12. Missione fallita
Il guerriero sa che è libero di scegliere ciò che desidera: le sue decisioni sono prese con coraggio, distacco e, talvolta, con una certa dose di follia.
Paulo Coelho, Manuale del guerriero della luce
Kamal
Nei dintorni di Kerbala, 28 maggio 2004
«Cinque minuti all'atterraggio. Tenetevi pronti!» ordina il capitano seduto alla mia sinistra.
La sua voce tuonante, che rimbomba tra le pareti dell'elicottero, ci riscuote dal torpore e dall'immobilità forzata di quel volo sui cieli nemici.
Nonostante il breve tragitto, alcune turbolenze, per via dell'alta quota, ci hanno fatto temere diverse volte che ci saremmo schiantati sulle rocce in pieno deserto. Non vedo l'ora di sbarcare per non sentire più l'odore di vomito di alcuni soldati che non hanno retto ai sobbalzi.
Come tocchiamo suolo, le operazioni di scarico sono velocissime: non appena l'ultimo uomo dello squadrone scende dal carrello d'atterraggio, l'elicottero riprende subito quota per sparire nelle tenebre.
Ci acquattiamo in una rientranza del terreno per ripararci dalla sabbia che si è sollevata e dai nemici che potrebbero avvistarci. Non appena ritorna il silenzio, ci rendiamo conto di essere soli in mezzo alla polvere.
Il capitano ci fa segno di muoverci e ben presto, raccolti i nostri zaini e gli equipaggiamenti, ci mettiamo in marcia verso il luogo d'incontro con la nostra guida, un contractor assoldato per accompagnarci nella nostra missione e che conosce come le sue tasche questo posto desolato.
Siamo in una zona sperduta dove nemmeno i nostri localizzatori GPS funzionano. Difficile orientarsi senza nessuna mappa.
È una notte buia e sinistra: persino la luna si è nascosta nell'ombra della sua orbita.
Non è la prima missione in territorio nemico, ma il mio istinto di combattente oggi è in massima allerta.
Io e gli altri membri della squadra ci muoviamo veloci e furtivi nella notte come animali notturni, con gli occhi vigili al minimo segnale di pericolo.
Siamo oltre il cordone di blocco delle truppe militari statunitensi e, in caso dovessero scoprirci gli ultimi rivoltosi che si sono rifugiati nei loro covi in un ultimo tentativo di resistenza, tutta la missione potrebbe andare a monte.
Dopo due ore di cammino ci accovacciamo al rumore di un motore in lontananza. Un fuoristrada cassonato si avvicina a fari spenti.
Rimaniamo nascosti in attesa del segnale stabilito e solo quando il capitano ci ordina di alzarci, usciamo dai nostri nascondigli con i fucili pronti.
Gli altri commilitoni si sparpagliano ai bordi del campo alla giusta distanza di sicurezza, mentre io seguo il capitano obbedendo al suo cenno con la testa.
Ci avviciniamo al mezzo per identificare gli uomini che nel frattempo sono scesi con le mani alzate.
Il primo deve essere Charlie 14, nome in codice del nostro contatto che affiancherà il capitano nella nostra missione. È un uomo grosso quanto un armadio con cui nemmeno io vorrei scontrarmi in combattimento.
Il secondo invece deve essere la nostra guida, che a giudicare dal turbante nero deve essere del posto.
Dopo uno scambio significativo di battute, il capitano ci ordina di salire "a cavallo" sul retro del carro.
Sistemo con cura il mio zaino e poi mi dirigo verso il mio superiore per dirgli che è tutto a posto per la partenza.
L'uomo che ci farà da guida si avvicina con uno scatto improvviso parandosi davanti a me. D'istinto gli punto il fucile contro, ma lui mi guarda sorpreso.
«Fratello, sono Serdar!» esclama parlando in arabo come se ci conoscessimo da una vita e scoprendosi il viso. I suoi occhi scuri sembrano davvero increduli.
Lo guardo con più attenzione e dopo qualche secondo lo riconosco: è l'uomo che ho salvato un anno fa e che per un pelo non ci ha fatti saltare per aria. Sono sorpreso anch'io: si dice che quando salvi la vita a un uomo, si rimane per sempre legati al suo destino.
Da quando sono diventato un soldato però, ho forse ucciso più persone di quante ne abbia salvate.
È trascorso più di un anno da quella mia bravata, ma la ricordo come se fosse ieri. Sebbene non ci siano stati feriti, sono stato costretto a pulire le latrine per una settimana per non aver dato subito l'allarme e aver fatto di testa mia.
Lo guardo alzando un sopracciglio, mentre si avvicina come se volesse abbracciarmi, ma all'ultimo si trattiene.
