L'erede
Il nostro popolo era antico, i nostri antenati erano venuti da lontano per scappare da una forte carestia e avevano fondato una nuova colonia per rendere il nostro futuro più florido e prosperoso. Era andato avanti per ben dodici millenni: abitavamo in un pianeta dove la vita era ricca, la famiglia era felice, la nostra esistenza era dedita al lavoro, alla casa e all'amore. Non sapevamo cos'era il sangue, le armi e il dolore.
Ma un giorno, come tutti prima o poi, la guerra ci venne incontro. Con la sua lama nera e imbevuta di sangue si immerse nelle viscere del nostro pianeta macchiando il nostro popolo pacifico. Il nostro popolo, il popolo dei Dalmar, aveva ricevuto una minaccia da parte dei Foir.
Questo popolo era più giovane del nostro, ma, al contrario di noi, la loro vita era fondata sulla guerra e sulle armi. Trucidavano i popoli e godevano nel vedere il sangue che macchiava le loro terre, amavano solo loro stessi e disprezzavano gli altri, uccidevano e torturavano qualsiasi popolo gli capitasse nelle loro rotte di viaggio, accanendosi sui vecchi e sui bambini e stuprando le donne.
I Foir vennero da noi. Le loro astronavi nere oscurarono i soli di Dalmar e i soldati scesero sulla nostra terra per sterminarci. L'unica cosa che potevamo fare era scappare o nasconderci. Non sapevamo difenderci, figuriamoci combattere. I pochi sopravvissuti hanno rimesso in sesto le astronavi della colonizzazione e siamo scappati. Codardia forse, ma era l'unica possibilità che avevamo. Siamo venuti qui, su questo pianeta, molti millenni fa. Abbiamo vissuto con i vostri antenati, osservato la vostra evoluzione, respirato la vostra stessa aria per secoli e vi abbiamo aiutati a diventare quello che siete oggi.
Ma voi no, come tutti i popoli ci avete rinnegato, ci avete detto che eravamo stregoni, figli del diavolo. Dopo tutto quello che abbiamo fatto ci avete tradito, ci avete venduto per salvare la vostra lurida pelle. Ma ora basta, ora sarete voi a perire.
Sono Heira e sono la madre di quello che vi restituirà la moneta. Preparatevi: la vendetta è ormai giunta.
Si tirò su di scatto aiutandosi con le mani, aveva il fiato corto e gli occhi sbarrati ricolmi di cristallina paura. Lo sguardo si spostava di scatto da una parte all'altra della stanza senza però vedere qualcosa poiché era completamente buio. Sapeva di essere coricato su una brandina, che ad ogni suo movimento scricchiolava e al ragazzo parevano solo dei lamenti che rendevano l'atmosfera ancora più cupa. Inoltre, annusando l'aria, si accorse che c'era un odore strano e nauseabondo. Strinse le mani intorno al metallo freddo del letto, ma anche con quel gesto non riuscì a rilassarsi.
Spostò le gambe lateralmente per poi farsi scivolare lentamente dalla brandina fino a toccare terra. I piedi nudi toccarono una superficie bagnata e in certi punti appiccicosa. Tastò alla cieca davanti a lui così da non farsi male, ma subito di rese conto che era in uno stretto corridoio di metallo freddo.
Il respiro si fece ancora più corto mentre il terrone lo avvolgeva nelle sue fredde braccia. Sentiva caldo e delle goccioline di sudore freddo colavano sulla sua fronte per poi scivolare lungo la schiena nuda. Si fece scivolare lentamente a terra con la schiena appoggiata alla parete e si mise le mani tra i capelli corvini tirandoli con forza. Un urlo uscì dalle sue corde vocali che iniziò ad echeggiare come un richiamo nel piccolo ambiente chiuso.
Un brivido gli percorse il corpo e si decise a proseguire per quel lungo e stretto corridoio. Posò le mani lungo le due pareti ed iniziò a camminare. Passo dopo passo l'inquietudine si affievolì lasciandolo in una specie di stato apatico.
