10. Danza mistica
La nostra danza è la sorgente viva,
è di vita la fonte. E tu, se sei
Khizer, bevi dall'onda che ravviva.
Jalāl al-Dīn Rūmī, La danza mistica
Marah
Osservo la debole luce che filtra attraverso le tende della mia stanza, così fioca che tutto ciò che mi circonda è ancora sommerso nel buio della notte. L'oscurità mi è entrata sotto la pelle e si è diffusa in tutto il mio corpo. È un dolore che graffia la mia anima e che serra lascivo il mio cuore.
Tra un po' sorgerà di nuovo il sole nonostante non sia riuscita a chiudere occhio. È trascorsa una settimana da quella terribile notte in cui ho pianto tutte le mie lacrime. Uno scenario che rimarrà indelebile nella mia memoria.
Di ciò che è successo dopo invece non ricordo quasi nulla. Ogni immagine appare confusa come in una tela sbiadita, anche se il tempo non si è mai arrestato: un susseguirsi inesorabile di giorni e notti, mentre il mio cuore si è fermato nell'istante esatto in cui ho saputo che mia madre era morta.
Come potevo subire un peso così grande? Come potevo andare avanti?
Potevo solo morire insieme a lei e non sentire più nulla, né strazio, né mancanza.
Era bastata questa consapevolezza per farmi scivolare tutto addosso come acqua di un fiume che scorre verso il basso.
Tutto il resto appariva come perso nella nebbia oscura: l'incontro con Malak e la sua voce che mi urla di aspettare; le ultime parole di Leyla al telefono; Galen che mi ha protetto con il suo corpo in quel bar, mentre Betty, che credevo mia amica, perdeva la vita insieme a tutte le altre vittime di quella follia...
Da allora la mia mente sembra chiusa in una bolla, mentre la mia anima smarrita cerca di fuggire da quei demoni di cui non riesco mai a vedere il volto. Ho paura di dormire, come se quegli esseri che m'inseguono senza tregua possano imprigionarmi in quell'incubo da cui non riuscirei più a fuggire.
La mia prigione ora è la mia indifferenza: un bunker che mi ripara da tutto, una fortezza in cui niente e nessuno possono scalfirmi.
Un bussare sommesso alla porta mi riporta alla realtà.
«Marah?» mi chiama mio padre prima di aprire l'uscio della mia stanza. Senza accorgermene si è fatto quasi mezzogiorno ed io sono ancora qui a rifugiarmi nel vuoto che mi ripara dal dolore.
«Tesoro, c'è una persona per te. Posso farla entrare?» mi chiede mio padre cercando di nascondere la preoccupazione dal suo tono di voce.
«Papà, ho detto che non voglio più vederlo... Perché Galen non capisce che voglio stare sola?» rispondo rimarcando con enfasi l'ultima parola, nonostante mi faccia male il petto ogni volta che cerco di parlare.
Mio padre si sposta di lato permettendo ai miei occhi di guardare la persona dietro di lui.
«Nahid?»
Non credo ai miei occhi mentre la mia insegnante di danza mi guarda con dolcezza oltre la soglia della stanza.
In un attimo mi precipito verso di lei che mi accoglie tra le sue braccia che sono il primo vero conforto dopo quella settimana di vuoto. Rivederla è un balsamo per la mia anima rimasta sola troppo a lungo, anche se tutto il dolore che avevo rimosso ricompare all'improvviso a rivestire di lacrime il pallore del mio volto.
Quando riesco a calmarmi dai singhiozzi, lei mi asciuga il viso con una carezza.
Non siamo mai state amiche intime io e lei, ma c'è sempre stata un'intesa e una stima profonda che ci ha sempre unite nell'amore per la danza orientale.
A un tratto mi chiedo il motivo per cui è qui e dalle mie labbra sfugge la domanda di cui temo la risposta: «Notizie di Leyla?»
Nei suoi occhi compare una piccola ombra, ma cerca di sorridere lo stesso.
«Non l'hanno ancora trovata, ma questo è positivo...»
Non finisce la frase, ma capisco cosa vuol dire: se non si hanno notizie di lei, c'è più probabilità che sia ancora viva, nonostante sia scomparsa nel nulla dal giorno dell'attentato insieme a suo fratello Ibrahim.
