16
"Tutti noi, e molto spesso, siamo quasi uguali ai matti, ma c'è una piccola differenza: i "malati" sono un po' più matti di noi, perciò qui bisogna tracciare una linea di confine. Ma di persone perfettamente equilibrate, in verità, non ce n'è quasi nessuna; su varie decine e forse anche su molte centinaia di migliaia se ne trova una, e, per di migliaia se ne trova una, e, per di più, questi esemplari non provano granché."
Ieri, o, semplicemente, poche ore fa, abbiamo terminato per fare le ore piccole solo per studiare tutto quello che avevamo evitato nel pomeriggio.
Lui faceva i miei compiti di fisica, io il suo latino, e davvero, alcune giornate, sono fatte per iniziare e morire nella tristezza. Ma che poi, irrimediabili, non sono, ed allora ti convinci che la vita non fa inesorabilmente tanto schifo.
Alcune serate, d'altronde, sembrano riprendere e rimaneggiare le brutte giornate, solo con la forza di scorrere fin troppo adagiate nella tranquillità.
Agiamo per insolenza e pessimo temperamento, così parliamo per nostalgia a delle stronzate già ascoltate, a fatti vissuti con troppa nonchalance, invece, viviamo.
Così, è mattina e mi costringo a portare il mio culo stanco fuori dal letto per trascinarmi nel bagno e fumarmi la mia prima sigaretta.
A volte, sono solo andata. Mi sento in colpa se mi guardo allo specchio, con l'impressione di notare solo la maschera che mi hanno messo. Tutto ruota e, come sempre, di mattina, mi ci metto d'impegno e presuppongo di starmene ferma e basta; solo, ferma.
Giro la manopola del rubinetto portandomi un po' di acqua fredda sul volto e -Dannata caldaia, mai una volta che funzionasse.- inveisco, mentre mi lavo, tutta infreddolita ed accendo quel benedetto scaldabagno, sistemandolo come si deve sul mobile accanto alla finestra.
Poi, afferro il pacchetto di sigarette e mi siedo sul water, nella perfetta combinazione di piscia e miccia nella tasta, ritrovandomi a ritenermi troppo volgare, a volte.
-Sono le sette e mezza.- la voce di mia cinguetta fuori dal gabinetto, che si starà mettendo i suoi orecchini mentre passeggia nei dannati tacchi a spillo, tornata da qualche giorno più armoniosa ed affettuosa. Mi rivolge qualche parola e non solo di riguardo, si preoccupa della mia giornata e si scusa -- si scusa, quando è solo cortesia, che, d'altronde neppure a lei spetterebbe.
Ma lei lo fa, si scusa per la serata di merda di circa dieci giorni fa, tirando in ballo l'argomento ogni qualvolta può e mi chiedo, ogni santa volta, se sia semplice gesto di colpa o cordiale buonsenso influenzato da qualcos'altro.
Fatto sta, che preoccuparmene adesso, non mi va e mi affretto a vestirmi, alzando i capelli in una coda, accertandomi che non ci siano troppi ciuffi fuori posto e batto la porta del bagno dietro di me, lasciando anche quella macchina da calore accesa ; la spegnerà lei, io l'ho dimenticata.
Metto lo zaino in spalle e stacco dalla presa della corrente il caricabatterie, infilando in tasca il telefono.
Altre giornate, poi, sono peggio di altre. Pare che tutto sia meccanico e prevedibile, tutto è già fatto ed allora guardi quel colore asciugarsi senza che tu possa impedirlo o cambiarlo. Mangi perché devi, bevi per lo stesso motivo e per tale, vivi la tua giornata. Certe giornate sono troppo tristi, altre troppo vivibili e nauseanti, alcune, invece, solo schematiche e create per starsene lí a ricordarti che hai ancora da respirare e che è d'obbligo farlo.
