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N/A: reagire a qualsivoglia dispiacere piangendo, non fa per me. Scrivo e cucino crepes, quanto sono strana.
"You're just a lost boy, with your head up in the clouds."
-Avete svolto dei temi notevoli, ragazzi.- la professoressa ci loda, passando di banco in banco, con i suoi capelli scuri e gli occhiali sul naso, mentre ondeggia i fianchi larghi, non preoccupandosi affatto dei commenti dei miei compagni.
-In particolare,- non ci bado, continuo a riportare frasi di canzoni sul mio quaderno, con la testa abbassata e la treccia che mi cade in avanti -Celeste, spero che un giorno mi concederai di leggere quello che scrivi alla classe.-
Di scatto alzo la testa, ritrovandomela di fronte, col suo sorriso tranquillo e dolce, mentre mi porge il foglio con un nove in rosso, senza ulteriori macchie oltre la penna blu.
Accenno ad una smorfia, coprendo il voto con un libro e tornando a scrivere, ignoro ogni commento sarcastico e, come sempre, mi ripeto che non possono accettarmi, se io prima non accetto me stessa.
Porto una mano nei capelli e mi appoggio col gomito al banco sporco, mentre la donna continua a parlare dell'importanza di alcune figure retoriche.
Un senso di nausea mi percuote, consapevolmente, perché c'é quel momento in cui tutto ti avvolge, ma non senti il bisogno di lasciare che esso lo faccia, con una forza di opporti che neppure conosci.
Piego la testa, cercando di far in modo che le lettere siano tutte della stessa grandezza, ignorando totalmente la lezione, mentre la musica si ripete nella mia testa, esplodendo in ciò che mi emargina dalla realtà.
Sono abituata a lasciarmi tutto scorrere così lontano, egoisticamente prendendo solo ciò che mi sembra opportuno non far andar via, utile.
Le persone, in generale, neppure quelle che non riescono a trattenere i loro commenti, non si sono mai sforzate di capirmi; mi sta bene, sono la prima a giudicare, senza che mi importi davvero che questi giudizi buttati lì possano ferire.
Mi aggiusto la felpa nera, facendo in modo che aderisca meglio al mio corpo, mentre mi alzo e tengo una sigaretta nella manica sinistra, pregando che la professoressa mi conceda di estraniarmi per poco.
Lei annuisce, senza che io neppure le ponga la domanda, nell'intanto che mi avvicino alla cattedra, urtando con le gambe qualche zaino o banco; non ci bado, non mi disturbo nel sorridere per delle assurde scuse.
E con le mani nascoste nelle tasche della felpa larga e i capelli alzati disordinatamente, cammino per il corridoio freddo del secondo piano della mia rovinata scuola. Alcuni bidelli fanno commenti sgarbati su altri ragazzi, mentre la signora Rosa scrocca una sigaretta da un ragazzo e mi chiedo quanto sia comodo, passare classe per classe a dire che se ne becca qualcuno, a fumare, lo porta direttamente dal preside ed, intanto, farsi dare delle Malboro dai ragazzi.
Accenno ad un sorriso, quando le cammino accanto e, passo dopo passo, prima uno, poi tre, qualcuno in più, ed arrivo al bagno bianco, chiudendomi dietro una delle vecchie porte con su tanti peni disegnati e frasi dedicate, con parole abbreviate.
Caccio l'accendino dalla tasca dei pantaloni scuri e porto la sigaretta alle labbra, accendendola e prendendo a fumare; lascio il corpo scorrere lungo le mattonelle e mi accascio accanto al cesso, facendo sì che la cenere vi cada dentro.
Non mi sono mai, realmente, posta il perché del mio così costante fumare; mi sembra solo mi liberi e mi faccia sentire, finalmente, la ragazza che di carino ha meno di nulla, quella per niente fatta per un mondo in rosa.
-Dovrò portarti da uno psichiatra un giorno o un altro, Celeste.- e le spiro fuori queste diavolo di consapevolezze stronze, quelle che vivi assente e che cerchi di calciare lontano da te. Quelle che ti piacerebbe ammettere di averle superate, che ti attraversano senza scalfirti e che non ti importa, stai bene così come sei.
