28

La mattina arrivò, con i suoi raggi di sole molli come fili gialli che si srotolano dal proprio rocchetto e, scivolando, atterrano sulle superfici, rendendole visibili all'occhio umano; con il suo cielo, che come un piatto di plastica bianco colmo di tempera azzurra stava fermo, plagiando ogni cosa in attesa di essere dipinto; con i suoi pensieri, che forse troppo velocemente, abbandonavano i sogni, per intrufolarsi nel caos delle trafficate vie della vita.
E così fecero anche i miei, si incolonnarono in fila indiana, spintonandosi e tamponandosi, suonando il clacson come automobilisti inferociti, inondandomi del loro rumore.

Era sabato.
I bambini, consapevoli che non sarebbero andati a scuola, dormivano in pace, una pace che a me non era concessa.
Dopo averli svegliati, preparati e infiocchettati, come se fossero pacchetti regali, li affidai ad alcuni ragazzi, che si occupavano di loro solo nel weekend; li portarono in qualche sala ricreativa, a fare dei giochi di cui non mi ero informata, non particolarmente interessata.
<< Principessa, la direttrice vuole parlarci >> mi informò la voce di Ethan, mentre mi raggiungeva da un corridoio con il suo fisico allenato e fresco già di mattina,
<< Cosa vuole? >> domandai in modo leggero, incominciando a incamminarmi al suo fianco,
<< Giorno di paga >> rispose felice, sfregandosi le mani, gustandosi già il suo futuro stipendio.

Ethan bussò alla porta con la nocca del dito indice, attendendo tranquillamente il permesso per entrare; il mio sguardo scivolò assetato sul suo busto, coperto dal tessuto attillato della maglietta che gli fasciava sensualmente i fianchi stretti,
<< Oh eccoti Ethan... ah signorina Allen, non l'avevo notata, entrate pure, vi stavo aspettando >> affermò velocemente la direttrice, senza nessuna enfasi a decorarle il timbro vocale.
Sedeva fin troppo rigida, su quella comoda poltrona di velluto rosso scuro; il gomito era appoggiato ad uno dei due braccioli in legno, caratterizzati da complicati intarsi.

Osservavo in silenzio la sua figura minuta, era sola, al centro del pavimento, chiusa tra le pareti di quella stanza, che sembrava molto più di un semplice ufficio di lavoro, sembrava essere la sua vera casa.
Quelle mura, rigate dalle indefinite striature del legno, sembravano essere parte di lei, come fossero un solo corpo, con le arterie e le vene di un medesimo sistema circolatorio, indipendentemente dal fatto che si trattasse di semplice materiale, freddo e morto da tempo.
Non c'erano dettagli, nessun indizio ricollegabile a lei, nulla di solamente suo, era tutto così eccessivamente normale, come se si fosse trovata lì per caso, nonostante in realtà, i suoi occhi sereni, dello stesso marrone delle pareti, rivelavano che in quell'ufficio uniforme aveva trascorso la maggior parte della sua vita.
Indossava un completo elegante, di un colore simile al bianco panna, forse creato su misura per lei, e, guardandola, mi chiesi perché, perché quella donna non mostrasse mai alcuna sfumatura del suo essere, era sempre così insignificante, come se volesse nascondere ogni cosa che le ricordasse chi era.

Aprì un cassetto, in cui numerose buste bianche, apparentemente tutte uguali, erano disposte ordinatamente,
<< Allora signorina, credo sia già stata informata a riguardo, o sbaglio? >> chiese, alzando per un secondo lo sguardo interrogativo,
<< Sì, a grandi linee... >> affermai titubante,
<< Bene, questa... è per lei >> affermò, estraendone con sicurezza una e porgendomela,
<< La ringrazio >> risposi afferrandola, non riuscendo a trattenere un lieve sorriso orgoglioso.
Ripeté, senza preamboli, la medesima azione anche con Ethan, poi intrecciò le mani curate e le appoggiò sopra la superficie della scrivania.

