Capitolo 139

Tra i fitti ramoscelli in prossimità della cima di un sempreverde, disteso con le mani intrecciate dietro la nuca a osservare gli spicchi di cielo oltre gli spazi tra le fronde, un ragazzino dall'aria annoiata riposava pigramente, cullato dal frinire di qualche cicala nascosta nella vegetazione e dal leggero fruscio di contorno delle foglie.

Era una giornata d'estate, calda e secca ma non afosa. Sia il clima che l'atmosfera erano piacevoli e il giovane era immerso in quel prezioso stralcio di vita in cui nessun pensiero gli occupava la mente.

La chioma a dir poco ondulata di capelli muschiosi quasi si mimetizzava con quella dell'albero sul quale si era arrampicato per sostare, dopo una giornata passata a lavorare, oltre che ad allenarsi.

Il pomeriggio iniziava a sfociare nel vespro, come testimoniava la distante macchia rosata dall'alone aureo che prendeva forma all'orizzonte, scurendo via via il cielo limpido della calda stagione.

"Connor!"

Una voce argentina subentrò fra i suoi pensieri. Proveniva dal basso e si avvicinava sempre più.

Il ragazzo capì al volo di chi si trattasse, d'altronde delle due persone con cui viveva, solo una poteva possedere quel tono così infantile.

Sfilò le esili braccia dalla nuca, voltandosi verso il basso a osservare l'intrusa che aveva interrotto il suo momento di quiete. La piccola coda ramata guizzava qua e là quasi come a voler esprimere il dissenso che la sua amica d'infanzia provava in quel momento.

"Volevi qualcosa, Satyria? Mi stavo rilassando. Oggi è proprio una bella giornata, non trovi?" la salutò, noncurante.

Sul viso della ragazzina venne a formarsi un broncio che mostrava il suo disappunto, così come l'espressione contrariata negli occhi simili a due ametiste scintillanti.

"Uffa, dopo gli allenamenti e i lavori all'abbazia mi piacerebbe giocare insieme ogni tanto, ma te ne scappi sempre sopra agli alberi e non riesco a raggiungerti. Secondo me lo fai apposta." mugugnò con aria ferita.

Connor sospirò, prima di sollevarsi sulle punte dei piedi e balzare con agilità giù dal sempreverde, accanto alla compagna.

"Se proprio ci tieni a inseguirmi, allora impara anche tu a scalare i rami, dolce Satyria. Padre Isaac vuole insegnarci quella roba chiamata Kaika, quindi come base non sarebbe male."

"Non sono dolce." protestò lei, socchiudendo gli occhi. "E sarebbe carino se non scappassi da me, di tanto in tanto. A volte ci dormi persino, sugli alberi. A me invece non piace arrampicarmi in alto come fai tu. Non so proprio cosa ci trovi..."

Gli occhi di Connor si illuminarono in un lampo. "Mi fa sentire libero. Lontano da ogni problema che c'è al di sotto, senza alcun vincolo. È così che mi piacerebbe vivere. Infatti, non potrei mai essere come il Padre."

"Lui aiuta le persone, il suo non è un vincolo. È ammirevole." rimbeccò Satyria.

"È solo stupido. Tutta quella gente che lui ospita all'abbazia si approfitta della sua gentilezza. Dovrebbe rendersene conto, invece offre loro i nostri viveri e il nostro spazio. Si limita per gli altri, non ha senso." Il tono del dodicenne si inacidì ma alla fine, troppo poco voglioso di alterarsi, decise di lasciar perdere. Forse anche per la punta di rassegnazione che vide nello sguardo di Satyria.

Gli faceva male ogni volta, quando assumeva quell'espressione.

Come se fosse abituata a vederlo diffidare degli altri, inasprirsi per la bontà del loro tutore. Perché Satyria conosceva le condizioni in cui Connor versava, prima che lei e quell'austero quanto rassicurante reverendo lo trovassero e accogliessero con loro. Sapeva quanta poca fiducia avesse nell'umanità.

