Capitolo 96

L'odore ferroso del sangue impregnava l'atmosfera desolata e desertica del campo di battaglia. Tra leggere folate di vento che portava in grembo granelli di polvere grigiastra, e i raggi insistenti del sole riflessi attraverso nuvole bianche sparse nell'immensa distesa azzurra, il silenzio totale dopo il susseguirsi di violenza, urla e dolore dominava l'ambiente.

Seduti sul terreno brullo e friabile cosparso da numerosi sassolini, quattro guerrieri sopravvissuti a quello scempio giacevano schiena contro schiena per riposare le membra esauste.

A ognuno di loro bruciavano le braccia a furia di utilizzarle per far ondeggiare la spada e abbattere nemici, oltre a essere assaliti da una martellante emicrania causata dall'incessante rumore di metallo che cozza e urla disperate tipiche di un conflitto. In quel preciso momento, i quattro ragazzi che avevano appreso l'arte della spada assieme circa otto anni prima rappresentavano l'immagine iconica della guerra stessa.

Intorno a loro, pile e pile di cadaveri con divise che recavano lo stemma degli invasori, dei Guardians, riempivano il fronte nel loro riposo perpetuo. Uno dei guerrieri, Isao Takeshi, alzò il capo al cielo. Sul suo volto era palese la presenza di una stanchezza profonda quanto l'amarezza per aver spezzato tante vite in così poche ore.

"Abbiamo finito qui, direi. Che dite, rientriamo?" spezzò la quiete mortifera che colmava quel luogo infernale, i capelli azzurri macchiati di un rosso opaco e rappreso.

"Dove, all'accampamento?" domandò, indifferente nel tono, Saito.

"A casa." rettificò Takeshi.

"Sai bene che non ci conviene tirare troppo la corda, siamo pur sempre in un esercito e urge disciplina." rispose l'altro, mettendosi in piedi a sua volta, seguito poi anche dai due restanti.

Il ragazzo dai capelli corvini, Karasu, con occhi neri e glaciali poggiò una mano sulla spalla al rosso. "Penso che Takeshi abbia ragione, Saito. Noi qui facciamo il lavoro di cento soldati con le nostre capacità, e mi riferisco anche agli utilizzatori di Kaika..." disse, con un mezzo ghigno. "Se volete, avviatevi. Parlerò io al generale Masamune, so come prenderlo."

Una risata sprezzante di Antonio lo interruppe, infastidendolo alquanto.

"Cosa c'è da ridere tanto?" chiese Karasu, imbronciato.

"Niente, è solo che se tentassi tu di convincere il generale Masamune, col caratteraccio che hai ti ritroveresti a combatterci!" lo schernì Antonio, provocando risate sommesse e sorrisi bonari in Saito e Takeshi.

"Ah, sì? Allora vacci tu, che sei il ruffiano del gruppo!" sbottò dunque Karasu.

"È quello che farò, Karasuccio." Il nomignolo con cui da sempre lo chiamava Shinzo fece inevitabilmente arrossire lo spadaccino dagli occhi neri, e ciò causò ancor più divertimento tra i presenti.

"È troppo facile prendere in giro Karasu." sogghignò Takeshi.

"Vi odio tutti." Il giovane preso di mira voltò le spalle ai compagni con aria offesa.

A quel punto, Saito gli diede una piccola pacca sulla schiena, rassicurante e caloroso come sempre nei modi. "Su, non prendertela. Non è facile sdrammatizzare dopo... tutto questo. È giusto distrarsi un po'. Andrò io da Masamune con quel pagliaccio di Antonio, tu torna pure al dojo con Takeshi e riposa." lo consolò.

"Saito..." mormorò Karasu. "E va bene, ma non metteteci troppo." raccomandò poi.

"Non mi sorprenderei se si cercassero qualche dolce passatempo a River Town, prima di rientrare..." mugolò Takeshi, avviandosi insieme a Karasu verso est, in direzione del loro dojo.

"Ehi, le vergini della guerra sono una parte del pacchetto, no?" rise Antonio con un sorrisetto lascivo.

"Ma che assurdità dici? Pervertito." accusò lo spadaccino azzurro.

"Sì, sì, dopo vengo a raccoglierti dalle gonnelle di Shinzo."

Prima che Takeshi potesse rifilare un pugno sul naso ad Antonio in modo da zittirlo per sempre, il gruppo di compagni si divise e prese direzioni opposte.