Prima di iniziare a parlare, tossì leggermente, schiarendosi la voce, introducendo un lungo discorso,
<< Vi ho convocati qui insieme, perché volevo comunicarvi che una coppia di genitori è interessata ad adottare un bambino.
Ethan, tu sai già le pratiche da seguire in queste occasioni, quindi spero che riuscirai ad esporle al meglio a Megan.
Dovrete accoglierli, mostrargli la nostra struttura e presentargli i bambini, cercando di valorizzare ognuno di loro; hanno esposto una preferenza per i più piccoli, ma non sono ancora precisamente indirizzati... forse vogliono una femminuccia, ma non l'hanno espresso con chiarezza.
Ethan, mi fido ciecamente di te... so che sei molto legato a tutti loro, ma ricordati che nelle tue mani hai la loro vita, ma sopratutto, il loro futuro.
Bene, non ho altro da dirvi, potete andare ora.
Buona giornata >> disse, terminando il suo monologo e appoggiando stanca le spalle allo schienale della poltrona.

Rimasi interdetta alle sue affermazioni, incapace di riconoscere le mie emozioni.
Uscimmo, in silenzio, senza più alcuna parola, solo con il suono del vetro che sbatteva, mentre la direttrice si riempiva il bicchiere, che vuoto, giaceva solitario sulla scrivania, illuso di restare inosservato.

Ethan se ne stava andando, senza considerarmi,
<< Ei aspettami >> lo richiamai, saltellando per raggiungerlo,
<< Devo uscire >> affermò un po' freddo,
<< Ah... ok >> risposi, pronta a tornarmene in camera,
<< Vuoi venire? >> mi domandò, guardandomi timoroso per un mio possibile rifiuto, ma io accettai, felice, senza pensarci troppo.
<< Vado a prendere la borsa e arrivo >> dissi, con il corpo già indirizzato a salire le scale,
<< Andiamo subito, tanto non ti servirà >> ribatté, con un cenno della testa verso l'uscita, ed io annuii, con un'alzata di spalle di fronte al suo sorriso sghembo.

L'abitacolo dell'automobile, lasciata al sole, bruciava di aria soffocante e pesante, come il silenzio che alleggiava tra di noi.
Ethan era pensieroso da quando eravamo partiti, potevo immaginare il suo sguardo torvo sotto gli occhiali da sole.
Avevo ancora la busta bianca tra le mani, osservandola notai che la carta si era sgualcita, decorandosi di tante pieghe trasversali, come le rughe che segnano il passare del tempo e la vecchiaia.
L'aprii, alzando la lingua triangolare, con l'aspettativa di trovarci banconote del valore di un forziere colmo di pepite d'oro.
Probabilmente, il forziere dei mie sogni era già stato saccheggiato, perché all'interno trovai soltanto un unico pezzo di carta; lo tenevo stretto nella mano, mentre continuavo, con un leggero broncio sul viso, ad osservare il fondo bianco, ormai vuoto, totalmente sconcertata.

<< Non credo che fissandola creerà altri soldi, nemmeno se così intensamente >> mi schernì Ethan, distogliendo lo sguardo dalla strada, palesemente divertito dalla mia fronte corrucciata per quella semplice busta di carta,
<< Ma, ci deve essere un errore... >> dissi, spostando gli occhi su di lui in cerca di risposte.
Lui formò un ampio sorriso sul volto, scuotendo la testa,
<< Non credo principessa >> replicò dolcemente, come quando non si vuole dare una brutta notizia ai bambini, e si cerca di essere inevitabilmente il più delicati possibili,
<< Per forza! Questi non bastano nemmeno per una semplice maglietta! >> ribattei, sventolandoli,
<< Chase ha detto che ha risparmiato per comprarsi la macchina, ma gli devono essere servite due vite con questi stipendi! >> dissi nuovamente, lamentandomi della cifra ridicola.

<< Non sono uguali per tutti >> rispose Ethan, calmo ma divertito,
<< Che intendi esattamente? >> domandai notevolmente interessata,
<< Dipende dal compito di cui ti occupi e da quanto tempo sei qui >> spiegò conciso.
<< Ah... >> sussurrai, abbastanza delusa,
<< Ma soprattutto, dall'abilità con cui svolgi il tuo lavoro >> aggiunse, beffardo,
<< Non è un caso se la mia busta è stracolma, non per vantarmi eh...
Ma principessa, devi ancora faticare per poter raggiungere le mie competenze... sei solamente ai piedi di questa altissima montagna.
E indovina un po' chi c'è sulla cima?
Esatto, proprio io >> terminò spocchioso, dilettato dalla sua stessa simpatia, dando il via ad una serie di battibecchi che durarono finché non arrivammo a destinazione.