Biascico un ciao zia più forzato di quello che dovrebbe essere per prassi e mi muovo a scendere le scale, con passo rumoroso -- che ne sanno quelle protagoniste dei miei romanzi preferiti, quelle col piede felpato ed i movimenti aggraziati ; io batto anche il ginocchio alla ringhiera, nel tentativo di fare un salto per superare qualche scalino di troppo.
-Perdio e se sto attenta,- mi lamento, mordendomi il labbro e accasciandomi sul penultimo gradino color crema, tutto sporco -- se la signora facesse le pulizie per come viene pagata, non avrebbe certamente il tempo di passarsi quella spessa matita sulle labbra -- per massaggiare la zona dolorante.
Sento il cellulare vibrare e lo prendo con la sinistra, constatando che Jacopo mi sta chiamando e sbuffo, poi -Fai che sia importante.-
-Che c'è, acqua fredda o ti sei fatta male?- il sarcasmo trapela chiaro dalle sue parole, mentre io mi metto in piedi e sbuffo, ancora.
-Entrambi.-
-Sei un fenomeno, poi me lo insegni.- trabocca, ora, la voce, di puro divertimento venerante ed io sbuffo, di nuovo, permettendogli di avere altro da ridersi.
-Non ho fatto neanche colazione.- mi alzo, pulendo il jeans chiaro e aprendo il portone, girandomi perché, come ogni altra mattina, fa fatica a chiudersi.
-Amami.- la voce, ora, la sento proprio dietro di me e mi volto di scatto, facendo cadere il telefono d'una botta straziante -- che mi precludo da subito di azzardarmi a raccoglierlo -- che era precariamente trattenuto fra spalla e testa.
Lui se ne sta in piedi, fissando ai miei piedi, proprio come me, mentre tiene una busta fra le mani e lo zaino su entrambe le spalle.
-Vuoi raccoglierlo?- la sua, sembra una domanda retorica e ironica. Ma il suo sguardo lascia trapelare che è puro e sentito divertimento.
-Non sono pronta.- poi mi accovaccio e tiro un sospiro di sollievo nel vedere che lo schermo è perfettamente, nei suoi limiti, intatto. Lui mi guarda, e cerca il permesso per farlo.
-Puoi ridere, lo fai sempre, eh- rimetto l'aggeggio in tasca e lo affianco, che si sta sbellicando di risate, piuttosto finte, ma si sbellica e lo lascio fare ; è Jacopo, non sarebbe esilarante se non ridesse per anche la cosa più assurda.
-Stamattina il cielo è soleggiato, capiscilo 'sto tempo.- ammetto, facendogli segno di camminare.
-Hai ragione,-
-Perché sei qui?- faccio interrogativa, aggiustando il giubbotto messo con troppa frenesia.
Mi porge la bustina e sorride, mentre l'afferro e noto, piacevolmente, che c'è un cornetto all'interno.
-È per questo che dovrei amarti?- sogghigno, prendendo il cornetto con quello che deve essere cioccolato e lo avvicino alla bocca, una volta che ha fatto cenno di non volerne un pezzettino.
-Esattamente.- schiocca le dita, mettendosi a ridere, nuovamente.
-Cosa, ora.- nemmeno domando, sono troppo impegnata ad ingozzarmi per fame e gola, in mezzo alla strada di periferia piuttosto trafficata.
-Sei fenomenale anche quando mangi. Sei tutta sporca e nemmeno sei arrivata alla parte col cioccolato.- alzo con gentilezza il dito medio, continuando nel mio intento di rovinare tutte le leggi del bontón, che tanto sarei una frana pure se le rispettassi.
-È buono.-
-Non parlare con la bocca piena, sei rivoltante.- caccia la lingua e io faccio lo stesso, mentre chiude gli occhi per lo spettacolo non proprio gradevole che è la mia bocca tutta impastata di sfoglia, zucchero a velo e cioccolato.
Butto la bustina, una volta finito di mangiare, e mi pulisco con un fazzolettino, ancora impacciata.