Antonio e Saito verso l'accampamento del fronte a difesa di River Town, tanto a fatica mantenuta dallo Shihaiken fin dall'inizio del conflitto, e Takeshi con Karasu in direzione del loro dojo, già leggeri nell'animo per la prospettiva di trovare la dolce compagna ad aspettarli.

Il fetore del sangue secco pareva quasi affievolirsi sotto il loro naso, al lieto pensiero.

Arrivati al dojo, Takeshi e Karasu intravidero subito la lontana figura di una ragazza alta e magra correre rapida nella loro direzione, chiamando i loro nomi a gran voce.

Quando li raggiunse, gettò a entrambi le braccia intorno al collo, in un abbraccio lungo alcuni secondi che a entrambi i compagni parvero ancor meno. Avrebbero voluto non staccarsi mai dalla morbida e tiepida pelle liscia dell'amica di vecchia data.

Shinzo si separò da loro e piantò i propri occhi blu scuro in quelli infatuati dei due giovani samurai, un grosso sorriso attraversava tutto il suo volto gentile.

Era diventata davvero una ragazza elegante, riflessiva e di bell'aspetto. Le trecce castane che le ricadevano lungo le toniche e dritte spalle accentuavano i fianchi stretti e la postura perfetta. Il suo sguardo era costantemente sereno e benevolo, così come l'amorevole carattere che la contraddistingueva. Nessuno avrebbe potuto fare a meno di ammirarla per come era venuta su, e Takeshi e Karasu di certo non facevano eccezione.

"Bentornati!" li accolse Shinzo, prima di condurli insieme a lei vicino alla staccionata per riposare tutti insieme e godere dell'aria fresca.

Dopo che i compagni l'ebbero rassicurata sull'incolumità di Saito e Antonio, la giovane cinse il collo a entrambi con le braccia e assunse un'espressione rilassata.

"Mi siete mancati, tutti e due." mormorò. A giudicare dalla voce doveva essere sollevata, probabilmente era stata in ansia per loro tutto il tempo.

"S-suvvia, Shinzo, sai bene che sappiamo cavarcela." balbettò Karasu, che non riusciva a smettere di arrossire.

"Ma questa è una guerra, Karasuccio. È diverso, potreste... potreste seriamente morire da un momento all'altro! In guerra tutto è lecito e niente è previsto, lo dice sempre il maestro Fujiwara." Shinzò lo guardò con occhi severi, come a rinfacciargli la sua superficialità, cosa che suggestionò il ragazzo.

"Stai parlando a due delle quattro leggende del campo di battaglia, ricordi? Andrà tutto bene, non c'è bisogno che ci guardi le spalle." Si pavoneggiò Takeshi. Amava darsi arie con Shinzo davanti a Karasu, che puntualmente incassava il colpo e si inaspriva.

"Non cambi mai tu, eh? Ancora arrogante come a nove anni... che caso senza speranza." sbottò infatti Karasu.

"Ha parlato lo spadaccino della notte, fammi il favore e va' a zappare, magari trovi la tua vera vocazione."

"Ripetilo, se hai il coraggio. Bellimbusto con la permanente." sbraitò Karasu.

"Questo è troppo!" esclamò Takeshi.

Ma a evitare che i due rivali sguainassero la lame per dare vita a un duello mortale furono dei colpi piuttosti violenti dietro le loro nuche, che li costrinsero a desistere.

"Ugh! Quelli non erano i tuoi soliti buffetti a fin di bene, Shinzo..." si lamentò Karasu.

"È cresciuta e ora fanno più male..." gli fece eco l'altro.

"Stavolta non erano buffetti, ma buffoni. Un po' come voi, insomma." rettificò Shinzo, sarcastica.

Takeshi sbuffò, a metà tra il divertito e il seccato. "A proposito, dove si trova il vecchio?" chiese, dopo un'altra manciata di secondi.

"Se intendi il maestro Fujiwara, sta meditando sul retro. E ora che ci penso, aveva importanti notizie per voi, credo riguardi il fronte di Haru..." Il viso di Shinzo si rabbuiò, come accadeva ogni volta che l'argomento della guerra aveva a che fare con i suoi amici. Fosse stato per lei, non gliene avrebbe nemmeno parlato, ma sapeva che si trattava del loro dovere in quanto uomini dello Shihaiken, dunque non poteva far altro che ingoiare il rospo e struggersi in solitudine. Sperando ogni giorno nel ritorno delle persone che amava, di coloro senza i quali non avrebbe saputo cosa fare, come vivere.

