Capitolo 53
La fredda brezza della sera penetrava fin dentro le ossa di Marcus, facendolo rabbrividire a intervalli nonostante l'abbigliamento invernale. I suoi occhi erano abbagliati dalle luci provenienti dai fari delle auto circondate da guardie che analizzavano e studiavano la scena del crimine. Era piuttosto stanco e sentiva le palpebre pesanti per il forte stress, anche se di sicuro era messo meglio di Lily, raggomitolata sul muretto della scuola, le ginocchia appoggiate al petto e circondate dalle esili braccia. La ragazza continuava a tremare ininterrottamente e con violenza, un'espressione mortificata disegnata sul volto.
"Che situazione assurda..." mormorò Marcus, sconcertato, mentre la osservava.
Non appena quella strana donna era fuggita, aveva chiamato la vigilanza Guardians e cercato di far reagire Lily, che riversava in uno stato di shock, anche se senza successo.
All'inizio non sembrava nemmeno riconoscerlo. Era persa.
Con la confusione in continuo aumento per l'arrivo delle guardie, si era un po' ristabilita, ma restava afflitta, come dimostrava lo sguardo molto triste che non l'abbandonava nemmeno per un istante. Vederla in quello stato faceva sentire Marcus come se avesse avuto un vuoto nel petto. Lei, che era sempre così allegra e spensierata.
"Mi chiedo cosa condividesse Lily con quella ragazza." sussurrò, voltandosi verso le guardie che circondavano l'area del cortile intorno al corpo di Nanako con dei nastri.
Una di loro, un uomo sul metro e ottanta, più o meno della stessa altezza di Marcus, si voltò avvicinandosi a lui con aria pigra. Sembrava quasi trascinarsi sulle gambe, come se avesse sempr sonno. Aveva dei capelli azzurri incredibilmente arruffati e gli occhi dello stesso colore che, nonostante l'espressione assente, brillavano al buio come due stelle nella cupa immensità del firmamento.
"Yo, io sono Isao Takeshi. Devo farti qualche domanda, dato che la tua amica non sembra in grado di parlare." Si presentò con tono annoiato e un'aria distaccata.
Solo in quel momento Marcus lo riconobbe. "Takeshi? Io ti conosco, ci siamo già incontrati."
L'altro strizzò gli occhi, come per sforzarsi di rimembrare. "Eravate alla South Arena, giusto? Ora ricordo, gran bel torneo di merda quello. Se penso che quel bastardo di Connor Gray ha pure vinto e si è portato a casa un bel gruzzolo..." sbottò in modo sgraziato. "Se non sbaglio stava anche per ammazzarti, giusto?" aggiunse.
"Lasciamo stare... Piuttosto, non c'è anche quel tuo amico coi capelli rossi?" chiese Marcus, cercando di non riportare a galla lo scontro con il terribile mercenario.
"Chi, Saito? Il maledetto si è preso una vacanza, è andato nel Continente meridionale. E così 'sto schifo tocca tutto a me. Persino quei quattro marmocchi in questo momento probabilmente si stanno divertendo di più." si lamentò Takeshi.
"Poco ma sicuro..." farfugliò Marcus, pensando a quando Peter e Alex erano andati a trovarli quel pomeriggio, informandoli della loro partenza verso Northfield e della spedizione di Dorothy e Somber. "Era solo oggi pomeriggio, ma sembrano già momenti così lontani..." rifletté.
Nei minuti successivi, Marcus riferì a Takeshi tutto ciò che aveva visto riguardo l'omicidio di Nanako, ovvero ben poco rispetto a quello che sapeva Lily. Dopodiché, la guardia lo ringraziò e si diresse verso la ragazza, cercando di farla aprire almeno un po'.
Quando ebbe finito di interrogarli, li congedò, porgendo una coperta di lana a Marcus cosicché la avvolgesse attorno alle spalle di Lily, poiché quest'ultima continuava a tremare senza sosta.
"Andate pure a riposare e scaldarvi adesso. Da qui in poi me ne occuperò io." affermò, secco.
Marcus ricambiò il cenno di saluto e si avviò verso la sua collega e compagna. "Forza, andiamo via di qui." le mormorò, avvolgendola con la coperta.
Lei si fece piccola al suo interno, affondando il viso nella morbida lana.