Odiava che lei pensasse che soffriva, che fosse una sua debolezza. O che si mettesse in testa che potesse guarirlo. Non aveva proprio niente da cui essere guarito. Era il mondo a essere malato e incurabile. Per questo, Connor voleva vivere nella condizione che considerava la cosa più importante in assoluto.

La libertà.

Sentì le mani dell'amica poco più giovane di lui stringere con delicatezza le sue dita, ma non le ritrasse. Specchiò i suoi occhi chiari in quelli quasi supplicanti dell'altra, che gli chiedevano di lasciarsi andare almeno a lei, di accettare i suoi sentimenti.

Infine, le concesse un accenno di sorriso.

"Torniamo all'abbazia, la cena dovrebbe essere quasi pronta. Si mangia tacchino arrostito, mi sembra." affermò con tenerezza Satyria.

"Avevo proprio voglia di carne." ironizzò il giovane. "Su, andiamo."

L'abbazia era situata su di un'altura circondata da distese sterminate d'erba, immersa nella natura quasi totale a diversi chilometri dal centro abitato più vicino, nella zona settentrionale di Southfield.

Si trattava di un'abitazione di medie dimensioni, ma abbastanza grande perché tre persone ci vivessero senza problemi di spazio, e anche di più, quando alcuni viaggiatori o disperati sostavano lì.

Un tetto spiovente di mattoni scarlatti sormontava la struttura, con una piccola croce di ferro arrugginito rivolta verso il cielo, sull'estremità.

Sulla sinistra vi era un ampio recinto con panche su cui accomodarsi nei pressi della parete e un pozzo da cui ottenere acqua fresca, mentre sul retro si estendevano il prato e l'orto ricco di ortaggi e cereali di vario tipo.

Era un luogo semplice e rustico, ma tanto bastava a Connor e Satyria per sentirsi a casa.

Proprio per questo, al giovane infastidiva che quel posto per lui sacro venisse invaso da sconosciuti potenzialmente malintenzionati, tutto per l'ingiustificata bontà del loro tutore, che proprio in quel momento era accomodato su una delle panchine a contemplare il bosco che si infittiva a ovest, davanti ai suoi occhi incavati e penetranti.

Percependo la loro presenza, Padre Isaac si alzò in tutto il suo abbondante metro e novanta, gettando la sua ombra sui due ragazzini a ogni passo, la lunga veste da reverendo con tanto di croce sul petto svolazzante nell'aria.

La severità che la sua ingombrante sagoma lasciava incombere sul prossimo non rispecchiava affatto lo sguardo generoso che albergava nei suoi sottili occhi scuri. Se la sua presenza metteva in soggezione, i suoi modi tranquillizzavano, sopperendo all'istante a quell'aspetto quasi minaccioso.

"Eccovi qui, Connor e Satyria." Isaac si abbassò e scompigliò loro le chiome.

Satyria sorrise con affetto al contatto, schiudendo gli occhi, mentre Connor voltò il capo di lato con noncuranza, infastidito ma roseo sulle guance.

"State sempre insieme, eh? Fate bene a sostenervi l'un l'altra, c'è bisogno di un supporto a questo mondo, per quanto indipendenti si possa essere."

"La pianti di cacciare aforismi ogni volta che ci parli? Non siamo mica a scuola." sbottò Connor, squadrando nel frattempo sott'occhio i curiosi capelli castani dalle macchie verdine del Padre.

Quest'ultimo rise di gusto a quel commento. "Hai ragione, Connor!" concesse. "Dimentico sempre che non sei tipo da ascoltare i discorsi del prossimo."

"Però non ti farebbe male ogni tanto." soggiunse Satyria, piccata.

Il ragazzo schioccò la lingua. "Preferisco i fatti. Quelli li posso valutare con oggettività, almeno."

"Se è così allora dovrei interpretare il tuo scappare di continuo come volontà di essere inseguito. Non ti lamentare più quando ti vengo a prendere." lo prese in giro la ragazza.

"O magari voglio stare per i fatti miei." borbottò Connor, ottenendo così una linguaccia indispettita della compagna.