La mia testa sembra scoppiare quando cerco di unire i puzzle di quel mistero ancora irrisolto.
La polizia è riuscita a sventare quasi tutti gli attacchi previsti quella sera: era dietro le tracce degli attentatori da mesi e conosceva già gli obiettivi che sarebbero stati colpiti, solo che si erano rivelati dei diversivi per distogliere da quelli che sarebbero stati i veri bersagli.
Ricordo vagamente quelle volanti che avevano bloccato l'entrata della metropolitana: svariati ordigni erano stati rintracciati e disinnescati in diversi punti; un paio di quei terroristi che avevano l'intenzione di farsi saltare per aria erano stati fermati, ma erano solo ragazzi giovanissimi adescati su Internet che non sapevano chi fossero le vere menti di quel folle piano.
Tra quei ragazzi ci sarebbe dovuto essere anche Ibrahim, che invece di dirigersi verso la metropolitana, aveva cambiato obiettivo e si era diretto nella scuola di danza di Nahid, mentre altri terroristi armati di mitra facevano incursione alla festa in cui avevo sorpreso Galen e Betty; altri ancora erano entrati in azione al Mount Sinai Hospital.
Ai telegiornali avevano detto che era stata sfiorata una tragedia di più grandi dimensioni, come se tutti i morti che c'erano stati non rappresentassero una disgrazia.
«Perché lei e non me?» singhiozzo con la testa sulla spalla di Nahid che mi passa amorevolmente una mano sui capelli.
«Ero stata a trovarla in ospedale qualche ora prima che succedesse tutto. Le ho parlato, le ho raccontato dei miei progetti. Era felice, come se mi avesse capito... Perché? Perché non sono morta io quella sera?»
«Basta!» mi sussurra Nahid per calmarmi, ma sono sicura che anche lei se lo fosse chiesto, come se l'era chiesto anche la polizia, che in quei giorni era venuta a trovarmi diverse volte, ma mio padre era riuscito a rimandare quel colloquio di qualche giorno per rispetto del nostro lutto.
Come era possibile che ogni luogo in cui c'era stato un attentato fosse in qualche modo riconducibile a me?
C'entrava qualcosa Ibrahim? O Leyla?
Quella sera dovevo essere anch'io a lezione di danza; avrei dovuto essere lì con loro se non avessi accettato d'incontrarmi con Malak...
Invece mi ero salvata perché in quel momento ero lì con lui.
Nella mia testa confusa mi torna la sua immagine con una pistola in mano mentre parla con Galen. C'è ancora qualcosa che mi sfugge; un pezzo di puzzle che mi manca per capire il nesso con tutto il resto.
E poi... i miei occhi si posano sulla mia scrivania, dove di solito c'era il mio pc portatile...
«Ti va di uscire a prendere una boccata d'aria?» mi riscuote Nahid da quei pensieri.
Come potrei aver voglia di uscire? Di immergermi tra la folla alle prese con i regali di Natale o di perdermi tra le luci della città in un clima festivo e tra canti natalizi? Il solo pensarci mi fa girare la testa, ma lei insiste: «Voglio portarti in un posto. Fidati di me!»
Nahid non demorde finché le dico di sì. Vado in bagno per vestirmi e sciacquarmi la faccia; mi guardo allo specchio e nei miei occhi non c'è più vita, ottimismo, fiducia, ma solo struggimento.
Mi lascio trasportare senza fare domande, del tutto convinta che nessuna distrazione potrà dare sollievo alla mia anima distrutta.
Qualcosa accade però, quando Nahid mi porta a un laboratorio di danza sufi nel quartiere dove abita.
All'inizio mi sento stranita, ma poi l'infinita bellezza dei corpi che volteggiano creando un ponte tra terra e cielo mi riporta in un'atmosfera sacra. Comincio a volteggiare anch'io e sento il mio spirito che si rigenera e la mia mente che si riempie di energia. Nel mio cuore entra uno spiraglio di luce e una pulsazione di vita.
Dopo qualche ora di quella danza che ha l'effetto benefico di una cura, mi sento più forte e ogni emozione che vivo non fa più tanto male come prima. Avevo dimenticato l'effetto che mi faceva danzare.
