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"Dormi
E non pensarci più
Che non è facile restare in questo posto."
-Celeste, chiudi tu?- la voce di Claudia eccheggia nel locale vuoto e sommariamente pulito, con ancora scope e palette di mezzo. Do una veloce occhiata all'orologio appeso al muro, mentre rimetto al loro posto gli ultimi bicchieri e piatti. 01:32. Un altro sabato passato così.
Raccolgo, ancora, i capelli neri sporchi in una coda alta e disordinata. Faccio qualche passo, massaggiandomi le tempie con le dita arrossate per il detersivo di merda che Renato continua a comprare, nonostante la pessima qualità.
La guardo, col trucco leggermente sbavato ed uno chignon sfalzato, mentre piega il suo grembiule e si precipita sul retro per posarlo.
Il suono dei suoi tacchi (perché s'ostina ad indossarli anche per lavorare, Perché dovrei lasciarmi sfuggire ore per portarli, scusa? Ha detto, una volta, mentre l'avevo accompagnata a fare compere ed ancheggiava fra una corsia ed un'altra) si fa lontano e, poi, ancora vicino; la guardo sciogliersi la chioma bionda e passarvi le mani all'interno, per dar un po' di movimento alle sue onde tinte.
Mi allontano dal bancone, al quale mi ero appoggiata, ed afferro le restanti scope, sistemandole nel retro del bar. -Sì, Cla'. Massimo dieci minuti e ho finito pure io.- le biascico un sorriso, facendo un cenno di no quando mi chiede se mi serve un passaggio.
-Vabbè, chiamami quando arrivi a casa, hm?- ha la voce pastosa e disorientata dalla stanchezza, mentre inciampa nei suoi passi e ride, cercando le chiavi della sua vecchia Panda nella borsa rossa ed enorme.
-Dovrai cambiarla, un giorno o l'altro.- le urlo, buttando le cartacce sul ripiano di legno rovinato e lei mi regala un dito medio, battendo la porta.
Resto sola, con la luce fioca della sera. Facciaccia é suggestivo, di notte. Le luci tendono a schiarirsi, o forse scurirsi, per il troppo utilizzo ed il silenzio, a mio parere, dona in parte ad un posto come questo.
Perché il rumore, o, forse, il silenzio della città non dà abbastanza a quello che meriterebbe d'avere. Il silenzio è fatto di ragazzi ubriachi che vomitano sui marciapiede e disegnano peni giganti sui muri, solo perché è divertente vantarsi a chi lo disegna meglio.
Il silenzio, al quale siamo soliti assistere, oltre che di questi spudorati, é fatto dai barboni sotto il ponte che implorano per del cibo; è fatto delle puttane sulla strada che porta alla scuola elementare; è fatto dai fottuti clacson che se non li avessero inventati sarebbe stato meglio. Mi viene difficile da credere, soprattutto mentre alzo le sedie da terra e le poggio al contrario sui tavoli, che vi sia mai stato, effettivamente, qualcosa di vagamente simile a ciò che il silenzio realmente è.
Batto, per distrazione e sonno, il piede contro la base di un tavolo e bestemmio, mordendomi il dito per la convinzione che faccia passare il dolore concentrarsi su qualcos'altro.
Termino di sistemare il locale e sciolgo il nodo al grembiule, andando nel retro per appenderlo e prendere tutta la mia roba, di fretta.
Rilego i capelli, anche se con disordine, ed infilo il giubbotto scuro di pelle, mettendo in spalla lo zaino e il telefono nella tasca posteriore dei jeans.
Mi passo una mano sul viso, per darmi un po' di grinta e monto in bici, lasciando gli avanzi, presi dal bancone, a Ranuncolo che sembrava non aspettare altro.
Ridacchio, cominciando a pedalare e sento l'aria fredda di Ottobre prendermi in pieno viso, facendomi rabbrividire duramente.
Le strade sono monotone, piene di buche e le conosco a memoria, mentre cerco di non prenderne alcuna e le mani si stringono attorno al manubrio.
I lampioni neppure sono accesi, certi sono rotti, altri non fanno luce come se fosse per analogia e le panchine ospitano persone che il sabato altro non hanno da fare che piangersi per qualcosa che hanno perso.
Come la casa, un figlio o qualsiasi elemento che ritenevano indispensabile nella loro vita; ed allora più volte ho visto una donna abbracciare una panchina per il figlio in coma da due anni o un uomo abbracciarsi perché la vita è stata crudele e si sente un inetto.
Arrivo sotto casa, ancora presa da quel turbine che ogni volta scaraventa la mia razionalità da tutt'altra parte rispetto alla mia testa; che mi pongo troppe domande e la vita non sempre è disposta a rispondermi, o forse, non le cerco neppure, io, le risposte. Che tanto non mi piaceranno, seppure me le dovesse dare. Le risposte non ci piacciono mai, vanno in contrasto con quel che noi pensiamo, che le domande, sempre, sono una conferma per ciò di cui siamo fortemente convinti.