"Connor non ha tutti i torti, in fondo!" rise Isaac, distaccandosi dai due e coprendo il cielo con la sua sagoma. "Saper usare le parole giuste è importante, ma alla fine vengono legittimate solo da azioni coerenti con ciò che si afferma. È così che si guadagna la fiducia delle persone."

"Padre..." Satyria lo guardò con occhi brillanti, ammirata come spesso le capitava dalla dialettica e la presenza stimolante dell'uomo.

"Beh, se è per questo riponi fin troppa fiducia nelle persone, facendole addirittura sostare qui. Con quali azioni se la sono guadagnata?" punzecchiò il ragazzo dal crine muschioso.

"Connor, non ricominciare." lo ammonì l'amica d'infanzia.

Padre Isaac si grattò la testa con un gesto indolente.

"Forse quello che dici è giusto, Connor, ma preferisco pensare di poter aiutare più persone possibili in buona fede, piuttosto che vivere nella maledizione della solitudine e dell'egoismo. Ho fiducia nell'umanità, nonostante tutto, o sarebbe meglio dire che ho bisogno di averne. Forse è un mio difetto ma sono fatto così."

Né Connor né Satyria seppero come rispondere, dopotutto erano molto giovani per capire appieno le sue parole e, soprattutto, ignari di ciò che esse celavano, della vera misteriosa essenza che si nascondeva nell'animo misericordioso di Padre Isaac.

Così come del segreto racchiuso in quei capelli di due tonalità diverse, innaturali alla sola vista.

Quell'uomo era stato tutto per loro, sin dalla nascita.

Sia quando Satyria era stata lasciata da neonata davanti all'abbazia, sia quando aveva raccolto Connor dallo scenario terrificante in cui stava perdendo la sua anima stessa. Era stato lui ad accoglierli. Li aveva cresciuti come un padre, trattandoli con ogni riguardo e rinunciando alla sua libertà per farli crescere al meglio delle sue possibilità.

Satyria e Connor non avrebbero mai potuto ringraziarlo abbastanza per essere stato la loro famiglia.

"Bene, ora andiamo a mangiare, si sta facendo sera. Domani vorrei mi accompagnaste per una visita, dopo gli allenamenti." affermò l'uomo.

"Oh, si esce! Andiamo di nuovo in quel villaggio?" chiese Satyria, pimpante.

"Oh, lì... Nulla in contrario, se proprio devo..." bofonchiò Connor. "Almeno il villaggio di Araumi dista poco da qui."

A notte fonda, avvolto dal silenzio dominante nel suo letto negli alloggi dell'abbazia, Connor non riusciva a prendere sonno. Le coperte leggere ricoprivano tutto il suo corpo fino al naso, lo sguardo perso nel soffitto sopra di lui. Pochi metri più in là, Satyria ronfava come un angioletto nel letto accanto al suo, all'interno della stanzetta che i due ragazzini condividevano.

Connor non era mai riuscito a dormire bene, di notte i fantasmi peggiori che infestavano la sua mente non trovavano più gli argini che le attività e le distrazioni quotidiane ponevano loro davanti. Lo tormentavano in tutta la loro inquietante essenza, gli impedivano di trovare pace.

Talvolta, guardare il viso addormentato e sereno di Satyria riusciva a calmarlo un po', ma spesso quei ricordi invasivi erano semplicemente troppo nitidi per essere ignorati. L'odore del sangue rappreso ancora permeava le sue narici, facendole arricciate in seguito a un conato di disgusto.

Riusciva a vederli. I pezzi sparsi lungo quel campo, occhi spenti che gli scavavano nell'anima per liberare la sua più profonda disperazione.

Iniziava a tremare e per minuti, per ore, non poteva far altro che arrendersi al terrore, inerme. Fino a quando il suo corpo non crollava dalla fatica, donandogli sollievo.

Si alzò, valutando se fosse il caso di infilarsi nel letto della compagna per stringersi a lei e provare a dimenticare tutto.

Decise che avrebbe solo provato a prendere una boccata d'aria. D'altronde, il vento, l'erba e la natura nella loro purezza erano le uniche cose che lo facevano sentire davvero svuotato dalle ansie.

