Capitolo 66

Dismal era un sobborgo molto degradato, situato a nord di Southfield, nel Continente centrale.

All'interno dei suoi bassifondi regnava l'anarchia più totale: bande di teppisti e delinquenti giravano per i quartieri spogli e rovinosi senza ostacoli o freni, diversi orfani bazzicavano qua e là in cerca di viveri e beni primari per sopravvivere un giorno in più, dimenticati da tutti. Persino in tempi di dopoguerra e rinascita, quella zona era ignorata e lasciata a sé stessa, così come le persone che vi abitavano.

Per questo motivo a Dismal si consumavano traffici illegali e attività criminali di ogni genere, era un paradiso per la malavita, dato che nessuno, nemmeno il governo, era disposto a fare qualcosa per migliorare le condizioni della cittadina.

Durante uno dei tanti pomeriggi assolati in quei bassifondi, un trovatello dai capelli e gli occhi nerissimi si aggirava per un largo marciapiede pieno di fosse e sassolini, con uno sguardo spento sul viso tondo e roseo. Alla sua destra c'era un campetto da basket, il cui perimetro era segnato da una serie di sbarre arrugginite e rossastre, roventi per l'esposizione ai raggi solari, in cui diversi bambini giocavano insieme, sudando e urlando.

Il ragazzino ignorò completamente la scena, senza nemmeno provare ad accostarsi a essi.

Poco più avanti, però, scorse una figura che attirò la sua attenzione. Notò, appoggiata al muretto basso davanti alle sbarre, una piccola e alquanto esile ragazzina dalla pelle candida, un groviglio di ciuffi bianchi e un paio di grandi e intensi occhi dorati osservare con rassegnazione i bambini che si divertivano.

L'orfano riuscì a sentire il suo stomaco brontolare anche da dieci metri di distanza e capì che si trattava di una bambina sola, affamata e abbandonata, proprio come lui.

Dopo aver calibrato il rischio di farsi scoprire da lei, decise di passarle davanti a gran velocità e lasciare ai suoi piedi un mezzo panino che teneva in tasca, trovato tra gli avanzi di un bidone fuori da un bar.

"Eh?"

La ragazza parve accorgersene troppo tardi, lui era già distante quando alzò gli occhi per guardarlo. Distinse solo la sua schiena e metà del suo viso, nel momento in cui per un attimo il ragazzo voltò appena il capo verso la sua direzione, con aria furtiva.

L'orfanella osservò, titubante, il mezzo panino ai suoi piedi, avvertendo i morsi della fame. "È stato lui..?" mormorò con la sua vocina.

Dopodiché, senza tanti complimenti, iniziò ad addentare quel generoso regalo con gran furore.

Con il passare delle giornate, la scena si ripeteva: il ragazzo passava furtivo davanti a lei, la quale fingeva di non notarlo, seduta sul muretto all'esterno del campo da basket, e lasciava del cibo o dei vestiti che aveva rubato in giro sul marciapiede.

Ogni volta la bambina scrutava la schiena del benefattore allontanarsi a passo veloce, e gli rivolgeva un tacito ringraziamento. L'altro si voltava di novanta gradi e le mostrava un sorrisetto complice, che lei ricambiava sempre.

Nonostante fosse afflitta da una profonda solitudine, in quell'abitudine condivisa con il ragazzino orfano trovava conforto. Sentiva che il suo peso era in parte condiviso e avvertiva maggiore leggerezza.

"Anche lui non ha un posto dove tornare a fine giornata, qualcuno che può chiamare mamma, papà, fratello o sorella. È solo al mondo, proprio come me." pensava l'orfana, tutte le volte che lo rivedeva.

Un giorno come un altro, il ragazzo non trovò nulla da mangiare e non incappò in alcun vecchio indumento.

Decise di non passare dinanzi al solito luogo, così da non deludere la sua compagna. Passeggiò, scoraggiato e senza meta, per una zona isolata piena di siepi che delimitavano varie abitazioni tradizionali e dojo.

"Oggi non posso vederla... non voglio presentarmi a mani vuote." rifletté con un'aria tetra sul volto rabbuiato.