Inutile chiedere ad un assassino come si dichiari, se lo si sa già che hai ucciso. Ma la vuoi la conferma e chiedi, per poi appenderti al fatto che ti ha risposto diversamente a quello che tu c'hai inciso dentro.
Porto la bici nel piccolo garage dalla serranda difettosa e mi massaggio le braccia, battendo i denti per il fresco, ed apro il portone con le chiavi, lasciandomi coccolare dall'aria leggermente più calda dell'interno del vecchio palazzo.
Ci metto poco, ma tanta stanchezza, per salire le scale ed aprire la porta di casa, già tutta buia e silenziata con ipocrisia e la diffidenza cangiante nell'arrogarsi che sia tranquillità, quella.
Non mi disturbo di non fare alcun rumore, che zia Maddalena nemmeno si preoccupa dell'ora in cui la sua nipotina sottopagata ritorni a casa. Non mi voleva con lei, che lo ammettiamo una buona volta, male non ci fa.
Accendo la luce in camera e getto lo zaino, prendendovi prima le sigarette, sul letto e vado in bagno, accertandomi di chiudere la porta a chiave.
Senza alzare i capelli, o altro, mi bagno il viso e lo asciugo con lo straccio sull'appendiabiti. Lo ributto lì, un po' come va, e infilo una sigaretta tra le labbra, accendendola e inspirando un po', stanca e demoralizzata. Che poi si sa che prima c'hai il sonno che ti si chiudono le palpebre, e poi cacci la grinta quando torni a casa e di dormire ti passa nemmeno per l'anticamera del cervello.
Tolgo i pantaloni, posando il cellulare sul mobile ed anche il giacchetto, restando in maglia e mutande, solo avviando lo scaldabagno, giusto perché se s'apre la finestra per far andar via il fumo ho freddo.
Piscio e libero il corpo carnale da un po' di peso, per poi salire sul davanzale e sedermici, coi piedi al cesso e la cenere in esso.
Mi stiracchio per prendere il cellulare ed accendere la connessione, solo per girovagare fra i vari social e vedere cosa ne esce.
Con Instagram e Twitter faccio anche subito, Whats app neppure mi disturbo a leggerli i messaggi e accedo a Facebook, accettando d'una via tutte le richieste d'amicizia, per poi tornare alla home e scorrerla tranquillamente, fra della cenere nella piscia e un tirare su col naso per il fastidioso raffreddore.
E poi, dopo una, ce ne sono altre tre, di Camel, e mi chiedo quando io ho cominciato a fumare così tanto. Perché un motivo, l'ho constatato da quando ho parlato con quel ragazzo strano qualche giorno fa, io non ce l'ho.
Ed un ennesimo tiro con un bel post sul social per chi non ha propriamente la voglia di farsi i cazzi propri. Come faccio ad ammazzare l'insonnia?
Sposto la mia attenzione su un post di una ragazza col tanga alla quale abbassano i pantaloni al supermercato e rido, per la stupidità della cosa.
Poi qualche citazione di Baricco e Fitzgerald mai letti e si va, verso la finta emancipazione con cui vogliamo arricchirci citando libri le cui citazioni le conoscono pure le galline in un pollaio. Perché se volessimo differenziarci davvero, citeremmo ciò che non si conosce, ma noi la diversità la vogliamo a metà, citiamolo un vecchio pavone ed uno squilibrato che ci metteva se stesso nei libri, perché tanto tutti li conoscono e apprezzano. E sì, diventiamo emancipati agli occhi fasulli di un nostro fatto a posto di coscienza, ma ad altri occhi sembreremmo solo ridicoli; che poi guardala, la critica, da dove arriva: sembriamo tutti messi su un palcoscenico col senso di dover far spettacolo.
Una notifica, qualcuna in più. Storco il naso e ne guardo alcune. Poi apro i messaggi privati, notando che ce ne sia uno. Jacopo Moldavi, dice e mi sento di annotarmi che non ho alcuna idea di chi é questo ragazzo. Ed apro la foto, sgranando gli occhi e la bocca, alla vista di una mascella pronunciata e delle lentiggini accentuate, per non parlare degli occhi color cacca di cane.
Cos'è, troppa sbronza o amiche noiose?
Ed eccolo, il suo parlare come se fosse l'unico che non commetta il peccato di sentirsi simile e ridacchio.
O forse la scarsa voglia di dormire dopo un sabato passato a lavorare. Scrivo e non mi pongo il problema che possa restar infastidito dalla mia costante acidità che non demorde nemmeno a pagarla.
Butto la cicca nel cesso e mi accorgo che siano le tre, quasi, e che la voglia di andare a letto scarseggia ad ogni rintocco di più.