Connor camminò in punta di piedi sul pavimento cigolante, facendo attenzione a non svegliare Satyria, finché non raggiunse la porta e sbucò nel corridoio degli alloggi. Si diresse dunque verso l'uscita, in fondo a sinistra, ma a metà strada la sua curiostà fu catturata da una cupa immagine.

Alla sua destra riconobbe subito la porta dello studio in cui Padre Isaac spesso si rinchiudeva.

Per lui era un mistero cosa ci fosse lì dentro, dato che era sempre chiusa a chiave, quasi come se fosse incastonata nella parete.

Ma in quel momento era socchiusa. Forse, il padre aveva dimenticato di serrarla.

Connor deglutì, tentato dalla curiosità di aprire e dare un'occhiata all'interno, sospinto dal manto notturno, nonché dalla paura di tornare nella condizione di stallo in cui riversava poco prima, nel suo letto. Non ne aveva alcuna voglia. Tanto valeva tentare la fortuna.

Mosse un timido, felpato passo in avanti, cercando di celare la sua presenza stessa rendendola parte della notte. La mano sfiorò la maniglia, uno scatto secco gli rimbombò nel cuore.

"Cosa ci fai qui?"

Connor sentì mancare un battito.

Si voltò rapido e vide, occultata dal buio, l'ombra di Padre Isaac incombere su di lui. In quel preciso istante il verde nei suoi capelli gli sembrò più scintillante che mai.

"N-niente, io..." Provò a giustificarsi.

"Non c'è nulla per te lì dentro, Connor. Niente che ti possa interessare." In un attimo, l'uomo ritrovò il suo sorriso rassicurante, sostituendolo a quella inquietante vena d'apprensione che di primo acchito era scaturita dalla sua voce profonda.

"Mi spiace." sussurrò il ragazzo.

"È normale essere curiosi, Connor, non ti biasimo per questo. Ma, credimi, tu non vuoi sapere cosa si trova in quella stanza." Sorrise il reverendo. Il suo viso aveva un che di spettrale in quella silente atmosfera.

"D'accordo, se lo dici tu..." farfugliò Connor, inquietato. "Allora io torno a dormire." Detto questo, quasi corse, talmente che accelerò il passo in direzione della stanzetta da cui era uscito.

Si infilò davvero nel letto di Satyria, stringendola più forte che poteva, accompagnato da un suo mugolio assonnato.

Decise di non pensare a nulla, lasciandosi guidare da nient'altro che i regolari respiri della sua amica.

L'itinerario verso il villaggio di Araumi del giorno seguente non durò a lungo. Come sempre, Isaac, Connor e Satyria camminarono per circa tre ore in direzione nord-ovest tra sentieri immersi nella natura più pura, con poche soste volte a riposare e rifocillarsi.

Lungo il tragitto li circondavano metri e metri di prati sconfinati dall'erba alta, oltre i quali il cielo allietava la vista di ciascuno con le sue delicate sfumature mattutine. Di tanto in tanto, il sentiero ghiaioso si restringeva al passaggio tra zone boscose più fitte, dove i versi delle più disparate specie animali come scoiattoli, grilli, volatili o piccoli predatori si intensificavano.

I tre giunsero assieme a uno sbocco che segnava il termine di una di queste zone, al di là del quale videro con la consueta meraviglia negli occhi la spiaggia alla base del villaggio collinare estendersi davanti a loro.

Il mare accarezzava la battigia attraverso la danza sinuosa delle sue flebili onde, la superficie cristallina rifletteva i raggi d'oro del sole che si gettavano in picchiata nell'acqua, come a volerla trapassare. Oltre la sabbia grigia, verso ovest, una strada ricurva e in salita parallela ad alcune capanne in rovina si inoltrava nella vegetazione, conducendo verso nord, ove sorgeva il villaggio vero e proprio, in prossimità di un crinale ai piedi della svettante catena montuosa che lo sormontava.