Preso dai suoi pensieri, non si accorse dell'uomo piegato su sé stesso e girato di spalle di fronte a lui, e andò a sbattergli contro. Cadde con il sedere sul terreno, producendo un pesante tonfo.

"Oof!"

L'uomo si voltò, sorpreso, verso di lui, rivelandosi una persona piuttosto anziana e talmente rugosa da ricordare uno straccio usato. Aveva piccoli occhi celesti e radi capelli canuti sulla nuca e attorno alla testa.

"Stai bene, ragazzo? Cerca di non perdere di vista la tua strada così facilmente." Il vecchio si rivolse al giovane con la sua voce rauca. Mostrava uno sguardo freddo e penetrante, ma allo stesso tempo rassicurante. Riusciva a incutere rispetto solo con la sua presenza, nonostante l'età e la schiena un po' ingobbita.

"Mi scusi, ora vado via." L'orfano si affrettò a lasciar perdere la questione.

"Come ti chiami, ragazzo?" chiese l'anziano.

Il giovane esitò un attimo, ma gli bastò poco per capire che quel signore dalle vesti tradizionali non aveva cattive intenzioni, e non era uno schiavista.

"Somber." rispose, secco, infine.

"Che nome singolare, dunque non sei un nativo ma un Guardian. Sei orfano, giovane? Ne hai tutta l'aria."

"Mi perdoni, ma devo proprio andare." A Somber non piaceva dare confidenza agli stranieri: non portava mai a nulla di buono.

"Aspetta, ti piacerebbe imparare l'arte della spada? Posso anche offrirti un tetto e un pasto ogni giorno, se vuoi." propose il vecchio. "Io mi chiamo Ryukengi Onoma, se dovessi decidere di accettare la mia proposta e smettere di vivere di stenti, allora seguimi al mio dojo."

"Come faccio a fidarmi?" domandò Somber, scettico.

"Non puoi, la scelta spetta te. Che tu decida di seguirmi oppure no, non cambierà nulla per me. Devi trovare da solo la tua strada." Detto questo, Ryukengi gli voltò le spalle e si avviò.

Somber rimase interdetto per qualche secondo, indeciso sul da farsi.

Pensò alla ragazza al campetto da basket. "Se dovessi avere cibo ogni giorno, potrei portarne anche a lei."

Quella prospettiva fu la risultante della sua decisione. Mosse i primi passi incerti verso le spalle del vecchio che si allontanava, e lo seguì pian piano fino alla sua abitazione.

Arrivò un'altra giornata a Dismal. Il sole del tardo pomeriggio iniziava a battere meno assiduo sul terreno rossastro del campetto, all'esterno del quale la piccola bambina era seduta come sempre a passare il tempo, attendendo che qualcuno le lasciasse del cibo. Se ciò non accadeva, cercava di procurarselo da sola dai negozi, ma doveva attendere l'orario di chiusura per avere qualche possibilità di riuscita, ed era ancora presto.

Seguendo il lento andamento delle nuvole bianche nel cielo cristallino, iniziò a chiedersi dove fosse finito il ragazzo che le lasciava sempre dei viveri.

"Ma dove si è cacciato, quello lì? Si sarà annoiato di vedermi sempre in questa zona, o magari non vuole più condividere la sua roba con me... Beh, tanto meglio, non ho bisogno di lui!" sbottò, mettendo il broncio, il viso pallido coperto dai lunghi e incolti capelli di neve.

Non era per sfamarsi che avrebbe voluto vederlo, da sola bene o male se l'era sempre cavata in qualche modo. Ciò che le era mancato nelle due settimane in cui il compagno non si era mostrato erano stati quegli occhi identici ai suoi.

Disperati, soli e vacui.

Le bastava incrociare quello sguardo così simile a quello che possedeva lei, per capire di non essere sola. La faceva sentire accettata, persino nello scenario privo di speranza in cui viveva. La ragazzina non ricordava nulla del suo passato, non sapeva nemmeno se prima avesse avuto dei genitori che si prendevano cura di lei.

