30
Alzai gli occhi dal pavimento di sabbia, per puntarli dritti davanti a me, dove una tela infinta, si stava tingendo dei colori del tramonto.
Ci sistemammo ad osservare il mare, concentrati come se fossimo al cinema, come se il cielo potesse parlare, intrattenendomi in una lunga storia sussurrata a fior di labbra.
Ero lì, a far scivolare via ogni pensiero, insieme alla costante discesa del sole; scivolavano via, come l'acqua del mare accarezzava la battigia.
Con le ginocchia abbracciate al petto, come uno scudo che non ero ancora in grado di levare, e la testa, appoggiata alla spalla di Ethan, alla mia sinistra, osservavo il paesaggio colorarsi di calore, quel calore che tanto bramavo di sentire dentro.
<< Grazie Eth >> sussurrai, guardando lo schermo del cielo di fronte a me, chiedendomi meravigliata come fosse possibile creare colori così unici e sensazionali,
<< Sono io, a ringraziare te... >> rispose, piatto come il mare,
<< Non è vero >> ribattei sicura, con la prepotenza del vento nella voce, e con un lieve sorriso ad impreziosirmi le labbra per quel discorso, quello scambio di ringraziamenti reciproci, che si ripeteva fin troppo spesso tra di noi.
<< Tu, sei riuscita a farmi dimenticare tutti i pensieri che iniziavano ad infastidirmi la mente, assillandomi.
Li hai cacciati via senza problemi, come il vento fa con le nuvole; mentre io, al contrario, ho portato le nuvole a riempire il tuo cielo, sono riuscito a farti gremire la testa di pensieri che ti hanno oscurata, ingrigendoti >> disse, con la voce che vibrava di emozioni nascoste.
<< No, Eth. Sei riuscito a donarmi una giornata magica, una di quelle indimenticabili, che rimarrà impressa dentro me per sempre.
E sì, sono arrivate alcune nuvole, per colpa mia, della mia testa che gira troppo velocemente, delle mie paranoie, delle mie ansie che sanno soffocarmi, ma tu... tu te ne sei sbarazzato, immediatamente, schiacciando come mosche quegli insulsi pensieri che mi ronzavano in testa... >> affermai, notando come i gabbiani volassero morbidi sulle sfumature rossastre, osservavo la loro sagoma, eclissata dalla luce dominante del sole, neri come le ombre che stavano per incombere, aprivano e chiudevano le ali, contraendosi, spingendosi, li vedevo quasi ansimare mentre cercavano di ottenere di più, più altezza, più velocità, più cielo da attraversare.
<< Dici davvero? Sei stata bene? >> domandò timoroso, con non so quale paura nascosta tra le ciglia fitte; non riuscì a mascherarlo, quel tremolio che vibrava nel timbro vocale, come corde di violino, il timore le stava suonando, scuotendole, facendole ondeggiare secondo il proprio movimento.
Ethan stava cambiando, si stava aprendo in un mondo nuovo, si stava dimostrando come un ragazzo fragile, pieno di dubbi e insicurezze... e tutto ciò, mi scaldava il cuore, nonostante, inconsapevolmente, a quella consapevolezza, lo sentivo vacillare e traballare.
<< Penso che sia stata la giornata migliore, da quando... sì... beh... hai capito... >> risposi, deglutendo parole amare, troppo scomode da essere pronunciate in quel momento.
I miei occhi scintillarono, quando una curiosità nacque spontanea in me,
<< Ethan... i pensieri di cui stai parlando, hanno a che fare con la direttrice e ciò che ci ha detto questa mattina? >> chiesi, giunta alla fine di quel complicato giro, o forse, era soltanto il punto d'inizio.
<< È... forse >> soffiò, sbuffando, appesantito,
<< Sei preoccupato per i bambini? >> domandai, sentendo un nodo di agitazione stringermi lo stomaco, legarmi e corrodermi.
<< Sì >> rispose, diretto, senza nascondersi dietro muri di legno, così friabili, da poterli distruggere con un semplice sussurro.