"Ok." rispose con voce flebile.
La notte iniziava a subentrare alla sera, quindi Marcus decise di bere insieme a Lily qualcosa di bollente in una tavola calda, in modo da scrollarsi di dosso le lugubri sensazioni di quella traumatica giornata.
La ragazza non diceva una parola e dava solo pochi sorsi alla sua cioccolata calda, mentre Marcus, la sigaretta tra le labbra screpolate, la osservava con sguardo preoccupato, sul divanetto in pelle al di là del tavolino rettangolare posto in fondo alla sala dall'atmosfera luminosa e accogliente.
"Almeno ha smesso di tremare." pensò.
I suoi occhi però non lo tranquillizzavano, ancora pervasi da quell'aria vuota e persa, privi di luce.
"Ti senti un po' meglio? Ti andrebbe di parlarmi di quella ragazza sul tetto?" tentò Marcus.
Lily scosse la testa.
"Capisco, prenditi pure il tempo che ti serve."
Restarono in silenzio per un po', con la musica di sottofondo del locale come unica compagnia. Finché la giovane ebbe un sussulto improvviso che catturò lo sguardo del partner.
"Io... devo andare, non seguirmi." disse a un tratto Lily, come se nella sua mente fosse appena scattato qualcosa.
Si alzò per avviarsi verso l'uscita, quando Marcus le afferrò il polso in modo da bloccarla.
"Ehi, dove vorresti andare da sola nel bel mezzo della notte, me lo dici? Non posso permetterti di compiere pazzie a caldo." la rimproverò.
"Lasciami, io so dov'è lei adesso. So dove mi aspetterà!" Lily iniziò ad alzare la voce e a scoprire i denti.
"Adesso devi riposare, lo capisci? Non fare la stupida."
"Ho detto di lasciarmi! Non devo dar conto di nulla a te!" esclamò lei, strappandosi alla presa del compagno.
Marcus si alzò di scatto, stavolta afferrandole entrambe le mani e tenendole strette nelle sue. Lily assunse un'aria sorpresa, e tentò di divincolarsi senza troppa convinzione.
"Per favore, Lily, non andare... Non voglio che tu cambi."
La ragazza sgranò gli occhi. "Queste parole..." pensò. L'immagine sfocata di sé stessa da piccola sotto un vecchio ponte, insieme a quella bambina espansiva dai capelli castani, le tornò alla mente come un fulmine a ciel sereno.
"Non voglio che il dolore che provi ti porti a cambiare..." Marcus allentò la presa mantenne le mani di Lily con delicatezza, guardandola dritto nei suoi grandi occhi bianchi.
"È proprio come quella volta." Lily non riusciva a cancellare dalla sua testa quelle immagini a cui a lungo aveva evitato di pensare, seppellite nei meandri più remoti della sua psiche. Fece sfilare lentamente le mani da quelle di Marcus, scrutandolo con profonda tristezza.
"Scusami." sussurrò, correndo poi verso la porta e fuggendo via.
Marcus la guardò uscire, pensando al suo sorriso radioso. All'immagine di una Lily esuberante e sempre scherzosa, a cui si era sovrapposta quella disperata, furiosa e dagli occhi vuoti.
Non riusciva a sopportarlo.
Si diresse anche lui verso l'uscita, lasciando in fretta e furia del denaro sul tavolino.
"Devo seguirla!"
Appena uscita dalla tavola calda, Lily iniziò a correre senza voltarsi indietro. Alla sua sinistra c'era un muretto, ai piedi del quale erano presenti bottiglie di birra rotte e lattine di soda vuote, mentre alla destra una strada deserta, su cui passavano poche automobili a distanza di lunghi intervalli, data la tarda ora. Si trattava di una zona periferica e abbastanza isolata, in cui era di certo sconsigliato aggirarsi da soli la notte.
"Mi dispiace, Marcus, devo andare in quel posto e risolvere una volta per tutte questa faccenda. Altrimenti non riuscirò mai più a restare in pace con me stessa..." pensava la ragazza, mentre continuava a sfrecciare più veloce che poteva sullo stretto marciapiede.
Tuttavia, una figura sbucò all'improvviso di fronte a lei, sbarrandole la strada e costringendola a fermarsi.