Conosceva solo il suo nome, Dorothy Goover, poiché, fin da quando possedeva ricordi, aveva vissuto in un orfanotrofio al centro della città che era stato raso al suolo quasi un anno prima, durante la Guerra Rossa. Secondo la sua memoria, Dorothy era sempre stata un'orfana e non conosceva realtà alternative. Non aveva nemmeno una vaga idea di cosa fosse l'affetto di due genitori che la amassero, e questo l'aveva sempre resa diversa da chiunque altro.

I bambini che vedeva giocare, e che la sera tornavano alle loro case, non la aiutavano a capire come ci si potesse sentire ad avere quel privilegio, perché, anche se li osservava, senza vivere quell'esperienza sulla sua pelle non poteva saperlo in alcun modo, né immaginarselo.

Era questo il motivo per cui amava incontrare ogni giorno il ragazzo esile e dai capelli scurissimi che le passava rapido accanto, scrutandola voltato di spalle, e poi sparendo nella penombra delle basse abitazioni in paglia, mattoni o legno circostanti.

Era come a lei. Dorothy ne aveva bisogno, altrimenti non avrebbe più potuto relazionarsi con niente e nessuno al mondo, e aveva paura di rimanere completamente in solitudine.

"Perché non torni? Ti sei stancato di me..?" bisbigliò, strofinandosi gli occhi con il gomito, sul punto di piangere.

In quell'esatto momento, avvertì un'ombra sfrecciarle davanti a gran velocità, come fosse una folata di vento.

Dorothy liberò gli occhi dal gomito per vedere meglio, e sobbalzò dalla sorpresa. Davanti a lei c'era un'intera ciotola piena zeppa di ramen caldo e fumante.

Sussultò, trattenendo a stento un gridolino di gioia ed euforia, poi si voltò alla sua destra, aspettandosi di trovare il ragazzo, sorridente. E infatti fu così: lui era come al solito poco più avanti, e la scrutava sott'occhio con un ghigno.

Indossava abiti diversi: una leggera tunica a giromaniche nera con un pantalone largo dello stesso colore. Recava con sé una spada di legno legata al fianco sinistro e sembrava essersi lavato come si deve da capo a piedi di recente, siccome non mostrava l'aspetto polveroso e selvaggio di Dorothy.

La ragazza gli rivolse un sorriso a trentadue denti, con occhi felicissimi che sembravano volergli porgere mille ringraziamenti. Prima che potesse dire alcunché, lui si stava già dileguando.

"Dove starà andando vestito in quel modo? Ora lo seguo!" pensò lei, trangugiando in poco tempo il suo piatto di ramen.

La sensazione di calore nello stomaco la fece quasi piangere di gioia, quello era stato il momento più felice della sua intera vita. E lo doveva tutto a lui.

"Forza, andiamo." Dorothy si avviò verso la direzione in cui l'altro era sparito, correndo di gran carriera tra le strade deserte della zona periferica piena di muretti coperti di graffiti, capanne e catapecchie, oltre che pochi negozi fatiscenti qua e là.

Decise di continuare sempre dritto, più tirando a indovinare che per intuito, ritrovandosi in un quartiere il cui perimetro era formato da tante siepi posizionate in modo da dividere varie abitazioni, tutte nello stile armonioso della cultura Shihaiken. C'erano diversi piccoli dojo decorati da cortiletti di modeste dimensioni, e gli stretti sentieri della zona si intersecavano tra i confini delle siepi, dando l'impressione di un unico grande giardino labirintico.

"Sarà impossibile trovarlo in un posto del genere!" si lamentò Dorothy.

Cominciò a passeggiare pacatamente, constatando man mano la bellezza di quel luogo molto particolare e rimanendone sempre più affascinata.

"Che belle, queste siepi! Sarebbe bello poter vivere in un posto così..."

A un tratto, Dorothy udì una vocina stridula sbraitare qualcosa poco più avanti. Sembrava provenire dall'interno di uno dei cortili che formavano la mappatura dell'isolato.

"Come faccio a reagire a un attacco del genere? Ho iniziato da appena due settimane ad allenarmi, razza di vecchio rimbambito!" esclamava la voce da ragazzino non molto lontana.

Dorothy giunse alla fonte del suono, ovvero un giardinetto dietro una siepe poco più alta di lei.

"Devi aspettarti i movimenti più imprevedibili, in una vera battaglia nessuno combatte da manuale." replicò una voce roca.