<< Perché Eth...? >> cercai di capire, sbattendo velocemente le palpebre, inondata da una gracile angoscia che iniziava a crescere prepotente ed arrogante nel petto,
<< Non lo so, è solo un mio, come dire... è una lieve sensazione di inquietudine, di preoccupazione... diciamo che la mia esperienza personale, con le famiglie adottive intendo... non è stata, esattamente... delle migliori >> spiegò, con troppe pause nel discorso, con troppe parole balbettate, con troppe deviazioni in piccoli vicoli, che altro non erano se non vicoli ciechi, che lo rimettevano davanti ad un muro, impossibile da scavalcare.
<< Ma la direttrice non dovrebbe assicurarsi proprio di questo? Non dovrebbe assicurarsi che le famiglie abbiano tutte le caratteristiche adeguate per poter adottare un bambino? >> domandai, perplessa, quasi arrabbiata contro quell'ingiustizia.
<< Si... ma non è così semplice come a parole... non sempre l'apparenza rispecchia la realtà... molte famiglie sono così perfette, sono vasi di cristallo colmi di fiori rigogliosi e profumati, così belli da lasciare chiunque senza parole, da non poter trovare nessuna obiezione nei loro confronti.
Quando arrivano in collegio, solitamente, alla Castillo spetta solo l'ultima parola, ma la decisione è stata già presa da istituzioni di grado superiore... >> disse, piatto e incolore.
Aveva ragione, ogni singola parola che aveva pronunciato era giusta...
Lo avevo vissuto in prima persona, ne avevo fatto parte, ero stata uno di quegli splendidi fiori esposti in quel vaso, mentre fioriscono, sbocciando rigogliosi, nascondendo che l'acqua, invece di nutrirli, li stia avvelenando.
Ma le sue spiegazioni, chiare e sufficienti, scivolarono via, la rabbia mi impedì di ascoltarle veramente,
<< Ho sempre sospettato di quella donna, mi sembrava... non all'altezza del ruolo che riveste, insomma, basta guardarla, è così distaccata da tutto ciò che la circonda, sembra fregarsene delle vite altrui!
Pensavo che fosse solo una mia impressione, non la conosco, come potevo giudicarla... eppure i suoi occhi... hanno delle ombre così strane per una donna della sua età >> dissi, tormentata, irritata, confusa... le emozioni si accumulavano in me, come pile di vestiti accartocciati, come le code, le corse, le spinte per entrare a un concerto, come le gomitate nelle costole per superare le file in discoteca... mentre l'immagine di quella donna si ricreava nella mia mente, seduta, come se fosse un manichino, un corpo senza più anima, freddo e grigio, svuotato da ogni respiro di colore.
<< Non è sempre stata così... è cambiata, radicalmente. Per chi la conosceva prima è... irriconoscibile, tutto è irriconoscibile >> sussurrò addolorato, straziato da quel ricordo che sembrava toccare un atrio, un ventricolo del suo cuore, stringendolo, pizzicandolo fino a farlo sanguinare.
<< Prima di cosa? >> chiesi, confusa da quelle parole.
Ethan sbuffò, frastornato, attanagliato dai ricordi.
Lo vidi indugiare, indugiare sulle parole da dire, sulla verità da confessare, sul passato da richiamare.
<< L'istituto, prima, assomigliava ad una grande famiglia; la direttrice stessa ne aveva una, una famiglia a cui aveva permesso a tutti di farne parte, chiunque volesse.
L'istituto era diverso, l'aria, l'atmosfera... persino i colori erano differenti, le pareti erano rosse, gialle, verdi... tutto sembrava essere più leggero; i problemi ci sono sempre stati, non era perfetto, ognuno aveva i suoi demoni che lo divoravano, ma insieme si stava bene.
Era sposata, suo marito era un uomo buono e forte; era come un pilastro per l'istituto, era la colonna portante su cui la struttura si appoggiava dolcemente, fidandosi del suo certo sostegno...