Connor e Satyria furono affascinati da quella bellezza naturale. I loro occhioni rapiti in quel momento mostravano tutta l'innocente gioia tipica della loro età. Avvertirono la pulsione a divertirsi, giocare e sfrenarsi sulla spiaggia, dimenticando ogni cosa e lasciando spazio solo ai sentimenti più vividi e autentici nei loro cuori.

Ciò fu in parte realizzato, poiché, come sempre accadeva nelle loro frequenti visite ad Araumi, Padre Isaac concesse loro di restare lì a rilassarsi, mentre lui salì verso il villaggio a fare visita a qualcuno, come affermava ogni volta.

Raccomandò comunque loro di eseguire qualche allenamento corporeo di base mentre era via, così da prepararsi all'apprendimento del Kaika che avrebbero iniziato in breve tempo.

Connor lo guardò risalire il sentiero di terra, il dubbio scolpito nei suoi occhi giallini come la sabbia che calpestava in quel momento. Si era sempre chiesto dov'era che andasse e perché non voleva che lo seguissero.

Intrinsecamente, pensava che li stesse proteggendo entrambi da qualcosa, una realtà sinistra e pericolosa. Gli tornò alla mente quella porta, l'ingresso che il suo tutore non voleva lasciargli valicare e che stuzzicava la sua curiosità, impaurendolo al contempo.

"Chissà dov'è che va ogni volta il padre, eh, Satyria?" la butto lì alla compagna.

Lei si limitò a fare spallucce e ridacchiare, già proiettata verso il divertimento e la spensieratezza.

"Non saprei." rispose con la calma che la contraddistingueva. "Ci sarà qualche famiglia a cui concede aiuti, magari qualche malato. D'altronde, è questo che fa Padre Isaac: aiuta gli altri. Sia quelli che vengono da lui, sia quelli che trova nei suoi viaggi. Per me è bello accompagnarlo."

Satyria andava orgogliosa della nomea positiva dell'uomo con cui viveva. Anche se non aveva mai avuto una sua famiglia, il fatto che la persona che l'aveva di fatto presa in adozione fosse buona la riempiva di felicità. La faceva sentire riscattata, una ragazza con un suo valore riflesso in quello dei suoi cari.

"Io penso sia una scocciatura, invece." borbottò Connor, a cui non piaceva l'alone di mistero che circondava il padre. Lo considerava una mancanza di fiducia nei suoi confronti, nonostante potesse anche essere per il loro bene. "Però sono contento di poter giocare con te in un posto bello come questo." aggiunse, calando il capo con aria di cruccio.

Satyria arrossì a quelle parole.

Era raro sentirgliele pronunciare, sebbene lei avvertisse ogni giorno anche solo in alcuni suoi gesti l'affetto che provava per lei.

Lo sentiva le volte in cui, sopraffatto dai suoi brutti ricordi, Connor la stringeva di notte. Si sentiva privilegiata per quegli sporadici atteggiamento rivolti verso di lei. E sentire quei sentimenti tradursi in parole concrete le scaldava il cuore più di ogni altra cosa.

"Scusate, ho sentito la vostra conversazione per caso..."

una voce tenue e delicata li sorprese alle spalle. Il suo tono era piuttosto gentile, quasi in eccesso.

Connor e Satyria si voltarono e videro una ragazza minuta e piuttosto alta per la sua età simile alla loro, con capelli indaco tipici degli Araumi acconciati in due piccoli codini alti alle estremità opposte della testa.

In braccio teneva stretto un fagotto con un bimbo di più o meno un anno.

"Mi presento, sono Akira Araumi. Se vi va, potrei parlarvi di ciò che il vostro tutore fa al Villaggio." Sorrise con dolcezza.

"Che bella..." pensò subito Satyria alla sua visione.

Qualcosa nel suo portamento eretto e nella premura con cui teneva in braccio il bimbo conferiva a quella ragazzina un'aura speciale, ai suoi occhi. Era come se in lei fosse racchiusa tutta la gentilezza che mancava al prossimo. La stessa sensazione che aveva quando guardava Padre Isaac.

Le persone come loro, con quella magnanimità che traspariva anche solo dallo sguardo o dall'aspetto, rappresentavano una rarità.