Ma non è propriamente la verità, mentre butto la cicca nella tazza bianca e mi appoggio con la testa alle ginocchia, in silenzio.
Esco, storcendo il naso per il forte odore di candeggina mentre calpesto le mattonelle bianche e rovinate. Noto quanto possa risultare stanco il mio riflesso e quanto mi stia male la matita che scelgo ogni mattina di mettere, nonostante renda i miei occhi più scuri di quello che in realtà sono. Schiudo le labbra e mi appoggio al lavabo, accorgendomi che non sia stato pulito, tutto pieno di cenere e del giallo che si fa spazio sul materiale.
Una ragazza bassina entra, tenendo lo sguardo sul suo cellulare e giocando con alcune ciocche blu dei suoi capelli. Mi urta ed alza finalmente la testa, mettendomi a fuoco.
Sforzo un sorriso, superandola ed avviandomi verso la porta, ma -Sei Celeste?-
Mi acciglio, voltandomi e guardandola negli occhi scuri; lei mastica la gomma che ha in bocca e posa il telefono nella tasca posteriore del suo jeans chiaro e stretto. Il volto mi é familiare.
-Sono la ragazza che era fidanzata con quello che ti sei fatta quest'estate.- accenna ad una smorfia vendicativa e sta attenta a non perdersi nessun dettaglio, mentre mi squadra stridula. La voce mi muore in gola, nonostante io tenti di farmi andare bene qualche parola da pronunciare; ma non me ne pento, compro delle scuse ed un po' di silenzio valido, assieme ad esse, mentre gioco coi bordi della felpa che indosso. Rimetto le mani nelle tasche.
-Sei proprio una puttana.- scrollo le spalle, menefreghista, uscendo dal bagno, nonostante sembrasse voler continuare. Il suo accento sembra ovviamente del sud, rispetto a qui. Sarà di Roma.
-Non ho finito con te.- sento la voce, mentre una mano mi afferra il braccio e mi fa voltare; mi scoccio, respirando rumorosamente.
-Ascolta, non sono stata la prima con cui il tuo ragazzo ti ha tradita, lasciami in pace.- quanto egoiste e sbagliate potessero suonare quelle schiette parole, non mi importò. Le pronunciai, con finta autostima, mentre lei spalancava la bocca e si irrigidiva; le sue unghie le sentii conficcarsi nella mia pelle, nonostante il tessuto pesante.
-Sei una lurida troia.-
-Come se tu non l'avessi data.- schiocco la lingua al palato, sorridendo ancora e divincolandomi dalla sua presa, vado verso la mia aula.
La verità è che non ho la minima idea di chi possa essere quel ragazzo, sono certamente una puttana e non saprei come svincolarmi da quest'etichetta.
Oramai ci sono dentro, me lo tengo, questo titolo. Mi basta sputare cattiverie su ciò che pare indicarmi e tenermi strette tutte le accuse e i fatti, sbriciolando la verità pezzo pezzo, mi fa bene.
A volte mi dico solo che si è solo in un modo, può piacerti o meno, puoi piacere o meno; capita che ti perdi, che ci si perde.
Angela mi manca, rifletto, appoggiandomi al muro, avendo superato di qualche metro la porta della classe, sperando di prendere aria, ancora un po'.
Ma ad un certo punto lei ha scelto fosse meglio abbandonarsi, scindersi e non riunirsi. Lei mi credette quando, con tono piatto e sarcastico, le dissi che non avessi bisogno di una castana invadente nella mia vita.
Angela è quanto si può ammirare in una ragazza; senza mai avere trucco sbavato, le gonne corte al punto giusto e il corpo di quella che è una donna.
-Hai sempre la testa tra le nuvole- mi disse quando mi beccò a guardare il cielo, con le mani sulla pancia, unite, e il sorriso sulle labbra.
L'avevo conosciuta per sbaglio, camminando tra le corsie del supermercato della mia vecchia città, intenta nel cercare qualsiasi cosa mi servisse quel giorno. Lei mi era andata a battere contro, cadendo rumorosamente a terra, trascinandosi giù tutti i rotoli di scottecs.