-Era buono.-
-Lo so, lo ha fatto Alessia.-
-Chi è Alessia?- allora si blocca e capisco di aver, innocentemente, premuto un tasto dolente e vorrei tagliarmi la lingua, certe volte.
Che per compassione o altro, mi butto in guai ben più piccoli del consono uso di questo termine, ma certe giornate sono fatte proprio per buttarsi in situazioni più strette dei vestiti.
-Mi spiace, io. . - abbasso pure il capo e mi torturo le dita fra loro, mordendomi il labbro superiore, innervosita. Stavolta la città fa rumore tutto intorno al dolore altrui, che poi, se sia dolore, io non ne ho idea. So che brucia, so che lo ferisce ed allora è dolore. È come se tutto quello che non è piacere, è dolore e quindi la città, come meccanicismo dei fatti, fa rumore sul tasto dolente di ognuno. È solo che la città ha visto di dolori un po' più grandi.
Lo supero appena, ma lo sento che mi prende per il braccio e mi tiene ferma, con l'intento di affiancarmi e scrollare le spalle.
-Alessia è la donna che gestisce la casa.- sorpresa è un eufemismo, io sono totalmente turbata dal fatto che abbia voluto dirmelo e che mi sarei fatta da parte, se non avesse parlato; lo ha fatto, ha affermato qualcosa di suo, di Jacopo ed io sembro che stia per svenire, per l'incertezza del fatto.
-Ho capito, deve essere un'ottima cuoca.- sorrido e basta, cercando di non appesantirgli la confessione. Non ne devi parlare, per forza. Provo a fargli capire, provo a trasmettergli. Che Jacopo, di solito, legge fra le righe, ma -No, in realtà è pessima, ma sa fare i dolci. Stefano, invece, cucina bene.-
Lo guardo assorta e noto quante parole devolve intento a non pensarci. Sta con la testa a mezz'aria e cammina a passo buono ; le migliori storie si raccontano per strada, diceva qualcuno. O forse l'ho detto io e non mi sta bene, allora, lo ha affermato qualcun'altro prima di me.
-Non vuoi davvero chiedermi niente?- altre giornate sono per rivelarti e allora tu non sai, non comprendi, che, le migliori rivelazioni, le fanno le giornate stesse. Altro che le strade. Chi l'aveva detto, era proprio rincoglionito.
-No, se tu non vuoi.-
-Sei brava a rispettare, sai?-
-Tu per niente.- glielo butto sullo scherzo, ma ha ragione. Cerca di trattenersi e sorride, stringendo i pugni ed intravedo la mia scuola, già con l'atrio pieno dei soliti richiami e pregiudizi divertenti.
-Cele!- mi giro alla voce di Andrea tutto affannato che si dirige verso di me, frenando la sua spontaneità non appena si accorge che non sono sola. Mi sfugge un sorriso e mi prostro per abbracciarlo, ma lui ancora guarda Jacopo.
Curioso, Andrea, mi farà venire da ridere affannosamente, un giorno. Se ne sta tutto fermo ed in piedi, a struggersi le mani e a guardarlo con la voglia di sapere, di notare.
-Andrea, questo è Jacopo.- mi allontano, presentandoli e capelli neri porge la mano, senza ricevere risposta. Ha porto la sinistra, Andrea è mancino, esattamente come l'altro. Se lo dimentica, spesso, che gli altri salutano con la destra.
Prendo quella destra di Jacopo, sollevandola sebbene lo faccia con sforzo ed Andrea capisce, alzando l'altra.
Il ragazzo dalle lentiggini è spudorato solo con me, a quanto pare. Qui è irrigidito e si massaggia la mano sfregiata, mentre del rosso si fa largo su quelle gote marcate.
Non è che lanci il sasso e tiri la mano ed io, innervosita al medesimo modo, vorrei che mi guardasse ben bene e mi smontasse, come suo solito, tutte le teorie spumeggianti ; e niente, assolutamente il nulla.