Tutto nella sua figura emanava autorità, bastava la sua sola presenza a portare il totale silenzio nella stanza, era necessario un semplice sguardo, per farti capire gli errori... quando sbagliavi e quegli occhi chiarissimi, trasparenti come il vetro, ti guardavano, era come se ti sentissi tagliare da quel materiale affilato, graffiare dal senso di colpa, come se loro potessero vedere tutto e farti vedere ancora di più.
Era capace di portarci il sorriso, la gioia, quella pura... sapeva essere una guida, il timone della nave, per ogni bambino, ragazzo o adolescente...
Persino per sua moglie, era in grado di rasserenarla con una semplice carezza.
Ci portava sempre dei regali, non erano oggetti o cose materiali, bensì storie... si sedeva al centro della sala, su una vecchia sedia di vimini intrecciato, ed iniziava a leggere; a volte raccontava senza bisogno di un testo a cui appoggiarsi; altre, recitava con un pesante libro sulle ginocchia; altre ancora, con un piccolo foglio di carta, stropicciato, strappato e logoro...
Attendevamo quel momento, con la brama degli spettatori quando si alza il sipario, con l'indomata voglia di sapere... erano semplici storie, se ci ripenso ora mi viene da sorridere per la loro insignificanza, ma per noi era la nostra speranza, era la nostra felicità.
Misero, entrambi, qualsiasi cosa in secondo piano per noi, la loro vita era interamente dedicata a noi, alle nostre esigenze.
Avevano un figlio, >> disse deglutendo, inspirando un po' di aria per poter sopportare il ricordo,
<< Era più grande di me di pochi mesi...
Era quel genere di bambino a cui non piaceva avere tanti amici, non amava le folle o i grandi gruppi rumorosi.
Me lo ricordo sempre, in ogni frammento della mia infanzia lui c'era... eravamo i più piccoli di tutto l'istituto, siamo cresciuti insieme, facendo ogni cosa uniti... eravamo letteralmente inseparabili.
Mi ricordo che aveva scongiurato la madre, assillandola finché non gli mise un altro lettino nella sua camera... e poi, scoprii che era per me.
Se chiudo gli occhi... mi sembra di sentire ancora le lenzuola morbide sotto i polpastrelli, profumate con quella fragranza ai fiori di lavanda della loro casa.
Svegliarmi in quella stanza... era... era qualcosa di unico.
Ma io non abitavo in quella casa, non ero parte della sua famiglia, anche se, ogni tanto, me ne illudevo.
Nessuno voleva stare con lui... i più grandi lo prendevano in giro, lo additavano come il figlio della direttrice, lo spintonavano, deridendolo, facendogli cadere gli occhiali, glieli rubavano, li lanciavano, a volte cercavano anche di nasconderglieli...
Io ci stavo bene, i suoi occhiali mi piacevano, anche se il rosso della montatura squadrata era un po' troppo acceso e insolito, ma lui voleva somigliare a Spiderman, era quello il suo sogno, voleva arrampicarsi sulle pareti, sulle facciate degli edifici grazie al potere delle sue ragnatele.
Poi, con gli anni, gli stessi che lo prendevano in giro, iniziarono ad avvicinarsi a lui, a desiderare la sua amicizia, il suo sguardo, o anche soltanto una sua parola... non era il suo affetto che gli interessava, tutt'altro, di quello non si curavano minimamente, la loro era solo una sporca maschera, la indossavano, coprendosi, recitando quella parte, convinti che stare con lui significasse essere privilegiati dalla Castillo.
Ma la direttrice non è stupida, lei lo sapeva, sin dall'inizio... e lui anche, ma quel comportamento è allettante come lo zucchero, come le caramelle per un bambino, nonostante tu sappia che siano finte, fatte di plastica, non riesci a resistere, ti illudi, addentandole, cadendo nella trappola e incrementando la delusione.
Poi arrivò Beth, e non molto dopo anche Chase...
Con Beth... beh, fu impossibile non legare... ma loro due, non sono mai riusciti ad andare d'accordo; lei, eccessivamente carica di pregiudizi, e lui, troppo rancoroso...