"Dove credi di andare, ragazzina?" Un cespuglio di capelli azzurri svolazzanti brillava nell'atmosfera cupa che circondava Lily.
"Sei tu." constatò lei, infastidita.
"Non vi avevo forse detto che me ne sarei occupato io? Questa vicenda non è roba per te, tornatene a casa."
"Takeshi. Tu non capisci..."
"Capisco che se andassi a incontrare quella ragazza, probabilmente moriresti. Ipotizzando che io abbia indovinato con chi abbiamo a che fare, una mocciosa come te farebbe meglio a non immischiarsi. April Swanson è un ex membro della Squadra d'Esecuzione Guardian, ed era solita accompagnare nelle missioni Connor Gray. Non è un'avversaria al tuo livello." La informò Takeshi con tono serio.
"Non mi interessa, è una cosa tra me e lei, non interferire!" Lily digrignò i denti e assunse un'aria feroce.
"Ehi, cos'è quell'espressione, ragazza? Devo usare le maniere forti per trasmetterti un po' di senso critico? Ti ho detto di levarti dai piedi, non farmelo ripetere." Stavolta la voce di Takeshi era più roca, quasi come se la stesse minacciando. "Sei solo una bambina e faresti meglio ad andare a piangere da un'altra parte." continuò l'uomo, un ghigno beffardo che sostituì il grugno truce sul suo viso.
Quelle parole suscitarono una reazione rabbiosa in Lily, che infatti iniziò a emanare un intenso Kaika blu dal suo corpo. "Che ne sai tu... Non sai proprio niente! Ti ho detto di toglierti di mezzo, altrimenti lo farò io!" La ragazza puntò un braccio verso la guardia e scatenò un rapido getto d'acqua dalla mano.
Takeshi sbuffò, estraendo tramite un gesto pigro la spada dal fodero azzurro. La lama ondeggiò, e da essa fu emesso un luminoso raggio infuocato e azzurro che sovrastò senza problemi il getto d'acqua, avanzando inesorabile in direzione di Lily.
Poco prima che potesse investirla, qualcosa di solido entrò in collisione con il raggio di fuoco, riuscendo a bloccarlo.
"Si può sapere cosa sta succedendo qui? Hai forse intenzione di uccidere una ragazzina?"
Davanti a Lily si stagliava maestosa la figura di Marcus, il corpo piegato in avanti, un braccio contratto e coperto di magma incandescente attraverso il quale aveva intercettato l'attacco di Takeshi. Con l'altro braccio, invece, teneva stretta a sé Lily, impedendole di muoversi.
"Macché, quella era appena una fiammella, le avrebbe procurato giusto qualche livido." sbottò la guardia, che iniziava ad annoiarsi di quella situazione.
"Sei un bastardo, mi hai sentito? Ora sei qui a fare la guardia perfetta, ma dov'eri mentre Nanako veniva uccisa? Dov'eri?! Questa è una storia che non ti riguarda!" Fuori di sé, Lily iniziò a vomitare parole di disprezzo a raffica verso Takeshi.
"Calmati, Lily." La scosse Marcus. "Ehi, possibile che tu non abbia neanche un po' di tatto? Ha appena visto morire un'amica davanti ai suoi occhi, è sconvolta. Non riesci a comprenderla?" si rivolse poi all'altro.
Il volto di Takeshi si scurì. "Oh, è proprio per questo che l'ho bloccata, perché io la capisco fin troppo bene..." Il paesaggio notturno pervaso dall'oscurità e dal silenzio pareva quasi immergerlo, rendendolo parte di esso. "La persona che amavo di più, l'ho uccisa io stesso con le mie mani." affermò, con un sorriso triste e malinconico.
Nei suoi occhi, Marcus lesse una disperazione così radicata e profonda che ne fu terrorizzato. Quello era un uomo che lottava ogni giorno con l'oscurità dentro di lui. Un uomo costantemente a metà tra la vita e la morte, preda di una profonda depressione.
In quell'istante, l'investigatore capì che per quella notte la cosa migliore da fare era portare Lily via da quello scenario fin troppo tetro. E farlo prima che per lei iniziasse a diventare troppo tardi, come era accaduto all'uomo di fronte a loro.