Ero convinto che fosse finito in prigione per aver tentato di compiere una strage.
«È grazie a te se sono ancora vivo, fratello mio!» mi dice sorridendomi, ma il suo è un sorriso quasi amaro che si spegne subito.
Già... Potevamo entrambi lasciarci le penne ed è un miracolo se non mi hanno rispedito a casa a calci in culo.
La riconoscenza che mi dimostra con tanta enfasi non mi fa quasi nessuno effetto. Ho imparato in questi ultimi anni a spegnere del tutto le mie emozioni; tuttavia, gli faccio un segno affermativo con la testa e mi avvicino per dargli una pacca sulla spalla. Vorrei dirgli che sono stato un incosciente e che mi sono preso una bella strigliata per colpa sua, ma mi dispiace spegnere il suo entusiasmo, così rimango in silenzio.
Parleremo dopo. Ora è meglio se ci muoviamo da lì prima che ci scoprano.
Una volta saliti sul fuoristrada, aggiriamo una piccola collina rocciosa.
Serdar, la nostra guida, conosce a menadito ogni sentiero e ogni nascondiglio di questa zona pressoché desertica a metà strada tra Kerbala e Najaf, le due città sante degli sciiti.
Quindi è lui che ci guiderà fino al covo dei miliziani che hanno fatto prigionieri alcuni dei nostri soldati e, si teme anche alcuni civili, tra cui donne e bambini.
Li chiamano squadroni della morte perché sono feroci assassini. Il nostro esercito ha subito numerose perdite nei loro agguati letali.
La nostra missione è salvare gli ostaggi e annientare quei bastardi prima che a seguito dei negoziati in corso venga dato l'ordine di cessare il fuoco.
Non conosciamo le loro coordinate esatte: l'unico modo per stanarli è agire di nascosto via terra, prelevare i prigionieri e bombardare successivamente i loro nascondigli con dei raid aerei.
Quando ci fermiamo, siamo a circa cinquecento metri da un casolare che sembra in apparenza abbandonato: secondo il nostro informatore, al suo interno si nascondono i ribelli.
Grazie agli appostamenti dei giorni precedenti, ha scoperto che sono rimasti solo in sette, mentre la maggior parte si sono allontanati forse per fare rifornimenti di armi e cibo. I prigionieri devono essere rinchiusi in una stanza sotterranea. Non ci sono altre uscite né nessun'altra via di fuga.
Il nostro capitano ci illustra il piano d'azione e in meno di un quarto d'ora, non appena i tiratori scelti prendono posizione, circondiamo a coppie ogni lato della casa.
Il mio compito è avvicinarmi all'entrata e piazzare un piccolo ordigno esplosivo per far saltare la porta di ferro. Operazione che riesco a fare in pochi secondi.
Una volta liberato il passaggio, entriamo di soppiatto. All'interno dell'abitato c'è una grande stanza vuota da cui si accede a un unico corridoio che porta sul retro.
Nessun movimento strano e nessuno di guardia.
Con un cenno ordino di procedere senza far rumore, ma uno sparo mette fine alla nostra intrusione furtiva.
Rispondo al fuoco sparando tre colpi alla cieca e il tonfo di un corpo che si accascia mi fa capire di aver fatto centro.
Avanziamo velocemente e il visore notturno mi permette di vedere in maniera indistinta altri due uomini nascosti dentro la prima stanza. Non appena cominciano a spararci addosso, sgancio una granata e la butto all'interno per passare subito oltre, mentre altri due miei compagni mi coprono le spalle.
Nei minuti seguenti riesco a raggiungere e immobilizzare un altro ribelle.
Ne mancano ancora tre.
Uno dei miei commilitoni mi fa cenno con l'indice verso il soffitto, ma l'ultima porta rimasta è bloccata.
Questo posto sembra un bunker.
Tiro fuori da una delle mie tasche un altro ordigno e lo piazzo vicino alla serratura con dell'adesivo.
Ci allontaniamo quanto basta e non appena la porta viene divelta dall'esplosione, ci facciamo strada tra i detriti e la polvere, pronti a scongiurare un contrattacco.
Saliti al piano di sopra, i ribelli aprono il fuoco e un proiettile mi prende di striscio il braccio sinistro.
Non mi fermo e mi difendo sparando con precisione i bersagli che riesco a vedere nitidi di fronte a me.
Pochi secondi e l'incubo finisce. Con un cenno ai ragazzi che nel frattempo mi hanno raggiunto, scendo nuovamente di sotto alla ricerca dei prigionieri.
Uno dei ribelli colpito dalla granata è ancora vivo.
Lo raggiungo e lo immobilizzo prima ancora che possa accorgersi della mia presenza.