Scendo dal ripiano di marmo vecchio e chiudo la finestra, infischiandomene se c'è o meno ancor puzza di fumo. Zia sa perfettamente che ho fatto di peggio, la mia era solo educazione verso una donna che odia sentir solo la puzza di una sigaretta.
Spengo lo scalda bagno, tenendo il telefono nella mano destra e tolgo anche la maglia, complimentandomi per la scelta di mutande di Trilli ed un reggiseno rosa con tanto di fiocco. Lancio nella cesta dei panni sporchi del bagno verde acqua anche i pantaloni, mettendomi in spalla il giubbotto solo per gettarlo a terra in camera.
In piedi, davanti al letto, incantata, come tanti, davanti allo schermo di un affare, riapro Facebook al solo vibrare per una risposta da parte del mio interlocutore superbo.
Addirittura? Sorprendente.
Ah ah. E dimmi, come mi hai trovato? Rispondo secca, amareggiata da risposte così sgarbate da parte di un idiota che s'atteggia ad uomo.
Infilo il mio bel pigiama con la faccia di Bloom sopra, che tanto la mia statura non é che sia tanto cambiata dai miei dieci anni, e faccio una treccia alle onde nere e disordinate, solo perché non mi va di lavarle.
Mi butto a capofitto nel letto, necessitando un po' di riposo per i miei arti e vago un po' per il profilo di Jacopo, constatando che ha postato solo qualche foto e nulla di più.
E come un richiamo, apro la notifica non appena arriva.
Non penso ci siano poi tante ragazze che fanno nome Celeste. Ovviamente. Grazie madre, per essere stata così fatta quando sceglievi il nome di tua figlia.
Sorprendente.
La stanghetta del cosiddetto visualizzato o quel che è, compare immediatamente e un sta digitando compare e, per una delle prime volte, sento una certa curiosità nascere.
Sta scrivendo. Dice il messaggio e per davvero mi scappa un sorriso, con le coperte grige sulle gambe e la lampada sul comodino accesa.
Sta registrando, digito e subito due sue emjoi rispondono come se fosse offeso.
Certi pensano che l'imitazione è la miglior forma di amore, io dico che fa schifo. Ed allora rido, percependo il sarcasmo, per la prima volta, dietro le sue parole. O forse, semplicemente, senza dare troppe spiegazioni a me stessa, affondando nei cuscini.
Così ti chiami Jacopo. Decido di proporgli qualche spunto. E non perché possa essere qualcosa alla quale, ovviamente, non arriverei, ma c'è quella strana sensazione che mi porta a cercare di sapere di più.
E non la capisco, la soddisfazione nello star parlando di fatti idioti con uno sconosciuto e di esserne, paradossalmente a ciò che sono sempre stata (o che ho sempre cercato di essere), contenta.
Così dicono, ma tu davvero ti chiami Celeste o ti piaceva il colore?
Che razza di domanda è? Rido, strofinando col polso le palpebre, che il sonno si fa sentire e sparisce, che va bene così, mi dico. Non c'è, poi, chissà quale bisogno di dormire, che la voglia mi manca.
Una domanda. Ma lo sai che hai gli occhi strani?
Che? Sarò strabica e non me ne sono mai resa conto?
Sono tra la piscia e il guscio di noce. Ma metti per caso le lentine? Mi tappo la bocca con la mano, non trovandovi nulla di così tanto divertente, poi, ma non lo facevo da un po', starmene ferma a parlare con qualcuno. Che sto sempre con la testa fra le nuvole o nelle app emergenti che qualcuno scarica solo perché fa moda, di scrivere i fatti propri su facebook non fotte un cazzo a nessuno, ma a tutti interessa di leggere quelli altrui.
I tuoi sono della cacca di cane.
Uh, contrattacco, mi piaci.
*cacca di gatto. Siamo delicati, per favore.
Il gatto obeso che aveva mia nonna non hai idea di che cacche faceva.
Mi interessa davvero.
E vola la notte, da che erano le due e fumavo delle sigarette seduta col culo sul freddo davanzale, sola, alle sei che lui mi sta parlando del fatto che ha dato, una volta, dei nomi a delle rondini su quei fili della corrente per strada.
E non che mi senta come nei romanzetti, compiaciuta e sicura che sia l'amore della mia vita; ma compiaciuta, riflettendovi, forse sì. Che a qualcuno, dopo tanto, non è dispiaciuto parlare con me, anche si gran belle cazzate.
Una sua risposta segue il racconto e scoppio a ridere, ancora, ripetitiva.
Che dici, ora che ti ho raccontato la finta storia delle rondini, ce l'hai sonno?
N/A: partiamo dal presupposto che manco il tempo per far cacca c'ho, vorrei dire che mi sto impegnando ad esigere da me stessa una qualsivoglia puntualità (povera Light, più di un mese). Ho amato scrivere il capitolo e non ho tempo per rileggerlo, correggerò qualche sbavatura.
Viva i pompieri.
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