Connor dal canto suo restò cinico, pervaso da un'aria di diffidenza come suo solito. "Sei una abitante di Araumi?" Intuì dai suoi colori eloquenti. "Sai qualcosa su Padre Isaac e il suo legame con questo posto? Parla." grugnì.

"Connor!" lo riprese Satyria. "Non è educato parlare così agli estranei, specie se si offrono di aiutarci. Perdonalo... Akira, giusto? È un caso perso."

"Bah, non ho mai visto il senso nel-" tentò di difendersi il ragazzo, ma un'occhiataccia dell'amica gli fece intendere che era il momento di tacere.

Satyria gli faceva paura certe volte.

Akira ridacchiò, imitata dal piccolo tra le sue braccia che fu contagiato dal suono delle sue risate.

"Tranquilli, è normale diffidare, mi sono inserita di colpo senza avvisare. È che vedendovi da lontano insieme a quell'uomo mi è salita la curiosità! E poi, Nozomu si esalta sempre quando si trova in compagnia, è davvero socievole!" disse con un'armonia tale da coinvolgere anche i due interlocutori, come fosse una violinista che cattura l'animo di chi ascolta le note della sua melodia soave e rilassante.

"Lui è Nozomu? Che carino!" Satyria gli accarezzò la guancia con un dito, cosa che il pargoletto parve apprezzare poiché rise e le afferrò con occhioni curiosi la falange superiore. "È tuo fratello?" aggiunse, mentre Nozomu accoglieva anche il timido tentativo di interazione di Connor, mordendogli il dito e facendolo imprecare.

"No, ma è come se lo fosse. La sua famiglia mi lascia giocare con lui il pomeriggio e spesso mi fermo a cena da loro. Sono brava gente." rispose Akira.

"Devono proprio esserlo..." sussurrò Satyria.

Ammirava sempre coloro che accoglievano il prossimo tra le loro mura nonostante non condividessero legami di sangue. Era un gesto che racchiudeva bontà pura, e le permetteva di credere che qualcosa di buono ci fosse ancora in alcune persone.

"D'accordo, saltiamo i preamboli e arriviamo al dunque, miss beatitudine tra i boschi." intervenne con la solita eleganza innata Connor. "Cos'ha a che fare Padre Isaac con il villaggio di Araumi?" domandò, diretto.

Akira si grattò il mento e assunse un'aria riflessiva. I suoi occhi, già dal taglio lungo e dolce, si assottigliarono ancor di più.

"Beh, quelle che conosco io sono più che altro voci di passaggio tra gli abitanti del posto." cominciò. Connor e Satyria ascoltavano col fiato sospeso. "Stando a quanto ho sentito, il vostro amico si reca sempre alla casa isolata su alla collina nella zona più in alto del villaggio, defilata anche rispetto al lungo sentiero che passa tra i monti. Pare che in quella capanna un tempo vivesse una ragazza solitaria che non si mostrava spesso in pubblico, ma la cosa strana erano i suoi capelli: del nostro stesso colore, ma macchiati di verde." spiegò la giovane, sorprendendo i due ascoltatori. Nozomu parve agitarsi tra le sue braccia, così con un leggero strattone lo calmò un po'. "Io però non capisco come si possa discriminare qualcuno solo da un fattore estetico... Fatto sta che questa ragazza, credo si chiamasse Tsuki, aveva degli allievi, uno dei quali non proveniva da Araumi."

"Capelli con macchie verdi..." Satyria collegò subito quello strano dettaglio all'aspetto di Padre Isaac.

"Che cosa successe? E cos'ha a che fare con il Padre?" fece Connor.

Il volto di Akira si ombrò alquanto. Ciò che rivelò in seguito sconvolse entrambi i compagni cresciuti in abbazia.

"Tsuki Araumi morì insieme a due suoi allievi, mentre l'altro, quello proveniente da un altro clan, sparì. Forse fu proprio lui a ucciderla, ma il perché rimane un mistero... Molte persone hanno proposto le teorie più cattive su di lui. A me sembra solo una storia triste ed è per questo che evito quella casa più che posso. Il vostro maestro però fa visita a quel luogo ogni volta che viene qui, come se volesse rendergli omaggio. O come se stesse cercando qualcosa tra quei resti desolati. Risposte, forse."