Litigavano sempre, erano scintille di rabbia e furore, non erano in grado di stare insieme nella stessa stanza, lei, si colorava di un'espressione che non riusciva a nascondere, carica di astio e disprezzo; e lui, iniziava a tremare di rabbia, come se nelle vene gli scorresse l'odio... a volte, se ci ripenso, ho il sospetto che ci fosse dell'altro.
Ed io ero sempre lì, in mezzo a quei due muri da cui scagliavano pericolosi fulmini, come fossi gommapiuma, cercavo di attutire i colpi che sferravano entrambe le parti, tentando di gestirli in modo che non si ferisse nessuno.
La direttrice si fidava di me, mi conosceva perfettamente, sapeva leggere ogni mia emozione... riusciva a capirmi meglio del suo stesso figlio >> disse, fermandosi, come se qualcuno lo avesse bloccato, le palpebre rimasero fisse e ferme, il petto immobile, non si riempiva più di aria, non ne aveva bisogno, troppo impegnato in quella lotta interiore.
Li vedevo, fiorire sulle labbra, quei boccioli che timorosi si dischiudevano, mostrando i loro soffici petali, ed appigliati ad ognuno di essi, pendevano dettagli, parole, fatti e sentimenti, che lui stava sorvolando, evitando di dirli.
Non li toccò, lasciò che quelle vesti che coprivano il cuore di quei fiori scivolassero a terra, perdendosi, disgregandosi in aria.
Non sapevo spiegarmene il motivo, probabilmente non li reputava importanti, o forse, al contrario, lo erano troppo.
Poi riprese a parlare, assorto, perso in un altro luogo del passato dove io non potevo entrare, ignorando quel tappeto di petali che si era formato ai suoi piedi.
<< Fu veloce sai...
Un momento c'erano e l'attimo dopo no.
Se ne sono andati così, in una macchina, padre e figlio, in un semplice viaggio verso il supermercato.
Un banale stop, un camion, un incidente. >>
Si passò una mano tra i capelli, affondando i pugni... era frustrato, letteralmente.
La voce vibrava di emozioni represse, i periodi, le frasi che pronunciava erano frammentate, sembravano una sintesi, parole brevi che mostravano con immediatezza il loro significato,
<< È assurdo, troppo...
I ricordi... nonostante il tempo, sono ancora nitidi, ogni singolo dettaglio è impiantato nella mia mente come se fosse ieri.
Il trillo del telefono che inondava la stanza, come se fosse un allarme che urla un'emergenza; la Castillo, che, soprappensiero, andò a rispondere con dei fogli in mano, la carta che cadeva, scivolava, ondeggiando in aria, come se fosse una foglia d'autunno che, ansimando perplessa, urlando straziata in un silenzio soffocante, soccombeva a terra, lasciando il suo ramo, il suo nucleo, la sua unica sorgente di vita.
E insieme ai fogli cadde lei, il suono delle sue ginocchia che graffiarono l'asfalto sembrò quasi rimbombare, stonare nel caos di quel momento, come la caduta di un albero in un prato silenzioso, il suo corpo, quella debole foglia, tremava come se fosse spintonata da un vento feroce, ma non era il vento ad urtarla, era il dolore, che la muoveva, che cresceva in lei ad ogni respiro, tramutandosi in singhiozzi agghiacciati, in suoni strozzati, in graffi sulla pelle.
Sembrava la scena di un film, così surreale.
La grande auto grigia era esattamente davanti a me, ma non sembrava neanche più una macchina... la carrozzeria era totalmente distrutta, deformata come se qualcuno l'avesse schiacciata tra le mani, comprimendola come si fa con la carta stagnola.
Non fu veloce la loro morte... o almeno non quella di entrambi... il marito, il padre che era per tutti noi, aspirò subito... ma lui, era ora su un'ambulanza, in una cornice di sangue e vetri, poi, su un letto d'ospedale.
Era lì, ma solo fisicamente, con il volto così sereno, che credevo fosse uno scherzo.
Corsi verso di lui sai, mi ci buttai a capofitto, volevo gettarmi sul suo corpo per svegliarlo come facevo ogni mattina, chiamandolo scherzosamente, prendendomi gioco della sua pigrizia, ma non lo toccai nemmeno, gli infermieri mi artigliarono la schiena, fermandomi, trattenendomi come se fossi un cane randagio malato e sporco.