Scesa dall'auto mi ritrovai di fronte ad un grande cancello arcuato, contornato da alte ringhiere di ferro, che si innalzavano prepotenti, bucando il cielo con le loro punte affilate.
Sopra di esso, sorgeva, in una calligrafia elegante, dalle lettere arricciate, la scritta "Eden".
Paradiso? Domandò perplessa una vocina nella mia testa.
Ethan, vedendomi immobile, strinse il suo braccio attorno a me, in modo da circondarmi la vita, e mi condusse verso l'entrata.
Un tunnel rappresentava l'ingresso, era ricoperto interamente di edera rampicante, di un verde brillante, da cui la luce filtrava debolmente, attraverso raggi opachi, creando un'atmosfera soffusa.
Quel tunnel, decideva sporadico il nostro percorso.
<< Mi stai portando in un labirinto, per abbandonarmi mentre cerco disperatamente l'uscita? >> domandai, in quel luogo alquanto misterioso, in cui mancavano solo elfi magici e fate coperte di polvere d'orata, che ci invitassero a seguirli in un luogo ultraterreno.
<< Non è una cattiva idea, dovevo pensarci prima >> ripose allegro.

Finalmente quella galleria naturale terminò, lasciandomi per un istante interdetta dalla luce accecante, che mi costrinse a socchiudere gli occhi.
Mi ritrovai in un giardino dalle dimensioni immense, in cui ampi corsi e viali delimitati da siepi, si aprivano divaricandosi sul brecciolato bianco.
Stavo camminando tra alberi, le cui chiome erano ritagliate in perfette forme geometriche, alternati da alcune articolate strutture simili a fontane.
Era tutto curato nei minimi dettagli, secondo uno schema preciso, in cui le piante sembravano danzare e creare una coreografia precisa nella loro disposizione.
Ogni aspetto era così perfetto da far sentire chiunque inadatto in quell'ambiente, rendendo la perfezione un'oppressione... e mi trovai a pensare che non lo era del tutto, mancava solo un po' di colore a completare l'opera.

<< Ti piace? >> domandò Ethan guardandomi, con due pozze dello stesso verde che ci circondava.
I miei occhi vagavano in quegli interminati spazi, navigando su navi fatte di nuvole, immergendosi in nascondigli creati da radici nodose... mentre i suoi, i suoi erano rimasti fissi su di me, assorbendo ogni mia reazione come fosse linfa vitale.
<< Molto, è assurdo quanto ogni cosa sia studiata nei dettagli, senza lasciare nulla al caso... non trovi? >> domandai stupefatta.
Lui annuì di risposta, tornando a camminare con le mani nelle tasche dei pantaloni,
<< Sì, forse troppo... penso che manchi un po' di colore >> disse, facendo vibrare il mio cuore,
<< Vieni >> affermò, richiamandomi al suo fianco e riconducendomi in quel tunnel scuro, attendendo solo di rivedere la luce insieme a lui.

Un piccolo cartello bianco, simile a quelli stradali, capace di passare facilmente inosservato, era posto a sinistra e sanciva la fine del tunnel.
Portava delicatamente marchiata la parola "Merci".
<< Era un giardino francese... >> soffiai lievemente, come il fruscio del vento.

Questa volta, appena varcai la porta arcuata, mi nacque un sorriso sul viso, consapevole di aver riconosciuto subito lo stile.
Era stato ricreato, per quanto possibile, ogni aspetto della cultura giapponese.
Mi sentii inondare da un anelito di spiritualità, ogni cosa che mi circondava, mi trasmetteva un profondo senso di tranquillità e pace.
Il giardino era decorato da alberi tipici, che, nonostante la diversità, si fondevano in un unico disegno.
Aceri Rossi, dalle foglie dipinte da colori accesi sporcavano giocose il paesaggio; Ciliegi in fiore, con il loro rosa delicato spumeggiavano sul cielo azzurro; uno stagno di ninfee, si apriva al centro del giardino, attraversato dolcemente da un ponte armonioso e perimetrato da salici piangenti, che scivolavano mollemente, sfiorando lo specchio della superficie dell'acqua con i loro lunghi rami.
L'atmosfera sembrava ricreare con esattezza il quadro di Monet, lasciando senza fiato i visitatori, lasciandoli camminare in un giardino idilliaco, capace di far espirare la frustrazione per sostituirla con la serenità.