«Dove sono i prigionieri?» gli chiedo in arabo sfoderando un coltello e puntandoglielo alla gola.
Il suo volto ricoperto di sangue si contrae in una risata che sembra più una smorfia.
«Non sono un traditore come te» mi provoca.
«Dove sono i prigionieri?» ripeto con una furia cieca, facendo pressione sul suo collo e ignorando le sue parole.
I suoi occhi si spostano verso un basso divano addossato alla parete di fronte, ma poco dopo continua a ridere.
«Sono tutti morti» mi dice come se proclamasse una vittoria.
Gli immobilizzo le mani dietro la schiena con una fascetta e lo scaravento per terra.
Per finire gli tiro dei calci sul fianco fino a quando si contorce dal dolore. La rabbia mi brucia fin in fondo allo stomaco perché sono quasi certo che mi abbia detto la verità.
Sposto il divano e individuo sul pavimento una botola. Riesco ad aprirla con facilità nonostante un dolore lancinante al braccio mi blocchi il respiro.
Un odore di morte arriva alle mie narici. Faccio luce attraverso l'apertura e scorgo diversi corpi immobili.
Impreco sottovoce e al tempo stesso invoco Allah.
***
Una barella con il cadavere di una donna e di due bambini piccoli passa davanti ai miei occhi.
Quei ribelli li hanno trattati come animali e costretti a stare chiusi per giorni in quel pozzo fino alla morte.
Un pianto straziante attira la mia attenzione quando la nostra guida riconosce la donna che è gravemente deturpata in viso, i vestiti strappati e ricoperti di sangue.
Non oso immaginare quali violenze atroci abbia subito.
Un ricordo improvviso mi fa fare due più due.
«Non voglio morire... ho tre bambini piccoli... mi hanno costretto... loro mi hanno ricattato...»
Quelle parole e lo sguardo impaurito di Serdar, che un anno fa stava per compiere un atto di disperazione, sono ancora presenti nella mia memoria. Ora capisco quel suo folle gesto: lo aveva fatto sotto ricatto, ma ora, a distanza di un anno, paga caro quel suo mancato attentato, solo che a scontarne le conseguenze è stata la sua famiglia.
L'uomo si volta verso di me con gli occhi intrisi di lacrime: «Dov'è mia figlia?» mi chiede con un ultimo barlume di speranza. I corpi ritrovati sono solo tre. Forse è ancora viva...
Il capitano ci raggiunge affiancato dal nostro informatore Charlie 14. Mi chiedo se sapesse chi fosse la nostra guida e che legame avesse con i prigionieri, ma dal modo in cui gesticola e urla con l'informatore, capisco che ne era del tutto all'oscuro.
Non capisco come possa essere rimasta nascosta una cosa così importante, ammenoché...
Arrivo alle mie conclusioni e quando mi avvicino al capitano, entrambi gli uomini smettono di parlare. Capisco di averci visto giusto.
La missione è fallita. I soldati prigionieri sono stati trasferiti altrove e la figlia della nostra guida sembra scomparsa.
«Dov'è mia figlia?» ripete ancora, questa volta con più rabbia.
«Devi trovarla!» mi supplica in arabo per non farsi comprendere dagli altri uomini presenti.
I miei occhi si posano sui corpicini immobili dei due bambini poggiati sulla portantina. Poi torno a guardare con freddezza il loro padre.
Senza dire una sola parola, gli do le spalle. Il mio capitano mi guarda e mi fa un cenno significativo di stima perché nonostante la missione sia fallita, nessuno dei nostri uomini è stato ferito in modo grave. L'uomo accanto a lui mi squadra invece con tutt'altra espressione.
Forse sa che sono io l'uomo che ha sventato l'attacco kamikaze alla base Alfa di Baghdad.
Le mie gesta sono diventate una leggenda: per alcuni sono un eroe, ma per altri un perfetto idiota.
Annuisco come a rispondere alla sua domanda silenziosa: troveremo i nostri compagni e quella bambina, costi quel che costi, e qualcosa mi dice che io e Charlie 14 faremo squadra insieme.
Spazio autrice
Vi ricordavate di Kamal? 😂
Nel capitolo 3 aveva sventato un attentato kamikaze. Ora lo vediamo in missione in questo capitolo pieno di azione.
Per me è la prima volta che mi cimento a scrivere una scena del genere, quindi spero che vi sia piaciuta.
I pov di Kamal saranno sempre dei flashback del passato che ci faranno comprendere la sua storia fino ad arrivare al presente. Cosa immaginate che accadrà adesso? Riuscirà a salvare i prigionieri?
A presto 😘
D.J.
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