Non era uno scherzo, non era un normale sonno... era in coma, in gravissime condizioni.
Mi sbatterono fuori dalla stanza, ignorando le proteste e le urla di un bambino solo... aspettai la direttrice lì fuori per non so quanto tempo, poi, distrutto, mi ritrovai a vagare per quei corridoi a me sconosciuti, senza una meta precisa.
Ero così confuso, non capivo come fosse possibile, che due giovani vite, fossero state distrutte in un solo attimo.
Poi capii, che a volte succede, accade.
Inaspettatamente.
Inconsapevolmente.
La tua vita inizia.
La tua vita viene interrotta.
La tua vita cambia radicalmente.
Il tuo mondo si sgretola in troppi frammenti, e tu non puoi fare niente.
È per questo che sono arrabbiato, per l'impotenza che sento cucita sulla pelle.
Mi sembra un filo ruvido, nero, lo sento pungicarmi la pelle, lo sento infastidirmi, tanto da non potermi più sfiorare... si prende gioco di me, quel filo del destino che ognuno di noi ha già impresso su di sé.
Mi sembra di sentirlo ridere sai, è una risata stridula, aspra, che ti perfora i timpani.
Ride, quando mi dispero, quando cerco le risposte alle infinite domande che mi pongo.
Ride, quando inizio a pensare.
A pensare alla mia vita, al mio passato... al mio futuro.
Mi deride, ricordandomi che dal destino non si scappa, che quel filo, non so come, non so quando, mi trascinerà ancora sulla strada da lui scelta... ed io anche se tenterò di divincolarmi, non potrò impedirglielo.
Quella tragedia ha cambiato tutti.
Ma sopratutto lei... alla sua vita è stato sottratto il colore.
Continua a vivere, ma non c'è niente per cui lo fa.
È diventata solo un corpo.
Non giudicarla negativamente, si è rialzata, continua a camminare solo per l'istituto.
Ma, nonostante non si lamenti mai, nonostante in silenzio continui a percorrere il suo cammino, non può impedire al suo corpo di procedere zoppicando malferma >>.
C'era amore nelle sue corde vocali, come se quei lembi tendinei fossero adornati da fiori dolci come lo zucchero filato.
La sua non era solamente compassione o tenerezza, il suo era un affetto sincero e dolce, per quella donna, che aveva perso tutto ciò di più caro per lei...
E, nonostante Ethan non me lo disse mai, avevo la certezza, l'assoluta sicurezza, che lui gli fosse stato accanto, sapevo, come una conoscenza primitiva, che fosse merito di quel ragazzo se ora la Castillo riusciva a sopravvivere.
Lui, che, quando la direttrice non riusciva a rialzarsi era stato la sua fune; lui, che quando lei non riusciva a pensare, dominata dagli incubi e dal dolore, era stato il suo psicologo; lui, che quando lei non riusciva a camminare saldamente, traballando malferma, era stato il suo bastone su cui appoggiarsi, pronto a sostenerla.
Lo sapevo, perché era nel suo carattere, era la sua indole altruista, pronta ad aiutare il prossimo, si impegnava a curare quell'aiuola per far sì che i fiori sbocciassero nuovamente rigogliosi... mentre la sua, il suo giardino, diventava sempre più secco, trascurato e irto di spine velenose, la sua aiuola assomigliava ad un riquadro di terreno morto.
Ma lui non se ne curava, lo ignorava, strizzando gli occhi a quella consapevolezza, a quel dolore che bruciava violentemente le foglie dei suoi fiori, stringendo i denti, quando le radici persero forza, arrendendosi quando i petali caddero.
Era quello Ethan, un ragazzo ferito, che anteponeva il dolore degli altri al suo.
<< Oh... >> fu l'unico suono che riuscii a pronunciare, apparì quasi un verso strozzato, mentre era solo sintomo di sorpresa.
Sentivo un dolore dentro, come se mi stessi immedesimando in loro, nel loro passato.