Loro erano la vita stessa per lei, tutto ciò a cui teneva davvero nel mondo.

I due parvero accorgersi del suo disagio e si strinsero di più ai suoi lati, scaldandola con il loro affetto.

"Tranquilla." sussurrò Takeshi.

"Te l'abbiamo detto, siamo forti." disse Karasu.

Lei afferrò e tirò con forza le loro tuniche, il capo abbassato e il viso addolorato. "Take, Karasu... senza voi due e gli altri, io..." L'abbraccio divenne più intenso, mentre i singhiozzi soffocati della giovane si acquietavano per gradi.

Nessuno aggiunse altro, e Shinzo infine si calmò. Per appena un millesimo di secondo, l'aria intorno a lei si era distorta, come accade nel momento che precede un'esplosione.

Takeshi e Karasu raggiunsero quindi il loro maestro sul retro del dojo, intento nel frattempo a riflettere a gambe incrociate sull'erba fresca e soffice, umida per la rugiada che andava seccandosi.

Il fronte di Haru di cui intendeva parlar loro era senza ombra di dubbio il più importante per la resistenza dello Shihaiken nei confronti dei Guardians: lì, nella capitale del Continente centrale, si trovavano le maggiori basi operative, i più cospicui magazzini d'armi e centri d'addestramento per i militi. Lì risiedeva l'orgoglio e l'identità del governo invaso e soggiornava la maggior parte dei civili non in grado di battersi per la propria patria.

Era come una fortezza principale, senza la quale sarebbe stato impossibile proseguire il conflitto ad armi pari.

Già la situazione attuale presentava uno svantaggio enorme in fatto di tecnologie e numero di uomini per i ribelli, i quali resistevano solo grazie al valore di alcune eccezionali individualità, quali Takeshi, Karasu, Antonio e Saito, le quattro furie della guerra che sul campo di battaglia facevano strage di interi eserciti anche da soli.

Oltre a Fujiwara Taiyo, che durante il primo anno di guerra in assenza di uomini aveva difeso da solo il fronte di Haru per un mese, sconfiggendo persino l'élite Guardians capitanata da Hanz Becker e Mary-Beth Bloomfield: maestri di Energia Oscura che erano stati in grado di sbaragliare interi plotoni, ma non lui.

Questo gli aveva conferito in fretta il titolo di eroe leggendario, e ben presto i suoi allievi avevano seguito le sue orme, ad appena quindici anni di età. Addirittura quattordici per Antonio.

E infine c'erano il generale Masamune, fine stratega quanto carismatico leader, e Nakajima Kojiro: la mina vagante dello Shihaiken.

Secondo le voci, aveva giocato un ruolo attivo nello sterminio degli Araumi, mettendo i bastoni tra le ruote all'Esercito Guardians, seppur non ci fossero vere prove al riguardo.

L'unica certezza era che, per motivi non rivelati, i ribelli potevano vantare di alcune armi alimentate dal Kaika puro tipico degli Araumi. Certo, non tante quanto i Guardians, ma la faccenda rimaneva insolita e avvolta nel mistero.

Gli unici ad avere sospetti fondati erano Takeshi e Karasu, ma perfino loro che erano stati suoi complici indiretti non conoscevano bene i dettagli delle macchinazioni di Kojiro. Preferivano starne alla larga.

Per quanto ne sapevano, quella ragazza triste che conobbero quel giorno infausto era fuggita, e lo Shihaiken avrebbe potuto benissimo procurarsi armi di quel tipo rubandole. D'altronde, succedeva di continuo in guerra che ci si sottraessero armamenti a vicenda.

"Ehi, vecchio, volevi dirci qualcosa?" si introdusse Takeshi, subito rimproverato da Karasu attraverso uno strattone.

"Maestro, eccoci qua. Ci dica pure." Alla fine ci pensò lui a rivolgersi in maniera decente al loro tutore.

Adesso avevano entrambi diciassette anni d'età, ma consideravano sempre Fujiwara come il padre che non avevano mai avuto. E lui, severo, giusto e comprensivo, incarnava alla perfezione quella figura idealizzata. Era una persona rara da ritrovarsi nella vita e per questo motivo gli apprendisti in tarda adolescenza si ripetevano ogni giorno di essere stati davvero fortunati a incontrarlo. Li aveva cercati e aiutati senza chiedere niente in cambio, senza condividere legami di sangue con loro, ed era qualcosa che nella vita non capitava quasi a nessuno.