"Lily, andiamo a casa. Ora come ora non possiamo fare nulla, e anche se inseguissi la tua vecchia amica, non saresti comunque lucida e finirebbe male." Le rivolse uno sguardo duro, come a comunicarle che non avrebbe ammesso dibattiti.
Lei ricambiò il suo sguardo per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Batté i denti talmente forte da farli scricchiolare, contraendo il viso in un'espressione di rabbia e frustrazione.
"Va bene, andiamo a casa." concesse alla fine, sospirando con rassegnazione.
Marcus e Lily voltarono le spalle a Takeshi e si diressero verso la loro automobile a qualche isolato da quella zona. La ragazza si voltò solo per un momento, per incrociare ancora una volta gli occhi dell'uomo che l'aveva intercettata.
Provò un misto tra pietà, ammirazione e ira nei suoi confronti. Ma la cosa che quella sera comprese in maniera nitida fu che Isao Takeshi era un uomo solo, e questo la fece sentire simile a lui.
Ad alcuni metri di distanza dal luogo dell'incontro con Lily e Marcus, dove il paesaggio urbano era caratterizzato da molti bar e locali in successione su una stradina illuminata, lo spadaccino passeggiava a ritmo lento e capo chino. Il suo volto era piuttosto provato, ma allo stesso tempo dava l'impressione di essere tranquillo, forse abituato a questioni come quella che stava affrontando.
"Qua ci vuole una bevuta dopo la giornataccia che mi è toccata, e poi a casa a farmi una bella dormita." disse tra sé e sé.
Nel momento in cui svoltò l'angolo e discese una rampa di scale tra due muretti di mattoni oltre la strada, sbucando su una piazzola isolata, notò una nuvola di fumo addensarsi dietro di lui, aumentando man mano il suo volume sempre di più.
Takeshi spalancò gli occhi, accorgendosi all'ultimo momento del pericolo imminente.
Estrasse la spada appena in tempo per respingere con il retro della lama una manata mortale al collo, sferrata con velocità disumana. Dalla nuvola di fumo prese forma una figura umana, che balzò all'indietro atterrando con un ginocchio e le mani appoggiate sul terreno.
"Impressionante, Isao Takeshi..." L'uomo si alzò, mostrando dei capelli grigi rialzati e una vecchia cicatrice a causa della quale l'occhio destro era serrato. "Ora capisco perché Hatsue e Jin sono morti per mano tua." Il suo tono era gelido e sommesso, l'occhio da cui vedeva mostrava un'espressione polare che avrebbe messo i brividi a chiunque.
"Uesugi Kirai. Intendi quei due idioti che facevano parte del vostro gruppetto, qualche anno fa? Commisero l'errore di credere di potermi far fuori con un'imboscata." sogghignò Takeshi.
"Questo è solo uno dei crimini che si aggiunge sulla tua coscienza, Takeshi." La voce da cui provenivano quelle aspre parole non apparteneva a Kirai.
Dietro di lui, infatti, dall'ombra, fece capolino Asmodeus Karasu.
Coperto da un lungo impermeabile nero, dai capelli e i feroci occhi della medesima tonalità, sembrava sbucato dal nulla, mimetizzato nella notte.
"Tu..." mormorò Takeshi, incredulo.
"Buonasera, vecchio compagno. Vedo che vaghi ancora in giro impunito per i tuoi peccati." Karasu lo scrutò con il suo sguardo penetrante, tagliente quanto la spada che teneva nel fodero, sotto le vesti.
"Se è questo, il tuo desiderio, possiamo fare entrambi ammenda anche adesso." rispose lo spadaccino dai crespi ciuffi azzurri, posando una mano sull'elsa della sua arma.
Karasu sogghignò, divertito. "Sebbene l'idea di farti soffrire come il verme che ti ostini a essere mi provochi un immenso piacere, per ora declinerò l'offerta. Trovo che la punizione che più ti si addice sia il purgatorio di colpa e disperazione in cui vivi tutti i giorni. Continuare a commiserarti ogni istante della tua vita è quello che uno come te merita."