La mia testa continuava a domandarsi quanti anni fossero passati, quando quella catastrofe fosse successa...
E poi lo vedevo, quel bambino dai capelli castani un po' troppo lunghi, quel bambino, dalle labbra a cuore, perché il suo era troppo grande per essere solo nel petto...
Quel bambino in cui sul suo volto sembravano esserci solo quegli occhi verdi, così importanti, così profondi, così addolorati.
Mi sembrava di vederlo, mentre cercava di capire, mentre si guardava intorno cercando aria, cercando aiuto... ma nessuno sembrava notare quel bambino indifeso e insignificante.
Tutti, erano troppo persi nel proprio dolore, erano immersi in quel caos che stordiva chiunque.
Quel bambino, non poteva permettersi il lusso del dolore.
Quel bambino, poteva solamente reagire, cercando, invece di una mano tesa, di tendere la sua.
Avrei voluto dirgli, che lui non aveva sbagliato nulla, che era riuscito in tutto al meglio delle sue possibilità.
Avrei voluto abbracciarlo così forte, da poter assorbire quel dolore che si portava dentro.
Avrei voluto tuffarmi nel mare, con le nostre dita intrecciate, mischiarmi con quell'acqua salata, e non riemergere mai più in quella realtà troppo malata per poterla combattere.
Lo abbracciai, intrecciando le mie gambe alle sue, ma restando in silenzio, assorta, persa in lui.
Ora la capivo, capivo ogni comportamento di quella donna che prima mi sembrava incomprensibile; e mi trovai completamente d'accordo.
Quando tornammo a parlare, le nostri voci dialogarono tranquille, totalmente normali, le nostre menti avevano abbandonato il passato per tornare nel presente, ma le nostre anime, ormai, si erano sporcate dell'altra, e scindere quel colore era impossibile... ognuno si sarebbe portato per sempre, le sfumature dell'altro dentro sé.
Gruppi di ragazzi camminavano sulla spiaggia gioiosi, una festa stava prendendo vita, ed i preparativi erano ormai quasi conclusi.
Quando il blu coprì il cielo, ci alzammo, e, attraversando controcorrente la fiumana di persone ci dirigemmo verso il parcheggio.
Camminando mi colpì un ragazzo, stringeva nella mano una polaroid, unica e rara, l'avvicinava all'occhio, premeva il pulsante e scattava foto a ragazzi, amici, fidanzati, a chiunque si mettesse in posa dinanzi a lui; poi questi gli porgevano i soldi, e lui, agitandolo al vento per farlo asciugare, gli consegnava il loro ritratto.
Finché, dinanzi a lui, non ci trovammo noi.
<< Volete una foto? >> chiese cordiale quel bel ragazzo dagli occhi nocciola, con un sorriso sul volto e le fossette nelle guance.
Annuii entusiasta e mi tastai i pantaloni, un poco preoccupata, in una ricerca alquanto frenetica,
<< Aspettate, ma voi eravate seduti laggiù poco fa? >> domandò, in modo così cordiale che mi domandai se ci conoscesse, mentre indicava con il braccio teso la battigia, inclinando la testa di lato, studiandoci meticolosamente,
<< Sì >> risposi perplessa da quella domanda,
<< Perché? >> domandò Ethan con fare indagatore e malfidato,
<< Vi ho scattato una foto, dovrebbe essere... aspettate... >> disse iniziando a cercare ansioso qualcosa nel suo disordinato zaino nero,
<< Eccola! >> esclamò esultante con quel riquadro in mano,
<< Volevo tenerla per me, mi piaceva l'atmosfera... il colore del cielo interrotto solamente dalle vostre sagome nere >> spiegò perso completamente nella sua arte.
La osservai cercando di capire se eravamo veramente noi, quelle due comuni figure oscurate dall'ombra, mentre guardando un mare che abbraccia un tramonto, si lascivano avvolgere dalle nuvole.
Un sorriso nacque sul mio viso, raggiante e felice.