La piccola intrusa si sporse appena, in modo da riconoscere chi stesse gridando, e avvertì il cuore colmarsi di sollievo. Con un'aria accigliata e turpe, il ragazzo che conosceva stava protestando con un anziano signore circa il loro addestramento quotidiano.

Dorothy aguzzò l'udito, i suoi capelli quasi balzavano in aria per l'eccitazione.

"Insomma, questa non è mica una battaglia reale? Fammi almeno apprendere le basi!" L'aspirante samurai accusò l'uomo, che maneggiava una spada di legno come quella del suo allievo e indossava un lungo kimono grigio.

"Devi abituarti fin da subito a questo tipo di situazioni se vuoi essere abile, niente storie. Hai capito, ingrato di un nano?" disse, imperioso e autoritario, il vecchio.

"Mah! Risparmia le tue prediche, mister Ruga Vivente. E poi chiamami Somber: ho un nome, sai?" rispose il ragazzo, voltandosi, seccato.

"I giovani di oggi non conoscono il rispetto... Forza, entra, altrimenti non ti lascio nulla da mangiare. E non potrai nemmeno portarlo alla tua amica." lo avvisò il maestro.

Somber sbuffò e si avviò verso l'interno del basso dojo in legno e cartapesta.

Dorothy ritornò dietro la siepe, un'espressione mista tra contentezza e malinconia sul viso.

"Quindi è qui che si reca ogni giorno, per questo non è venuto da me per tutto quel tempo... Però, sono felice per lui. Somber. Che strano nome!" La ragazza sorrise dal profondo del suo cuore, illuminata dal candore lunare della prima serata. "Eppure, nonostante tutto, si preoccupa ancora di portarmi il cibo che quell'anziano gli prepara. Mi piacerebbe tantissimo ringraziarlo di persona, conoscerlo... e magari vivere anch'io in quell'atmosfera familiare. Lo adorerei davvero, ma non ne ho il diritto."

Dorothy rifletteva, mentre il suo volto dolce si rabbuiava, seduta con la schiena appoggiata alla morbida siepe alle sue spalle. "È un rapporto che hanno costruito loro due. Somber e quel maestro di spada, e io non potrei mai inserirmi tra loro come se niente fosse. Dovrò accontentarmi delle visite giornaliere di Somber, le attenderò con ansia. Magari così potrò provare almeno un po' del calore di quella casa..."

La ragazzina decise di tornare sui suoi passi e cercare un luogo asciutto in cui passare la notte, probabilmente quel magazzino abbandonato in cui si intrufolava sempre per dormire. Una volta abituata ai topi che ogni tanto apparivano, non era poi così male, anche se non doveva essere nulla in confronto a un letto vero come quelli nel dojo, pensò Dorothy.

La mattina seguente, Somber si presentò ancora al solito posto, lasciando a Dorothy una ciotola con quattro abbondanti onigiri ripieni.

La ragazza naturalmente fu contentissima del dono e lo ringraziò con un'espressione grata, ma non appena ebbe preso la ciotola tra le mani e guardato il cibo all'interno, nella sua mente iniziarono a insidiarsi dei dubbi sull'appropriatezza di quella situazione.

"È davvero giusto che io accetti questi regali quotidiani? Non appartengono a me, bensì a quell'anziano. È inammissibile che io goda dei suoi sforzi, che nemmeno sono rivolti verso di me." Dorothy iniziò a prendere a morsi gli onigiri, dato che in quell'istante la fame era un richiamo più forte rispetto alla coerenza dei suoi ideali, ma giurò a sé stessa che non avrebbe accettato altro cibo da Somber. "Da domani in poi non mi farò più trovare qui. Ormai io e lui non siamo più uguali..." stabilì, non senza una certa malinconia.

Farlo le pesava molto, ma credeva fosse la cosa migliore in quella situazione.

Quella sera, Somber parlò di Dorothy al maestro Ryukengi mentre consumavano una cena leggera all'interno del dojo, seduti su dei cuscini intorno a un piccolo tavolo di legno bianco.