«È la prima volta che mi sento così viva dopo quello che è successo» spiego a Nahid nel vano tentativo di trovare le parole per ringraziarla. «Ormai non mi è rimasto più nessuno a New York: Galen e io ci siamo lasciati, Leyla è scomparsa e mio padre tra qualche giorno tornerà alla sua vita nel New Jersey, lasciandomi di nuovo sola come aveva fatto quando avevo appena sei anni».
Nahid mi prende la mano e me la stringe come se fosse una sorella maggiore.
Usciamo dall'edificio e passiamo davanti a una chiesa dal cui interno provengono voci di bambini che cantano canzoni di Natale.
Per un attimo mi piacerebbe tornare bambina, anche se mio padre e mia madre si sono separati quando ero ancora piccola.
Il Natale mi fa ricordare sempre di mio nonno Michael, che è stato per me più di un padre. Ora, ogni Natale, ci sarà una persona in più di cui sentire la mancanza: quella di mia madre.
«Sai, anche se lei soffriva perché era malata e non era più a casa da diversi mesi, avrei preferito un milione di volte passare il Natale sapendola viva in ospedale piuttosto che sottoterra».
Sento i miei occhi pungere per il freddo, ma ormai non ho più lacrime.
Nahid è lì accanto a me, ma non sento più la sua presenza. Parlo, ma è come se stessi parlando con me stessa.
«Non sono andata al suo funerale perché quel rito avrebbe significato chiudere per sempre con lei, prendere atto che quello che è successo è tutto vero. Invece voglio illudermi che lei un giorno varcherà la soglia di casa per essere di nuovo con me. Ho bisogno di crederci.»
«Marah, lasciati dire una cosa» m'interrompe Nahid. «Non sarà facile, ma devi accettarlo. Anche se tua madre era viva, tu l'avevi già persa da tempo. Le speranze che potesse guarire e tornare tutto come prima erano nulle. So che in qualche modo volevi che rimanesse qui con te per sempre, ma ora lei ha smesso di soffrire» mi dice con tatto, anche se nelle sue parole c'è tutta la più cruda verità.
Fa male. Fa terribilmente male.
«Ma prima potevo credere in un miracolo. Ora invece non ho più nemmeno quella speranza. Io non voglio accettarlo, non voglio lasciarla andare. Come posso vivere se quando chiudo gli occhi, sento tutto questo male?»
Nahid mi abbraccia e non dice più nulla e in quel gesto c'è tutto, più di quanto possa esserci nelle sue parole. Poi in silenzio mi riporta a casa, anche se durante il tragitto non posso fare a meno di ripensare a ciò che ci siamo dette.
In tutto il tempo in cui mia madre era stata in ospedale, la speranza, seppur remota, che potesse guarire e tornare a casa non mi aveva mai abbandonata.
In quell'oscurità infernale, scorgevo ancora un barlume di luce, che rischiarava il buio della mia disperazione, ma adesso quella luce si è spenta del tutto.
Perché tanta barbarie in un ospedale? Sarei dovuta morire io in quell'attentato e invece mi sono salvata.
Nonostante tutto, la giornata passata con Nahid mi ha fatto bene: al centro del mio petto non sento più quel buco nero che risucchia tutto. Non sento più quel vuoto che c'era prima intorno al mio cuore.
Arrivate sotto casa mia, la saluto promettendole che sarei tornata presto a lezione di danza.
Quando salgo su ad accogliermi ci sono due estranei in salotto che hanno tutta l'aria di essere dei poliziotti federali.
Mio padre li ha fatti accomodare, ma ho la sensazione che questa volta non sarebbero andati via senza prima parlare con me.
Sono due uomini di mezza età, entrambi con un'espressione dura e poco benevola.
Il primo, che sembra il più anziano tra i due, è rimasto in piedi in disparte a osservare la scena a debita distanza. Nonostante gli anni che porta addosso, ha un fisico possente, ma ancora tonico. Mi ricorda la foto di qualche veterano di guerra. Forse in passato è stato un militare, mentre l'altro poliziotto, di corporatura tarchiata, è seduto accanto a mio padre con l'aria stanca.