<< Posso averla? Te la pago... >> dissi, sperando di rendere quella polaroid mia,
<< Questi bastano? >> domandai, estraendo le banconote dalle tasche dei pantaloni e mostrandogli il mio misero stipendio; lui fece una smorfia un po' sofferente, come se non volesse confessarmi la verità,
<< Per una sì >> rispose grattandosi pensieroso il mento,
<< Quindi, mettetevi in posa! >> affermò improvvisamente allegro.
Lo guardai perplessa, inarcando un sopracciglio,
<< No, aspetta... >> tentai di dire, ma lui mi azzittì subito,
<< Sorridi ora! >> disse ammiccandomi giocosamente, ed io temetti di essere arrossita; guardai Ethan, e davanti alla sua espressione corrucciata per quel gesto scoppiai a ridere, lui si unì a me, e restammo immortalati, racchiusi in un riquadro, contornato da spazio bianco.
<< Ecco a voi! Siete usciti bene >> disse ammirando la sua opera,
<< E questa... considerala un regalo da parte mia >> aggiunse porgendomi entrambe le polaroid senza troppi convenevoli, poi, prese i soldi, e sorridendo divertito si allontanò verso altri giovani da fotografare.
Seduti comodamente in macchina con un dolce sottofondo musicale continuavo a guardare ammaliata quelle due semplici foto... e nonostante gli occhi splendenti e i sorrisi puri mi facessero vibrare il cuore, era l'immagine delle nostre sagome che sporcavano il tramonto ad avermelo rubato.
<< Tu quale vuoi? >> domandai ad Ethan, girandole nella sua direzione; cambiò la marcia e svoltò a destra prima di voltarsi verso di me,
<< Tienile tutte e due tu, era per te il regalo >> affermò semplicemente, con la voce leggera,
<< No no scegli! >> insistetti come una bambina,
<< Scegli tu >> rispose, senza evidenti preferenze,
<< Dai Ethan, voglio che decida tu, a me piacciono entrambe >> replicai, con quel sorriso così stupido che mi tingeva il viso.
Lui sbuffò, come suo solito, ma era palesemente divertito dalla situazione; velocemente voltò ancora il viso verso di me, e, soffermandosi velocemente su entrambe declamò la sua decisione.
<< La seconda >> disse, impugnando saldamente il volante,
<< Quale preferivi? Ora me lo dici? >> domandò, quel ragazzo che non sapevo fosse curioso,
<< La prima >> risposi banalmente,
<< Seriamente? >> chiese incredulo,
<< Sì >> confessai, felice ed orgogliosa della mia scelta.
<< Ma se nemmeno ci si vede, potrebbero essere chiunque >> affermò in modo semplice ma diretto e puntiglioso, rivelando i miei stessi pensieri,
<< Per questo mi piace.
Potrebbero essere chiunque... e invece, siamo proprio noi. >> risposi, con il cuore colorato dalle sfumature di quel tramonto.
~Spazio autrice~
Mi scuso con tuuutto il cuore per il mio immenso ritardo!
Il capitolo è lungo quasi il doppio degli altri... avrei potuto dividerlo e pubblicarvelo prima, ma non so, mi dispiaceva spezzarlo... ho come l'impressione che non avrebbe espresso lo stesso significato.
Un'altra storia è stata raccontata... un altro personaggio è stato svelato, e con lei un po' di segreti che coloravano l'aria sin dall'inizio.
Spero vi sia piaciuta, spero non vi abbia delusa ma sopratutto, spero vi abbia sorpreso anche solo un pochino.
...temo sempre di cadere nel banale😂
Anche Ethan continua a mostrarsi a Megan, la sua vera indole sta uscendo allo scoperto!
Finalmente, ho spiegato anche il significato della copertina, quella polaroid apparentemente casuale... e del titolo!!
Termino questo spazio autrice con un grazie...
non mi viene mai in mente di scriverlo ma lo penso sempre... indipendentemente dal numero di letture che ogni capitolo riceve, anche se fosse soltanto una... sappiate che mi porta una felicità assoluta, sento il mio cuore gonfiarsi e illuminarsi della consapevolezza che qualcuno continua a leggere quelle parole che io scrivo... quindi Grazie, veramente.
❤️
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