"Eccovi qua, miei allievi prediletti." li salutò Taiyo in tono arzillo e cantilenante. "Volevo appunto parlarvi di una questione importante riguardo il fronte di Haru. Ho ricevuto un corvo dallo shogun in persona, il quale portava con sé un messaggio ufficiale su cui mi è stato chiesto di recarmi entro un mese laggiù, insieme a voi, Saito e Antonio." L'uomo in kimono verdognolo si mise in piedi e li guardò dall'alto con occhi sereni, come sempre.

Non tradiva mai preoccupazioni o tensioni, e questa sua caratteristica a volte quasi spaventava i suoi interlocutori. Fujiwara Taiyo dava l'impressione di non provare mai paura, come se avesse già guardato il male in persona negli occhi e ciò l'avesse reso imperturbabile.

"Pare che la situazione a Haru sia piuttosto nera, peggiore di quanto non fosse durante il primo anno di guerra."

"Ricevuto, non sarà un problema scacciare qualche altro plotone dei Guardians... Il vero cruccio sono le loro maledette armi di galena e Kaika puro." borbottò Takeshi, una punta di rabbia nello sguardo si sovrappose alla sua perenne pigrizia.

"Il loro vantaggio numerico e tecnologico è incolmabile... Mi chiedo che senso abbia continuare." soggiunse Karasu, frustrato. "Tutte quelle persone che continuo a uccidere senza conoscerle nemmeno. I loro sogni, le loro speranze, i loro affetti infranti solo perché si sono ritrovati dinanzi la mia spada in una situazione che non dipendeva da loro." Il ragazzo dalla chioma scura rivolse gli occhi verso il basso, confortato da una debole pacca di Takeshi sulla spalla.

"Maestro, non è nella nostra natura lamentarci, non dopo ciò che hai fatto per noi, sottraendoci a un destino ancora più amaro di quello attuale. Ma condivido appieno tutti i pensieri espressi da Karasu." affermò lo spadaccino, gli occhi azzurri fissi con fermezza in quelli color miele di Taiyo. "Questa guerra non ha senso."

L'ansia che Shinzo provava ogni giorno nei loro confronti, manifestata anche in precedenza, aveva contribuito a indurire l'animo di Takeshi e a rafforzare la sua opinione critica, quasi ribelle verso l'idea di guerra in generale. Il dolore era l'unica cosa che derivava da essa.

Taiyo sorrise con la sua solita dolcezza e scompigliò i capelli di entrambi, che dal canto loro non ritrassero il capo e arrossirono appena. Solo con lui riuscivano a lasciar fuoriuscire le loro fragilità interiori, le paure, le ansie, le incertezze morali legate soprattutto a tutto il sangue che erano costretti a versare ogni giorno.

"È un peso enorme da portare..." bisbigliò Karasu, la voce ridotta a un soffio roco.

Fujiwara continuò ad accarezzarli con le sue mani calde e grandi, sicure e affettuose.

"Ogni persona cova dentro di sé un fardello, a volte immenso, altre più piccolo." Infine parlò loro, simile a un violino che diffonde sublimi note nell'aria. "L'essere umano però è debole, non riesce a liberarsene ed è costretto a trasportarlo per tutta la vita." proseguì. I due alzarono lo sguardo, catturati dalle sue parole potenti.

"Nonostante questo, ci sono innumerevoli modi con cui si può fare uso di quel peso: alcuni lo portano in solitudine, covando odio e rancore o convivendoci. Altri utilizzano il dolore e gli insegnamenti legati a esso per guidare chi non riesce a sopportarlo, mentre altri ancora si servono di coloro che li circondano per alleggerirlo, giorno dopo giorno. Dopotutto, nonostante le catene e i vincoli che sono loro imposti, le persone sono più libere di quanto si pensi. Mi chiedo voi quale strada sceglierete di percorrere quando tutto questo sarà finito, Takeshi, Karasu."

Entrambi non seppero rispondere, non in quel momento.

Furono solo capaci di sorprendersi, per poi cullarsi nel calore che quell'uomo tanto atipico trasmetteva loro.

Non compresero benissimo a cosa si stesse riferendo con esattezza, né avrebbero mai potuto immaginare che le strade da loro scelte in futuro sarebbero state talmente divergenti da renderli nemici mortali.

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