"Sai, maestro, quella ragazza a cui ogni tanto porto del cibo... vorrei farla vivere qui con noi se non è di disturbo." propose con timidezza, mentre addentava del salmone.

"Perché lo chiedi a me? Qui c'è posto, come puoi vedere da solo. Ospitare quella ragazzina oppure no è una scelta che spetta solo a te, dato che si tratta di un tuo legame." ribatté, calmo, Ryukengi.

In effetti, il dojo in cui si trovavano era decisamente grande per due persone, pur non essendo una struttura ampissima in sé. Al suo interno c'erano solo tre stanze, anche se molto larghe, che consistevano in una cucina, un largo salone dove i due stavano cenando e una camera da letto con dei tatami sui cui stendersi, più un bagno. Un'altra persona non avrebbe di certo privato gli altri di spazi vitali.

Somber ipotizzò che forse quell'anziano un tempo dirigeva una piccola scuola di spada, prima della guerra, come tanti samurai esperti che risiedevano nei vecchi dojo. Forse era per quello che accettava o raccattava allievi con tale facilità. Doveva sentirsi solo e senza più uno scopo. Così, si dedicava all'unica cosa che era ancora in grado di fare.

"Allora, credo proprio che le chiederò di unirsi a noi. Vorrei tanto passare più tempo con lei, mi piace tanto." affermò un raggiante Somber, le guance un po' arrossate.

"D'accordo, dunque, la tua amica sarà la benvenuta." Ryukengi si concesse un sorrisetto gioviale e bevve un altro sorso di sakè.

Quando il giorno dopo Somber tornò al campetto per avanzare la proposta a Dorothy, rimase di sasso nel trovare il muretto all'esterno della struttura sgombro. Si avvicinò, incuriosito, e trovò un bigliettino di carta sul luogo in cui l'orfana soleva accomodarsi.

"Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me. Se te lo fossi mai chiesto, il mio nome è Dorothy Goover."

Questo era tutto ciò che la ragazza aveva scritto sul foglietto, probabilmente sgraffignato da qualche cartoleria.

"Oh no, mi sa che non verrà più... Così non riuscirò a chiederle di vivere con me, che guaio!" Somber non si perse comunque d'animo ed ebbe un'idea improvvisa. "Ci sono! Se continuerò a portare ogni giorno del cibo, la gente inizierà a parlare dell'accumulo di pietanze in questa zona e la notizia potrebbe giungere fino a lei! Ma sì, farò così." Decise, convinto di aver avuto un'intuizione geniale, sebbene fosse in realtà piuttosto grossolana.

E così, da quel giorno, Somber tornò costantemente in quel posto con piatti sempre diversi, che iniziarono a creare una sorta di collinetta sul marciapiede accanto al muretto. La gente che passava, così come i bambini di ritorno dal campo di basket, osservavano la singolare scena incuriositi, e di tanto in tanto qualche altro senzatetto casuale veniva ad approfittare della riserva creata dal ragazzo.

"E così non si è fatta più vedere? È un vero peccato... tuttavia, se ha compiuto tale scelta, nessuno può fare niente al riguardo. Non puoi forzare qualcuno a fare ciò che vuoi, per quanto tu lo desideri." disse Ryukengi una sera, dopo un allenamento con la spada insieme a Somber.

Il maestro aveva sempre infuso nel Kaika il cibo che l'allievo trasportava per la compagna, così che non andasse a male nel tempo, nonostante Somber non potesse saperlo.

"E invece riuscirò ad attirarla a me e invitarla qui, vedrai! Non mi arrenderò mai." proclamò l'altro con un'aria sicura di sé.

Il maestro sogghignò, beffardo.

"Se solo mettessi tutta questa determinazione anche negli allenamenti..."

"Ehi, le basi le ho imparate bene! Vecchiaccio antipatico..." sbottò Somber, imbronciato.

"Certo, al tuo livello forse batteresti un gatto zoppo con la febbre a quaranta." Farfugliò Ryukengi.

"Brutto infame eremita, ci credo che vivi qui da solo!"

"Vuoi tornare a campare di elemosina e furti?"

"Sempre meglio che avere a che fare con te, sottospecie di samurai rugoso."