"Risposte? E a cosa? Non ci ha mai parlato di niente al riguardo..." mugugnò Satyria.

Avvertiva un forte senso di pesantezza per quella storia tragica legata al suo amato tutore. In più, sapere che teneva dei segreti con lei e Connor la demoralizzava non poco. Lei considerava la fiducia verso i propri cari la base stessa del legame che li univa. Odiava il fatto che potesse venir meno.

A Connor, udendo quelle criptiche parole, venne ancora in mente la stanza chiusa a chiave nel corridoio degli alloggi, all'abbazia.

Lo studio di Padre Isaac. Chissà cosa conteneva al suo interno. Forse proprio quelle risposte riguardo la ragazza dai capelli chiazzati di verde come i suoi.

"Non so cosa lui speri di trovare tra le macerie di una capanna abbandonata su un colle, ma una cosa è certa sull'uomo con cui vivete." Akira abbassò il capo, intristita, mentre Nozomu iniziava a sonnecchiare sul suo petto. "Ogni volta che mi è capitato di vederlo tornare di sfuggita, il suo viso mi è sembrato sempre più segnato dalla disperazione."

In seguito, quando Padre Isaac fu tornato sulla spiaggia alla base del villaggio di Araumi, Connor e Satyria salutarono Akira e il fagotto che teneva sempre tra le braccia, augurando a entrambi la migliore sorte. Il reverendo ringraziò a sua volta con calore la giovane dalla chioma indaco per aver fatto compagnia ai suoi allievi mentre lo aspettavano, oltre a scusarsi per l'attesa.

Connor, curioso, sbirciò sotto il copricapo a cilindro che il padre indossava per valutarne l'espressione. Proprio come aveva asserito Akira, per quanto in quel momento cercasse di nasconderlo con un gaio sorriso, nei suoi occhi castani sfumati di verde risiedeva il demone del profondo disagio che provava.

Una radicata disperazione mascherata fin troppo bene da quel viso gentile, positivo e disponibile. Rimase affascinato da quell'immensa forza di volontà che leggeva nell'uomo alto davanti a lui, e insieme sentì l'irrefrenabile desiderio di soddisfare la sua curiostà riguardo i suoi segreti.

Doveva entrare in quello studio, in un modo o nell'altro.

Satyria era brava a muoversi di soppiatto, spesso nei boschi attorno alla loro abbazia lo prendeva di sorpresa quando giocavano a guardie e ladri, e a nascondino era praticamente introvabile nei suoi turni di nascondersi. Forse avrebbe accettato di aiutarlo, d'altronde anche sul suo volto vedeva ardere la voglia di far luce sulle ombre di Padre Isaac.

"Connor, Satyria, andiamo." L'omone li richiamò a sé con garbo, tendendo una grande mano rassicurante e callosa. "Domani vi aspetta un importante addestramento, sarebbe meglio che riposaste per bene a casa. Cerchiamo di tornare prima che faccia buio." Sorrise.

Entrambi annuirono e lo seguirono, scambiandosi un ultimo cenno di affetto con Akira, la quale si incamminò lungo l'esteso litorale accarezzato dalle salmastre e tiepide acque del mare, fino a svanire gradualmente all'orizzonte, di spalle.

Sul terroso sentiero di ritorno, abbracciato dai boschi e dalla natura, tra i tre prese ad aleggiare un prolungato silenzio che li cullava assieme al canto dei grilli mescolato a quello degli usignoli nascosti tra le frasche e i rami, in alto. I raggi solari del primo pomeriggio si insinuavano nelle fessure tra i tronchi, schiarendo in parte i loro vestiti e scaldando loro lembi di pelle.

Connor osservava apprensivo la larga schiena del padre guidarli verso casa, scambiandosi di tanto in tanto delle occhiate rapide con Satyria. Avrebbe voluto provare a parlargli di ciò che Akira aveva raccontato, ma non trovava il modo adatto per introdurre l'argomento, dunque si ritrovava sempre a posticipare, grattandosi con nervosismo la nuca sino a incresparne i ciuffi lisci e cadenti.