Ben presto perse la cognizione del tempo e si ritrovò a chiedersi se fossero passati pochi minuti oppure ore. Passò ancora del tempo quando le sue mani incontrarono una parete difronte a lui. Abbassò la mani cercando un qualcosa per aprirla e la trovò quasi subito, fece leva su di essa e l'aprì quasi con violenza. Una luce accecante gli fece chiudere di scatto gli occhi chiari. Quando fu sicuro che i suoi occhi si fossero abituati li aprì tenendoli comunque semichiusi. Dopo un momento di puro bianco e luce i suoi occhi percepirono un solo colore: rosso. Rosso dappertutto: sparso sul terreno, sparso sulle pareti rocciose, sul suo corpo e perfino il cielo sembrava aver acquistato un colore rosso cremisi. Sangue, ecco cos'era quel colore rossastro, ecco perché aveva sentito quell'odore nauseabondo. I corpi di quelli che erano stati il suo popolo erano stesi a terra grondanti di sangue. Gemette disgustato da quella vista mentre respingeva un conato di vomito. Si mise nuovamente la mano tra i capelli e camminò disorientato girando su se stesso per guardare quella carneficina.
Aprì lentamente gli occhi mentre la luce dei due soli lo accecava.
-Sitos, Firuk- sussurrò lui cercando conforto nei nomi delle due stelle.
Dopo quello che aveva visto era svenuto cadendo in quella pozza rossa e scura. Si alzò e a passo incerto iniziò nuovamente a camminare. Ma quando gli sembrò di essere al sicuro da quella carneficina, una canto in una lingua sconosciuta lo attrasse nuovamente nel luogo in cui si era risvegliato. Si fermò di colpo con la testa bassa a guardare il terreno, ora senza sangue. Strinse in pugni fino a far sbiancare le nocche mentre i polmoni gettavano fuori con violenza l'aria appena inspirata.
Gli occhi si fissarono la dove la porta era aperta. Con la testa alta per non vedere i corpi stesi a terra, si diresse dove quella voce calda e melodiosa lo conduceva. Passò di fianco alla porta con i piedi che sguazzavano nel sangue semi rappreso, girò dietro alla porta che sembrava aprirsi nel vuoto, sospesa nell'aria come se ci fosse solo lei che stava in piedi da sola. La guardò esterrefatto e continuò dritto.
Dopo un'ora di cammino un venticello fresco gli sferzò il viso accompagnato da una miriade di petali rosa. La voce continuava a guidarlo ad una meta a lui sconosciuta. E quando ormai la stanchezza e la pazienza iniziavano a vacillare e scomparire insieme a quel venticello fresco, davanti a lui, nel bel mezzo del deserto, un albero maestoso si innalzava magicamente. Il tronco scuro era attorcigliato su se stesso mentre le radici affondavano nel terreno. La chioma era gigantesca e fatta esclusivamente di fiori rosa.
Un esclamazione di meraviglia e il ragazzo fu proprio sotto la sua folta chioma. Alzò lo sguardo verso il cielo e ammirò i raggi dei soli che filtravano dai rami. Soffermò poi lo sguardo sulla corteccia scura ammirando ogni sua singola venatura. Ad un certo punto vide che la corteccia si stava svolgendo diventando lineare. La chioma scese verso il basso come se stesse precipitando mentre il tronco prendeva la forma di una giovane donna. Le forme messe la posto giusto, il seno prosperoso e i capelli fatti di fiori rendevano quella donna una dea dalla bellezza eterea. Il ragazzo restò immobile, paralizzato dalla bellezza di quella creatura mentre lei, con passo leggero e quasi fluttuante, si avvicinò al giovane. Le dita affusolate accarezzarono leggere la guancia del ragazzo.
-Tu sei mio figlio Kaylai, vendica il nostro popolo. I terrestri ci hanno tradito, vendicaci-
I terrestri ci hanno tradito, vendicaci. Quella frase riecheggiava nella sua testa come un sussurro disperato. Il ragazzo si svegliò di soprassalto. La mani erano strette convulsamente contro il piumone nero e non riusciva a respirare. Per quanto ci provasse, infatti, i polmoni non lasciavano passare neanche una minuscola molecola di ossigeno.
È solo un incubo...
Si precipitò in bagno con le forze che scivolavano via. Poggiò le mani sul bordo del lavandino bianco e poi si guardò allo specchio, ma quando i suoi occhi incontrarono il vetro riflettente, i suo cuore perse un battito. Gli occhi erano gialli e sul collo aveva sei branchie. Urlò con tutto il fianco che aveva in corpo quando le branchie iniziarono a muoversi e si accorse che così l'aria entrava e usciva permettendogli di respirare.
-Non era un sogno...-
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