In quel momento, d'improvviso, Ryukengi avvertì degli strani rumori provenire dal sentiero al di là della siepe che delimitava il dojo. Dei passi pesanti e un ripetuto tintinnio metallico tipico di chi portava armi e armature. Subito trascinò via Somber di peso con un vigore sorprendente per il suo aspetto.

"E adesso che c'è?" chiese Somber, divincolando le gracili braccia.

"Nasconditi subito dietro la siepe sulla sinistra." comandò il vecchio con fare sbrigativo.

"Perché, che succede?"

"Va', subito!"

"Maestro?" Somber non ebbe il tempo di reagire, che fu letteralmente scagliato verso la siepe. Poco prima che si nascondesse come il suo mentore gli aveva ordinato, quest'ultimo si voltò verso di lui sorridendogli con gran calore.

"Maestro, che succede?!"

"Somber, ricorda di non perdere mai di vista la strada che hai intrapreso, e di non abbandonare chi ami anche se dovesse seguire sentieri divergenti dal tuo. I legami che costruiamo non coincidono mai con le nostre scelte di vita." disse Ryukengi in tono paterno.

"Che vuol dire, maestro? Cosa..."

"Sono stato bene quest'ultimo mese in tua compagnia, Somber. Grazie infinite." Il suo volto era talmente benevolo che Somber si sentì stringere il petto.

Intanto, nel cortile si erano presentati cinque uomini armati fino ai denti. Indossavano armature leggere in cuoio verde, con un grande stemma incastonato sul petto che raffigurava in nero la lettera G, l'iniziale della parola Guardians. Ognuno di loro recava con sé una spada lunga e dritta in solido acciaio.

Ryukengi scrutò i cinque uomini dalla testa ai piedi, rimanendo immobile e curvo nella postura.

"Ehilà, vecchietto. Che facevi, blateravi di nuovo da solo?" Iniziò uno di loro, un uomo alto dai capelli biondi e rialzati. Somber osservava la scena nascosto nell'erba, i tipi loschi sembravano ubriachi e su di giri.

"Cosa volete? Questa è una proprietà privata." replicò in tono duro Ryukengi.

"Ma sentitelo!" gridò un altro uomo, calvo e dall'aria focosa.

"Questi cani dello Shihaiken credono ancora di poter possedere qualcosa!" esclamò un soldato castano dal ghigno crudele.

Gli altri due, che completavano il quintetto, indossavano degli elmetti in cuoio con lo stesso stemma dell'armatura. I cinque ridevano con malignità e sembravano avere cattive intenzioni. L'uomo biondo appariva come il loro leader, per atteggiamento e posizione centrale nel gruppo.

"Te l'avevamo detto, no? Se non ci consegnerai duemila Kin al mese, pagherai con qualcosa di molto più spiacevole. È il giusto pedaggio per consentire a voi cani del vecchio mondo di vivere ancora, nonostante la vostra inferiorità." sentenziò. "Allora, vecchiaccio? Dove sono i soldi?"

"Non posso permettermi questa somma ogni mese." affermò, secco, Ryukengi.

"Oooh, ma che peccato! Cosa pensi, che stiamo qui a scherzare, lurido maiale? La vostra razza inferiore non può permettersi di rifiutare una nostra richiesta, capito?!" urlò il calvo.

Gli altri quattro parevano sul punto di perdere il controllo da un momento all'altro, e dalle loro espressioni era probabile che non aspettassero altro che un pretesto per passare alla violenza.

"Capisco, certo. Capisco bene che i vincitori di una guerra abbiano la facoltà di dettare legge e decidere cosa sia giusto e cosa non lo sia, indipendentemente da ideali e moralità. Ma come vedete, qui ci sono solo un vecchio e il suo dojo: davvero volete accanirvi su qualcosa di così misero? Quest'assurdità non ha niente a che fare con la disputa tra Guardians e Shihaiken." arguì il vecchio, in tono persuasivo.

I cinque soldati reagirono male.

"Che belle parole, per un cadavere infimo come te. Ma ti sbagli, perché, vedi: non cambia il fatto che non possiedi i duemila Kin, che spettano a noi Guardians per permettere a voi perdenti di continuare a vivere in questi luridi bassifondi nei quali siete rintanati. Dunque, dovrai pagare equamente in un altro modo. Che ne dici di venti litri di sangue?" L'uomo biondo assunse un'espressione maniacale e violenta, avvicinandosi al maestro di spada. "Ora sta' fermo, mentre ti taglio quel vecchio braccio decrepito."