«Signorina Brody, innanzitutto le porgiamo le nostre condoglianze» mi dice quest'ultimo.
Gli faccio un cenno con la testa mentre mi siedo su una poltrona di fronte a lui che continua: «Volevamo farle solo qualche domanda, ora che sta meglio».
Non sto affatto meglio gli vorrei rispondere, ma rimango in silenzio e impassibile. Senza aspettare risposta, il poliziotto prosegue: «Sono il detective John Fox dell'unità antiterrorismo e il mio collega è Anthony Miller».
Guardo l'altro uomo che mi fa un semplice cenno con il capo senza dire nemmeno una parola, ma il suo sguardo astuto e penetrante mi mette in uno stato di soggezione, come se mi stesse facendo un attento esame di tutto ciò che dico o faccio.
Perché mi sembra di essere a un interrogatorio? Io non ho fatto niente, eppure... mi sento nervosa e le mie mani tremano in modo impercettibile.
Ho l'impulso di nasconderle, ma non lo faccio e allo stesso tempo spero che la mia tensione passi inosservata all'occhio attento del poliziotto rimasto in piedi.
«Mi può riepilogare tutto ciò che ha fatto il giorno dell'attentato?» mi chiede diretto il detective Fox.
Mi schiarisco la voce e, cercando di rimanere più calma possibile, rispondo alla sua domanda confermandogli di essere stata a trovare mia madre in ospedale nel pomeriggio e poi di essere andata nel locale dove c'è stata la prima esplosione.
Il poliziotto mi fa prima parlare e poi comincia a farmi una domanda dietro l'altra con un tono apparentemente neutro, ma so già che ha tratto le sue conclusioni.
Ci sono troppe coincidenze.
Mentre prende appunti su un taccuino, lo interrompo: «Avete notizie di Leyla? La state cercando?».
Senza alzare lo sguardo, il detective Fox mi risponde che c'è un'indagine in corso.
Quella sera Ibrahim aveva una cintura da kamikaze addosso, ma nonostante l'intervento di alcuni agenti, è riuscito a scappare portando con sé Leyla minacciando di farsi esplodere.
Mi ripete le stesse cose che dicono ai telegiornali da giorni: probabilmente sono tornati in Siria usando dei passaporti falsi, protetti dall'organizzazione terroristica che ha rivendicato gli attentati.
Ma io so che Leyla non può essere una terrorista. Lei non c'entra nulla con tutto quello che è successo...
Il detective insiste nel chiedermi se l'ultima telefonata con Leyla mi fosse sembrata una trappola, ma non può essere: Leyla non avrebbe voluto la mia morte, né quella di mia madre.
Sembra strano anche a me che sia scoppiata una bomba proprio nello stesso ospedale dove c'era mia madre, ma trovo assurdo che qualcuno volesse colpire me indirettamente.
Quel pensiero mi toglie il respiro, ma cerco di mantenere la calma, mentre quel poliziotto continua a bombardarmi di domande.
«Non ha mai dubitato della sua amica? Non ha mai notato niente di sospetto in lei?» incalza.
«Io...» farfuglio, «no, no... non ho mai notato niente. Come può pensarlo?»
Se Leyla mi avesse mentito, lo avrei capito, ma mentre rispondo un piccolo dubbio s'insinua ugualmente dentro di me.
Non è forse stata Leyla a darmi l'indirizzo di quella chat? E Malak? Che ruolo aveva in tutto questo?
«Ha notato qualcosa di strano negli ultimi giorni?» mi chiede infine.
Io rimango in silenzio, ma è mio padre a prendere la parola.
«In realtà, qualche giorno fa, abbiamo avuto un furto in casa...». Il poliziotto alza di colpo lo sguardo, ma riesce benissimo a non lasciar trapelare la sua sorpresa.
«Avete sporto denuncia?» chiede senza cambiare tono.
«Ecco, no... Con il funerale e con tutto quello che è successo, non ci abbiamo dato molto peso...» chiarisce mio padre.
«Cosa è stato rubato?» mi domanda il detective questa volta con tono più duro, come se pretendesse da me una risposta meno vaga di quelle che ha ottenuto finora.
Il fatto che l'abbia chiesto a me e non a mio padre la dice lunga.