"È vero, Karasu. L'unico pensiero che mi occupa la mente ormai è decidere sul fondo di quale bicchiere, appoggiato a un tavolino di uno squallido bar, lasciare i miei ricordi. Per avere almeno poche ore di pace. Ma, a differenza tua, non ho perso di vista gli insegnamenti del nostro maestro, e continuerò a lottare tutta la mia vita per riuscire a chiamare un posto casa, e delle persone la mia famiglia. Tu invece ti sei arreso tempo fa, sei solo uno spettro vendicativo che non fa più parte di questo mondo."
"E dimmi, Takeshi, di chi credi sia la colpa? Chi è che quel giorno la uccise?" Karasu lo fissò dritto negli occhi con espressione accusatoria.
A quelle parole, Takeshi fu attraversato da oscure memorie e da un forte dolore al petto che portò il polso appoggiato al pomello della spada a tremare vistosamente.
"Di chi era la spada che la trafisse? Rispondi, Takeshi!"
Proprio mentre appariva che la situazione stesse degenerando e Takeshi stesse iniziando a ricadere in un abisso di colpa e dolore, quest'ultimo avvertì il calore di una mano rassicurante propagarsi lungo la sua spalla. Quel piacevole contatto, così familiare, quel tocco paterno e amorevole, gli trasmise subito grande conforto e una sensazione di sicurezza.
"È sempre stato un tuo vizio, stupido allievo..." Takeshi si voltò, sorpreso di udire quella voce proprio in quel momento. Come se fosse lì per sostenerlo dopo aver avvertito le sue pene. "Quello di essere fin troppo duro con te stesso."
"Maestro Fujiwara!" esclamò Takeshi.
"Anche tu a Gloomport Town, caro maestro? Quant'è piccolo il mondo." lo accolse con sarcasmo Karasu.
Fujiwara Taiyo alzò lo sguardo, scrutando a fondo prima Kirai e poi il suo vecchio allievo. "Mi sorprendi, Karasu. Dovresti sapere benissimo dai miei insegnamenti che una spada impugnata con odio non ti condurrà a nulla, se non alla tua stessa distruzione, oltre a quella di tutto ciò a cui tieni." affermò, sorridendogli con calore.
Il volto benevolo di Taiyo, il fatto che lo trattasse ancora come un suo allievo, ricondussero alla luce in Karasu sentimenti di nostalgia a lungo seppelliti. Semplicemente con la sua presenza, accompagnata da poche parole, quell'uomo era in grado di trasmettergli sensazioni intense come poche.
"Credi davvero che ormai siamo in tempo per tornare indietro? Karasu non è l'unico a provare odio per questo governo e la sua malata influenza. Tutti noi dei Vulture condividiamo questo sentimento a causa del dolore che il mondo ci ha inflitto. Ciò a cui tenevamo è già andato distrutto, non c'è più niente di salvabile." intervenne Kirai.
"Un'altra guerra porterebbe solo altro dolore, e non solo a voi. Non può nascere niente di buono da questa continua catena d'odio, non riuscite a capirlo?" tentò Takeshi.
"Nessuno di noi possiede la vostra capacità d'adattamento. Mi sono circondato di anime intrise d'odio che non sono capaci di dimenticare e andare avanti, e specialmente tu dovresti comprenderne il motivo, Takeshi. Questo mondo dovrà conoscere l'amarezza di un'altra guerra, e stavolta i Guardians avranno ciò che meritano. Soffriranno dieci volte le pene che ci hanno inflitto, e se proverete a fermarci perché avete deciso di piegarvi per sopravvivere, schiacceremo anche voi." tuonò, imperioso, Karasu, col suo di voce autoritario, il quale fece capire con assoluta chiarezza che nessuna replica l'avrebbe convinto a desistere.
"Se dunque è questa la via che hai scelto per riuscire ad andare avanti, la rispetterò. Ricorda, però, che devi andare fino in fondo lungo il sentiero che hai intrapreso, o anche coloro che hanno scelto di seguirti, che ti vedono come un faro, finiranno per arenarsi insieme a te." dichiarò Taiyo. "Se hai scelto di vendicarti, e di guidare anche la vendetta altrui, allora dovrai essere capace di caricarti questo enorme peso sulle spalle e continuare a trasportarlo fino alla fine."