E il braccio venne tagliato, ma non quello di Ryukengi.

Si era udito solo un lievissimo fendente nell'aria, e il soldato aveva perso il suo arto superiore, che impugnava la spada, in un secondo.

"Eh?" All'inizio parve non accorgersene.

Poi, quando notò il suo stesso braccio sull'erba dipinta di rosso, e in seguito la lama di legno insaguinata di Ryukengi, nei suoi occhi si formò il terrore più puro. Urlò, terrorizzato, arretrando con urgenza.

"Il mio braccio! Me l'ha tagliato!"

"Dannato mostro!" urlò qualcuno tra gli altri, che lo caricarono.

Il vecchietto mosse pochi passi, compiendo un leggero movimento laterale con la spada, e due teste volarono nel cielo notturno, i loro elmi illuminati dal bagliore della luna.

"Andatevene, adesso." bisbigliò Ryukengi.

"Bastardo!" Il soldato calvo lanciò di scatto un coltello verso di lui, che non se l'aspettava.

Ma riuscì comunque a deviarlo, rispedendolo al mittente con la lama lignea e trapassandogli un occhio di netto.

Durante il movimento, però, gli altri due si erano avvicinati in maniera considerevole, gridando in modo selvaggio e, sebbene il maestro di spada si fosse accorto della loro presenza, le sue ossa segnate dal tempo non gli permisero di reagire in fretta.

Lo trapassarono insieme con le lame da parte a parte.

Gli occhi neri di Somber, nell'erba, si spalancarono, orripilati. Ryukengi si piegò sulle ginocchia, avvertendo le forze cedere all'istante.

"Muori, schifoso cane!" urlò uno degli assassini, un sorriso malvagio sul volto.

"Avresti dovuto pagarci..." disse il capo del gruppo ora diventato un duo, il moncherino da cui sgorgava sangue vivo.

Somber sentì il cuore pulsare piu rapido, la vista offuscarsi per la furia. Strinse più forte la spada di legno tra le mani. Non sapeva come il suo maestro fosse riuscito a decapitare due uomini con quell'arma priva di lama, ma in quel momento Somber non aveva nessun freno. Fece capolino dalla siepe con occhi vacui e l'arma stretta nel pugno, e iniziò a correre.

"Ma che-" Il soldato biondo non riuscì a reagire in tempo all'assalto del ragazzo urlante: il suo occhio fu trapassato con una potenza inaudita dalla spada di legno, su cui Somber fece da contrappeso a mezz'aria, uccidendo la guardia all'istante.

L'ultimo soldato nemico rimasto arretrò, impaurito dalla rabbia demoniaca che pervadeva il ragazzo sbucato dal nulla, come un mostro fuoriuscito da un incubo.

"Ti ucciderò." sussurrò l'orfano.

"A-aspetta!" Le due lame degli assassini erano rimaste infilzate nel corpo di Ryukengi. Somber ne estrasse una senza pensarci neanche, si avvicinò piano, mentre l'altro, disarmato, tentava di voltarsi e allontanarsi, e gli trafisse senza pietà il collo, girando la lama nella carne. Dopodiché, tutto fu avvolto dal silenzio.

Somber si inginocchiò nella pozza di sangue appartenente a più uomini sparsa sul cortile del dojo, dove per un mese aveva vissuto il periodo piu felice della sua vita. Non riusciva a pensare a nulla, avvertiva solo un dolore immenso nel torace e un senso di vuoto totale.

Fissò con espressione assente il corpo senza vita di Ryukengi, l'unica persona che lo avesse mai amato in tutta la sua vita, fin da quando ricordava.

"Perché dovrei continuare a vivere?" pensò, mentre sprofondava lentamente in un abisso di disperazione. "Che senso ha vivere se devo perdere sempre tutto?"