"Tenete il passo, ragazzi, so che siete stanchi ma resistete almeno fino a casa. Poi, riposerete." Isaac parve captare la titubanza nei loro movimenti, e li redarguì coi consueti toni placidi. "Domani inizierete ad apprendere il Kaika, siete contenti?"

Satyria fu convinta di intravedere un sorriso malinconico allungarsi sul suo profilo, che poteva scrutare da dietro.

"Padre Isaac." Infine fu lei a decidersi.

Voleva parlargli prima ancora di provare a introdursi nel suo studio. Connor la squadrò in cagnesco, ma lei lo ignorò.

"Mh?" mugugnò l'uomo.

"E-ecco, mi chiedevo cosa significasse per lei quella cas-" la domanda di Satyria fu interrotta all'improvviso da altre voci sovrapposte piuttosto squillanti provenire da alcuni metri di fronte a loro, sul sentiero di terra battuta.

"Per l'ultima volta, signor non mi pettino perché sono sbarazzino, smettila di insistere, l'ho vinto io quell'incontro di allenamento stamattina." sbottò quello che sembrava un ragazzo, rivolto a un suo coetaneo.

"Ma chiudi il becco, corvo spelacchiato, quello sgambetto da terra te lo sei scordato? Era una chiara contromossa da maestro." replicò l'altro, in tono più strascicato, ma comunque dalla musicalità infantile.

"Non vale se l'avversario si gira perché ha vinto, testa dura! Glielo dica, maestro Fujiwara!"

"Il vecchio potrà anche darti ragione, ma ciò che conta in battaglia è la scaltrezza. Io sono il classico tipo d'uomo che sa cosa fare e quando farlo."

Connor e Satyria rimasero straniti da quella bizzarra conversazione, e fecero guizzare i loro capi oltre la spalla del loro tutore, per vedere di chi si trattasse.

Furono piuttosto sorpresi di vedere un trio simile a quello che loro componevano con Padre Isaac: due ragazzi che continuavano a battibeccare e fissarsi a vicenda con sprezzo erano preceduti da un uomo rassicurante, vestito con un polveroso e largo kimono verde bottiglia e dalla chioma ondulata color miele.

Uno dei ragazzi, con un cespuglio azzurro sulla testa come capelli, puntò i suoi taglienti occhi del colore del cielo verso di loro, vagamente incuriosito.

L'altro, dal crine corvino e gli occhi scurissimi, lo imitò un attimo dopo.

Sia Satyria che Connor aggrottarono la fronte.

I due terzetti si passarono accanto per appena un secondo, bofonchiando dei buon pomeriggio di circostanza. Ma, in quella frazione di tempo minuscola, accadde qualcosa di sconvolgente, che scosse nel profondo le due guide dei gruppi.

Non appena il Padre e l'uomo in kimono furono l'uno parallelo all'altro, entrambi avvertirono una sorta di enorme scossa che solo loro riuscirono a percepire.

Padre Isaac sentì con chiarezza che qualcosa lo stava abbandonando, qualcosa che lo accompagnava ormai da anni. E questa entità stava transitando, si rese conto, nell'uomo in kimono che per un istante era passato accanto a lui.

A sua volta, quest'ultimo percepì il passaggio, e reagì piegandosi per un attimo in avanti, arrestando la sua avanzata, così come Isaac. In quel secondo che passò, fu come se milioni di anni avessero attraversato lo spazio infinitesimale che divideva i due.

"Maestra..."

Connor credette di aver udito queste parole morire sulle labbra del signore in kimono ancor prima di divenire un richiamo disperato.

Quando lo superò, voltò lo sguardo verso Padre Isaac, e per qualche motivo la sua postura gli sembrò più leggera, più dritta. Quasi gli parve di leggere sul suo viso un insperato sollievo.

Si girò ancora, come Satyria, verso i tre che li avevano oltrepassati, ma stavano già sparendo tra la vegetazione, oltre una lieve curva a sinistra.

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