Le assi di legno consumate al centro, che costituivano il ponte, scricchiolarono sotto il mio peso, mentre a piccoli passi lo attraversavo fermandomi a metà.
Mi voltai con una giravolta leggiadra verso Ethan, perso completamente nei suoi pensieri,
<< Hai il telefono? >> gli domandai, mentre ogni centimetro del mio viso spruzzava gioia,
<< Sì >> rispose, continuando ad osservare in modo colpito come le ninfee bianche galleggiassero assorte, vicine a quelle grandi foglie, simili a cartoncini colorati totalmente appiattiti, arricchite da un semplice taglio triangolare che le rendeva uniche.
<< Me lo dai? >> chiesi, con la mano protesa verso di lui, attendendo quell'aggeggio elettronico,
<< Perché? >> replicò consegnandomelo senza proteste,
<< Ti faccio una foto...! Non ne stai scattando nemmeno una >> spiegai, costretta ad immortalare quel luogo spettacolare.
<< Non mi piacciono le foto... >> ribatté, nonostante il cellulare fosse ormai nelle mie grinfie.

<< Non fare il noioso... mettiti in posa dai! >> affermai, ignorando le sue parole.
Lui sbuffò, fingendosi contrariato, ma gli angoli alzati dei suoi occhi sorridenti, smascherarono le sue bugie.
Tuttavia, non si sistemò in nessun modo, restò fermo nella sua posizione, con i gomiti appoggiati al corrimano levigato del ponte, ad osservare, ignorandomi, quei fiori che nuotavano indisturbati, spintonati dalle carpe koi che abitavano lo stagno.
Un paio di click inaspettati lo risvegliarono, facendogli sbattere le lunghe ciglia, si voltò verso di me, sorridendo sghembo, ed un altro click lo colpì.
<< La smetti? >> domandò divertito, incrociando le braccia al petto e mostrandomi il suo fisico statuario, in tutta la sua maestosa altezza.

E... guardandolo, mi chiesi perché non gli piacessero le foto, a lui che, al centro di quel quadro, riusciva a rubare tutta l'attenzione all'opera d'arte, diventandone il protagonista.
Lui che, mentre mi guardava fingendo una faccia seria, aveva gli occhi di un verde magico, che eclissava l'insuperabile bellezza della natura.
Lui, che sapeva tutto di tutti, ma niente su sé stesso.

<< No >> risposi ridendo, continuando a scattargli foto, mentre lui, con quel sorriso provocatorio e lo sguardo ora scintillante, avanzava famelico verso di me.
Agile e flessuoso, divorava lo spazio che ci separava come un felino verso la sua preda... e la sua preda, ero io.
Nonostante stessi indietreggiando, in pochi passi mi raggiunse.
La fotocamera, euforica, continuava a ritrarlo interrottamente in una raffica di istanti, la coprì con una mano, oscurandole la visuale, azzittendola definitivamente.
La balaustra in legno del ponte, spinse aggressivamente contro i miei reni, e la mia schiena, si inarcò all'indietro contro natura quando il corpo di Ethan mi sovrastò, catturandomi, rendendomi parte di quel suo disegno.

C'era qualcosa di magnetico che stava diventando troppo pesante; le sue mani erano appoggiate normalmente sul corrimano ai lati dei miei fianchi, le gambe comodamente divaricate enfatizzavano la sua semplice postura.
Visto dall'esterno, sembrava stesse guardando il paesaggio, come se io non esistessi... se non fosse stato per i suoi occhi, interamente nei miei, in ogni sfumatura dell'iride.
Poi, il mio sguardo scese di qualche centimetro, saltò agilmente il naso perfetto, ed atterrò sull'arco di cupido, che dolcemente limitava il labbro superiore.
Inconsapevolmente, dischiusi le mie, con l'impressione di sentirmi più vicina, ma non abbastanza... sentii la punta del suo naso freddo, le sue labbra sfiorare appena le mie, come un flebile soffio, e dolcemente socchiusi le palpebre.

Uno scatto.
Di una macchinetta fotografica mi fece irrigidire i tendini delle spalle.
Le palpebre si aprirono, colmandosi nuovamente della vista di Ethan, che ora, corrucciato, guardava dietro di me.

~Spazio Autrice~
Yeees it's finally here!
Auguro a tutti voi una buona Pasqua, con tanto cibo e tanto, ma tanto cioccolato!!
❣️

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