-La aiuto io, signore, è stata colpa mia.- parlai d'istinto, mentre lei spalancava le labbra. Il proprietario ci stava davanti con le mani sui fianchi e quell'aria incazzata, tipica di chi fa poco sesso, mi sussurrò all'orecchio appena andò via bofonchiando.
Angela era quanto mi serviva per stare bene, credevo. Ma si sceglie, di perdersi o di trattenersi al terreno.
Con le lentiggini rossicce e i capelli di un arancione magnetico, in un corpo di appena un metro e cinquanta, sorrideva e ti faceva stare bene.
Pensavo che mi servisse quello, per i brividi che prendevano largo nelle mie ossa vuote e scalfite da più di una notte insonne.
-Ti va di guardare l'alba insieme?- le chiesi, un giorno, mentre stavamo dondolando su delle altalene per i bambini, a soli quattordici anni e le treccine per i capelli troppo lunghi, e lei si voltò, di scatto, mentre le labbra le si arricciavano per il sorriso spontaneo che si faceva spazio.
Poi, dopo qualche mese, quando c'hai quella sensazione di conoscerla da una vita e che lei scelga di restare, che voglia farlo, che sia disposta ad accettarti, lei si fidanzò.
Lentamente, si allontanava. Che pareva, ad un certo punto, che c'avesse rinunciato. Una mattina, mentre l'aspettavo sotto casa, per quel solito percorso che facevamo assieme, e lei mi passò davanti, nonostante io fossi visibilmente seduta sul muretto. Teneva la testa bassa, le mani alle bretelle dello zaino a quadri viola e i capelli che le coprivano il volto. Metteva, da quel giorno, solo felpe enormi.
E allora mi dissi che non ne volesse più sapere, e mi ripetei che le crepe sarebbero arrivate, in un modo o nell'altro, capitò solo che il tutto, contornato da un affetto che ritenevo smisurato, si fosse spezzato e sbriciolato prima del tempo.
E Angela, che odiava i capelli troppo lunghi, li lasciò crescere e se li lasciava cadere davanti al viso, senza che me potessi spiegare la motivazione. Che ero fatta così, mi serviva un perché, un capacitarmi, altrimenti avrei passato notti a struggermi le mani rovinate dal detersivo scadente di casa.
E io prendevo e tagliavo i capelli, ricordando che lei dicesse che mi ci vedeva meglio, ci vedeva meglio.
Angela, che c'aveva sempre la battuta pronta e il sorriso acceso, mi dissero che in classe se ne stava nel suo angolino, accanto al muro e disegnava sul banco, senza più prendere quei suoi voti altissimi. Angela, mi riportarono, faceva solo incazzare i genitori, la sua famigliola Barilla che non sapeva più comportarsi davanti al suo tornare a casa tardi e coprirsi sempre il volto.
Era diventata me, senza che io me ne fossi capacitata. E fu allora che riflettei che per essere come me, s'era infelici di professione, che il mondo faceva troppo chiasso per solo sentirsi.
E quindi, fu bislacco, perché cominciai io ad essere lei, ottenendo voti alti e scroccando sigarette, sebbene il fumo mi facesse schifo. Pensavo che vedendomi in una versione così simile a lei, cominciasse a riavvicinarsi.
Ma non successe ed io ricominciai a far incazzare mamma e presi in mano la mia prima canna, che sapeva di pura merda. Mi rammolliva, drogarmi, perché si trattava di quello, non lo ritenevo più insensato.
E mentre ero strafatta andai da lei, mi arrampicai sulla sua stupida villetta perfetta e rischiai anche di spaccarmi la testa. Lanciai sassolini al vetro della finestra della sua camera rosa e lei si affacciò, con una maglia a mezze maniche; ero troppo fatta per accorgermi lì dei lividi sulle sue braccia.
Schiuse le labbra e -Ti droghi, adesso?- uscì così pacato che la mandai a 'fanculo, senza dirle altro.
-C'hai la testa malata, Cele.- così mi chiamava lei, Cele. Era una cosa nostra, anche se io, un soprannome, non glielo avevo dato.