Dorothy passeggiava lungo le siepi del quartiere dove si trovava la nuova casa di Somber. Aveva preso l'abitudine di visitare quel luogo e osservare di nascosto il ragazzo che si allenava, in modo da sentirsi meno sola durante la giornata. Farlo la rassicurava e le infondeva serenità, scacciando via l'ansia dovuta agli stenti della sua vita da orfana.

"Chissà se Somber si è dimenticato di me da quando ho lasciato il nostro posto. Sarebbe comprensibile, in fondo." si chiese sottovoce.

Giunse al confine con il dojo e subito fu pervasa da un orripilante presentimento. Si sporse dalla siepe e ciò che vide la turbò nel profondo. Tutto il cortile era chiazzato di sangue, pieno di cadaveri.

L'unica persona in vita era un ragazzino chino su sé stesso, accanto a quello che Dorothy riconobbe come il corpo del suo maestro di spada.

Somber, inginocchiato in mezzo a quella marea rossa dall'odore ferroso, era chiaramente in stato di shock. Gli occhi persi nel vuoto e uno sguardo vacuo, privo di coscienza.

D'impulso, Dorothy corse verso di lui, raggiungendolo in poco tempo e abbracciandolo da dietro strettissimo, il viso appoggiato sul suo collo. Somber non parve nemmeno accorgersi che si trattasse di lei, ma si abbandonò in maniera spontanea al calore del suo contatto.

"Sono qui. Va tutto bene, ci sono io. Va tutto bene..." Dorothy continuava a sussurrargli parole del genere, accarezzandogli i capelli.

Non aveva compreso bene cosa fosse accaduto, ma sapeva che consolare Somber era tutto ciò che poteva fare in quel momento. Continuo a sfiorare i suoi capelli scuri con le dita, fino a quando il ragazzo si appisolò sulle sue gambe, privo di sensi. La ragazzina non poté fare a meno di sentirsi afflitta, vedendo il suo amico in quello stato pietoso.

"Dormi pure, non ti preoccupare. Sarò tutto il tempo accanto a te."

Al suo risveglio, nel primo mattino, Somber era solo, ma per qualche ragione si sentiva molto tranquillo, come se qualcuno avesse vegliato a lungo su di lui. Tutto intorno, le tracce di quell'orribile notte erano state cancellate. In questo modo, gli fu risparmiato di trovarsi di nuovo davanti alla visione traumatica di tutti quei cadaveri.

Non ricordava nulla dopo il momento in cui aveva visto il suo maestro cessare di vivere.

Solo una vaga sensazione di calore in cui si era rifugiato poco prima di perdere del tutto i sensi, ma pensò che forse l'avesse sognata.

In fondo al cortile notò un cumulo di terra, con un girasole piantato in cima. Una tomba per l'anziano Ryukengi.

"Sono stato io?" rifletté, confuso.

Era certo solo di una cosa in quell'istante: tutto ciò che gli rimaneva, la sua ragione di vita, era legata a quel calore della sera precedente di cui conservava il ricordo, e che collegava per motivi a lui oscuri a una sola persona.

"Possibile che lei..?"

Dorothy non credeva ai suoi occhi.

Era oramai l'alba, e aveva deciso di tornare sul muretto al campo da basket, per riprendersi dallo scenario terribile di quella notte in una zona confortevole e conosciuta per lei, e si era ritrovata di fronte uno spettacolo stupefacente.

Sullo stretto marciapiede, erano accumulati decine e decine di piatti di ogni genere, dal ramen agli onigiri, dal curry alle omelette, e così via. Tutti stranamente intonsi.

Sentì le lacrime riempirle gli occhi dorati e rigarle le morbide guance, senza riuscire a trattenersi.

"Somber... perché hai fatto tutto questo per me?" mormorò, la voce rotta dall'emozione.

In quello stesso istante, Dorothy e Somber capirono al contempo che anche se in futuro si fossero trovati in luoghi opposti tra di loro nel mondo, anche se a dividerli ci fosse stato un oceano, il loro legame non si sarebbe mai potuto dissolvere.

"Goover..." sussurrò Somber, seduto nel cortile del dojo.

"Somber..." bisbigliò Dorothy, di fronte al campo da basket, asciugandosi gli occhi.

"Io e te siamo legati l'un l'altra per l'eternità." 

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