Andrea si trova in imbarazzo e spezzo la tensione, ridacchiando -È timido.-
Lo so, cosa sta pensando ora. Sa che sono gay, sa che mi piacciono i maschi e non le femmine. Ma lui non mi piace, sono finocchio fino ad un certo punto. Sono talmente tanto una schifezza? -È davvero timido,- poi lo afferro per il braccio e saluto con un cenno Jacopo che ora, improvvisamente, mi pare anche intristito.
Certe giornate sono per le contraddizioni, invece. E non percepirai mai perché qualcuno le ha messe lí o perché ci sono di loro spontanea volontà. Le maledirai e basta.
-Ha capito che sono finocchio?- eccola, un'ennesima bomba. Tutta per l'autostima sempre più in fiamme. Il tempo, in questi attimi, lo percepisci male. È freddo, il tempo. È solo che di mattina vedrai l'allegria sfuggirti via, in certe giornate. Il secondo prima è quello dopo, mi capita spesso e tutto si blocca. Ma la città fa rumore, quello non è mica dolore. La città non sta mai zitta.
-Non si dice finocchio, Andrea.- buttargli giù una sconsolata convinzione è già abbastanza, ma lui non è che demorde, anzi.
-La Bibbia di mia madre dice che--
-La Bibbia nemmeno sa cosa sono i finocchi, quella è tua nonna.- famiglia di bigotti ed ho già sentito che fra poco singhiozza -- è, quando mai no, questione di attimi.
Perché, certe giornate, sono proprio attimi. Ricorderai solo quelli ed arrangiati, non puoi fare altrimenti.
-No, no, no.- eccolo, nel cortile pieno di scarpe e vestiti della nostra scuola disastrata, che si porta le mani fra i capelli e si accovaccia, piangendo, mentre fa, appunto, cenno di no.
-Dice che, i gay, non li vuole nessuno.- piange e se Andrea piange, a me si appiattisce la sensazione, sono in piedi e ho i sentimenti stesi dalla mancanza di buonsenso. Se lui piangi, non fai lo stesso ! Lo consoli. Ma io, a consolare, non sono capace.
-Jacopo è bislacco,-
-Che cazzo vuol dire.- neppure a domandarlo, tra le lacrime e i singhiozzi.
-È strano. La prima volta che l'ho visto mi ha chiesto di non spostare la mano dalla catenina. È fatto a modo suo, non sa che sei gay e se lo sapesse, non gli cambierebbe nulla.-
-Tu non frequenti gente strana.- la smussa, la mia sensazione e torno a respirare, liberando i polmoni. Gli accarezzo la testa, fregandomene degli sguardi.
-Frequento te, o Claudia, o mia zia. Penso proprio di conoscere gente stramba . . . E poi c'è tua nonna.-
-Oggi stava cucinando il brodo.-
-Fa caldo, te l'ho detto che è strana.- e ride, finalmente, e io ritorno a vivere, aiutandolo ad alzarsi.
-Dici?- vuole consenso, desidera che glielo confermi, che abbia qualche sicurezza in piú da dispensare fra lui e la società.
-Dico, ora cammina. La gente guarda strano.- scoppia a ridere, ma è una di quelle che si fanno per colmare la solitudine, davanti alla televisione spenta solamente perché si è meno dispersi, se si ride. Si affoga di risate, lui, ma non glielo faccio notare, sorrido con nonchalance, mentre camminiamo tra i corridoi della scuola.
Infine, ci sono quei giorni che sono fatti per stare lì. Non per altri fini, sennò il mondo ed il tempo stesso mancherebbero di qualcosa. E sono quei giorni a lasciarti l'amaro in bocca, poiché qualcosa, te la lasciano proprio questi giorni qui, ed è qualcosa a cui, paradossalmente, non sei pronta.
Quindi, questi giorni li attraversi con la saliva amara, che si avvelena dall'interno, e, certe volte, non sai neppure il motivo ; stai al passo e sorridi fottuta, sperando che per il termine della giornata tu non pianga o, altrimenti, sei doppiamente fottuta.
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