla a termine.




Spazio autrice

Questo pov, diverso dai precedenti, ci mostra alcuni aspetti della personalità di Kamal, ma il suo percorso è ancora lungo.

In questo capitolo lo vediamo ancora scosso da quanto successo nella sua ultima missione e poi in un breve momento con la sua madre adottiva.

Ricordiamo che tutto avviene anni prima dalle vicende che racconta Marah.

Cosa ne pensate?

Cosa è successo secondo voi per farlo diventare "cattivo", come lui stesso si è definito nello scorso recap?

Soprattutto, avete capito chi è la ragazza 'Tomb Raider'? 😂😂😂

Stay tuned! 😉

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