"È proprio quello che farò, maestro. Sarà meglio togliere il disturbo, Kirai, abbiamo dei conti in sospeso da saldare." Karasu si voltò, incamminandosi con il compagno nella direzione opposta rispetto a Takeshi e Taiyo. "Perdona la visita improvvisa. Ci incontreremo ancora quando avrai finito di nasconderti sotto il kimono del maestro." aggiunse, rivolto al primo, sparendo infine alla loro vista.
"E così, hai fermato quei due ragazzi con durezza e adesso ti senti in colpa, eh? È proprio da te, Takeshi!"
Il maestro Fujiwara rise con ironia, seduto su una panchina sotto un grande albero sempreverde poco più avanti, avvolto nel suo vecchio e polveroso kimono, dopo essere venuto a sapere di ciò che il suo allievo aveva passato nell'ultima ora.
"Ehi, non ho mai detto di sentirmi in colpa, dannato vecchio!" ribatté l'altro, voltandosi altrove.
"Guarda che non sono così vecchio, sono sulla quarantina... Beh, a ogni modo si capisce benissimo dalla tua faccia che ti senti in colpa! Sei sempre stato un tipo sensibile, in fondo."
"Ma sta' zitto, non so nemmeno perché te l'ho raccontato. Vecchio impiccione..."
"Non sono così vec-"
"Ho capito!"
Taiyo ridacchiò con calore, sarcastico, mentre gli ondulati capelli biondo miele ondeggiavano nel venticello invernale. "Comunque sia, è giusto voler proteggere qualcuno. Però non dimenticare ciò che ti ho sempre ripetuto: il modo migliore per proteggere una persona in modo duraturo è lasciare che cresca e sia libera di vivere le proprie esperienze da sola. Di combattere per i propri ideali, permettendole così di svilupparne di nuovi ed evolversi."
"Sarà anche come dici ma, per quanto mi sforzi, quando vedo dei cuori puri non riesco a fare a meno di volerli difendere." sbottò Takeshi, grattandosi appena i capelli arruffati.
"Stai pensando a quei quattro ragazzi?" domandò Taiyo, dopo un breve silenzio.
"Già... Non avrei mai pensato di potermi affezionare ancora così a qualcuno." rispose la guardia.
"Sta' pure tranquillo. Peter, Alex, Dorothy e Somber hanno tutti una forte determinazione e grandi qualità. Persone come loro nascono una volta ogni centinaia di anni. Se la caveranno in qualsiasi situazione, prendendosi cura l'uno dell'altro."
"Lo so." Gli occhi di Takeshi assunsero un'espressione agrodolce, mentre pensava ai momenti passati con i quattro giovani amici. "L'unico vero desiderio che mi è rimasto nella vita è proteggere quei ragazzi. Evitare loro gli orrori di un'orribile guerra, di soffrire e rimanerne segnati. Vorrei solo vederli felici e sereni per sempre." mormorò.
Taiyo tacque, come a lasciare che le parole dell'allievo penetrassero ancora di più nella sua mente, dopo averle pronunciate ad alta voce. Come a volerle rendere ancora più concrete per Isao Takeshi, con la fioca speranza che grazie a quell'obiettivo si sentisse meglio.
"E tu? Non hai qualche desiderio che ti è rimasto, vecchio?" Lo spadaccino si affrettò a cambiare argomento prima che la situazione diventasse troppo imbarazzante.
"Beh, se proprio dovessi esprimerne uno..." Fujiwara Taiyo si alzò dalla panchina su cui erano seduti, mostrando le spalle a Takeshi. "Vorrei tanto che, quando arriverà il momento, sia uno dei miei allievi a mettere fine a tutto." Si voltò verso di lui con un gran sorriso, colmo di una benevolenza quasi dolorosa.
"Che vuoi dire?" chiese, dubbioso, l'altro.
"Oh, niente di cui tu debba preoccuparti." ribatté Taiyo. "Allora, a presto! E, Takeshi, sappi che io sono molto fiero di te." Gli poggiò una mano sui capelli, arruffandoglieli ancor più rispetto a com'erano già di loro.
"M-ma che fai? Accidenti..." arrossì lui, senza però divincolarsi.
Osservò la schiena del suo maestro allontanarsi, finché non divenne un puntino lontano e indistinguibile. Ormai si era quasi fatta l'una del mattino.
"Bene..." si disse l'allievo, scrollandosi il freddo e la stanchezza di dosso. "Cerchiamo un bar aperto."
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