«Il mio portatile» rispondo con voce stanca, cercando di dare l'impressione che il fatto non significa nulla per me in confronto alla morte di mia madre.
Perché lo sto facendo? Perché voglio proteggere Malak?
Il mio istinto mi dice che lui è la chiave di tutto, eppure sono convinta che non c'è mai stato nessun inganno in ogni parola che mi ha scritto in chat. Il mio cuore lo sente, lo sa...
Mio padre spiega che il ladro è entrato dalla finestra della mia stanza, così il detective mi chiede se può dare un'occhiata.
Si alza per seguire mio padre che gli fa strada, mentre io mi sollevo a fatica per accompagnarli a mia volta.
Entrambi i poliziotti guardano in giro attenti: la mia stanza è in completo disordine; il letto sfatto, vestiti dappertutto e pile di libri e riviste ammonticchiate in ogni angolo.
In tutto quel casino è difficile trovare qualche indizio.
Il poliziotto tarchiato ispeziona la finestra per vedere se ci sono segni d'effrazione, mentre il suo collega, che finora non ha detto una sola parola, si sofferma a guardare la mia scrivania, o meglio lo spazio vuoto dove di solito c'era il mio pc.
Cerco di nascondere il panico perché intuisco i suoi pensieri quando sofferma lo sguardo su un piccolo libro appoggiato sul tavolo.
Smetto di osservarlo per non dare sospetti, ma noto con la coda dell'occhio che ha aperto il volume alla prima pagina, dove a fare da segnalibro c'è una violetta esiccata.
«Qui è tutto a posto, ma se doveste notare qualcosa di strano, qualsiasi cosa, chiamateci, ok?» dice il poliziotto alla finestra voltandosi verso mio padre.
Il suo collega chiude il libro poggiato sulla mia scrivania e, passando veloce lo sguardo da me al detective Fox, apre la bocca per parlare per la prima volta: «Possiamo andare, qui non c'è nulla!»
I due se ne vanno, ma io mi siedo sul letto sfinita, come se avessi trattenuto il fiato per tutto il tempo.
Non capisco. Non riesco davvero a capire, ma ora più che mai, sono sempre più convinta che Malak c'entra qualcosa con tutto ciò che è successo, perché io so... e ora lo sa anche Anthony Miller, che è stato proprio Malak a rubare il mio computer e lasciare come prova quel libro.
Non so come abbia fatto a scoprire chi sono e dove abito, ma suppongo che hackerare il mio pc sia stato un gioco da ragazzi per lui.
Quando sento la porta di casa chiudersi, mi alzo e prendo quel piccolo oggetto tra le mani: è un libro di preghiere musulmane.
Lo apro alla prima pagina e rileggo la frase scritta a mano:
Addio Marah!
Il mio compito è finito.
Non smettere mai di pregare e ricordati che non sei mai sola!
Mal
Spazio autrice
https://youtu.be/60ItHLz5WEA
La colonna sonora di questo capitolo è Faded di Alan Walker.
La prima volta che ho guardato il video, ho subito pensato a Malak perché è proprio così che me lo immagino.
Guardatelo e capirete!
Allora? Un capitolo piuttosto lungo, per cui vi ringrazio per essere arrivati fin qui a leggere.
Ogni parola, soprattutto della prima parte per me è stata una vera sofferenza perché mi è sembrato di vivere io stessa il dolore di Marah.
Cosa ne pensate?
In questo capitolo inoltre, vi ho lasciato tantissimi indizi e a questo punto vorrei che mi faceste sapere tutte le vostre ipotesi, anche quelle più assurde.
Vi piace la piega sempre più thriller che sta prendendo la storia?
Ricordatevi di Anthony Miller perché, nel finale, sarà un personaggio chiave per svelare il mistero di tutta la storia.
Secondo voi, perché ha taciuto nonostante abbia chiaramente letto la dedica di Malak su quel libro di preghiere? Ahahahah... per saperlo dovrete aspettare perché per ora non ve lo dico 🤐🤐🤐😜
Ma cosa intendeva dire Malak con quella dedica?
E Leyla? Secondo voi era complice o vittima di suo fratello?
A presto ❤
D.J.
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