E poi, tornò lei. -Mi picchia,- mi disse e fu quando la vidi piangere che le scostai i capelli dal viso e notai quanti lividi ci fossero sul suo volto e lungo il suo collo. Persino le braccia stavano piene.
-Devi lasciarlo.-
-Che ne sai, non sei mai stata innamorata, Cele. Io lo amo.- e si alzò, scappando per l'ennesima volta da me.
Per due mesi non ci sentimmo, giurai che se fosse tornata le avrei detto, per la prima volta, che le volessi bene. Ma col cuore, come pilastro di una venuta fuori male.
Era tutto come una fotografia, in quei due mesi, mentre le immagini di quei tempi insieme si ripetevano fugaci e sarcastici; come quando ti ripeti nella testa che tutto va bene o frasi che t'hanno detto, ma te le dici meglio, magari con altre voci. Ecco, io ci sentivo la sua di voce, nelle parole belle che avevo letto in qualche libro.
Poi, un pomeriggio estivo mi chiamò e -Mi ha lasciata.-
-Hai bisogno che io ci sia?- lei disse che stava benissimo, che non fosse necessario. Io non ci badai e misi dei pantaloncini sporchi, oltre che una canotta troppo scollata, e corsi da lei.
Mangiammo del gelato al pistacchio su quel suo bel divano e risi a delle sue pessime battute, faceva proprio schifo in quello. Fui grata a Dio che lei fosse ancora buona e gentile come quando m'aveva lasciato.
Guardammo vecchi film d'amore e ridemmo, così forte da cancellare il mio ricordarmi che le sue ossa non avevano bisogno del mio farla rabbrividire.
Andò tutto bene fino a Natale, mia madre lo aveva passato in qualche discoteca e la sua famiglia mi invitò. Ricordo non avessi i soldi, allora, per permettermi dei regali. Ed allora presi la vecchia polaroid e scattai foto a bei paesaggi, le incorniciai e loro furono talmente buoni da tenerle appese, quelle foto di merda.
-Ora potrai trovare del tempo per guardare cosa metti, non dovrai più correre.- e mi fecero vedere la bici nuova. L'abbracciai, la mia Angela.
Ma si sa che tutto poi si crepa, penso ognuno di noi lo sappia. E il mio drogarmi non riuscii a contenerlo. Angela lo scoprì e quella stronza di mia madre, pure.
Il culmine arrivò quando picchiai una ragazza che aveva dato della puttana a mia madre e lei -Andrai da tua zia, quest'estate.-
E io smisi di farmi quelle stupide canne, vomitando nel cesso anche l'anima, che era Marzo. Ma lei non cambiò idea.
Fu allora che Angela disse che fosse stanca del mio vittimismo, di mantenermi i capelli nel mio rimettere e di provare a riparare una puttana, perché ero diventata anche quello.
Aggiunse che neppure le avevo mai detto quanto ci tenessi. E s'era fatta una donna, col seno prosperoso e i capelli di nuovo corti.
Allora -Puoi andartene quando cazzo vuoi.- era Giugno e stavo rigettando nel giardino la sbornia, accanto ai cespugli. C'ero pure caduta dentro.
-Smettila di avere la fottuta testa fra le nuvole e cresci.- le diedi della bisbetica scocciante, con tono tanto piatto da farla rabbrividire.
-Vai da uno psichiatra.- e se ne andò, consapevole di avermi ferito.
Dopo mesi, che già ero qui, quel drogato di Michele mi disse che fosse tornato col suo ex e che non la picchiava più. Mi disse che s'era fatta i capelli corti, sotto le orecchie.
Fui felice e devastata allo stesso tempo, perché mi riferì che di me non chiedeva. E allora buttai nella pattumiera la foto che avevo sul comodino e ripresi a fumare. Perché sì, avevo smesso.
Le lacrime arrivano al collo, lentamente, strisciando viscide e non perdo tempo ad asciugarle, lo faranno da sole.
Tiro su col naso e mi avvio in classe, riflettendo su delle scuse da usare con quell'idiota per il troppo tempo.
Gioco con le doppie punte dei miei capelli scuri, mentre vado a sedermi, bofonchiando delle parole e lasciando la donna sorridere, e rifletto che sia troppo che non li taglio, ma li preferisco lunghi.
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