Capitolo 125

Antonio si rigirava la lettera tra le mani, rileggendo a tratti ciò che vi era scritto con sguardo spento negli occhi castani privi di luce. Ciò che spesso aveva temuto nel corso di quegli ultimi anni, dopo aver conosciuto la ragazza che gli aveva inviato quel messaggio, ora si stava avverando.

Sul pezzo di carta c'erano solamente delle coordinate appartenenti a un posto vicino Dismal, in cui ora l'uomo si trovava, e la firma del mittente.

Dorothy Goover.

Nel momento stesso in cui l'aveva incontrata, anni prima, nella testa di Antonio era immediatamente balzata l'immagine di sua madre. Milly. Erano due gocce d'acqua.

La colpa, feroce, si era fatta largo al suo interno, un senso di oppressione che con tanta fatica aveva soppresso nei meandri più profondi di sé stesso in seguito alla guerra in cui combatté. E non solo. Le battaglie al fronte, i soldati Guardians periti per la sua lama non erano altro che lo strato superficiale di un'orrida massa composta di orrori che come una malattia era cresciuta dentro di lui, minacciosa.

Ciò che aveva commesso al servizio dei ribelli dello Shihaiken circa quattordici anni prima era terribile, e l'omicidio dei genitori di Dorothy era stato solo uno degli atti peggiori. Non tanto per la gravità del crimine, quanto per il vuoto indescrivibile che aveva provocato in lui.

Per le sensazioni che mai prima di allora aveva provato, scaturite dal suo incontro breve ma più intenso del previsto con Milly Goover.

"Sei arrivato." Una voce roca, colma d'astio, lo sorprese alle spalle, nel largo cortile fatiscente di una vecchia abitazione crollata decenni prima.

Le erbacce infestavano il perimetro della zona, costituito da quattro isolette di aiuole anch'esse rovinate dal tempo e dall'incuria, d'un amaro verde scuro. Dove i due si trovavano l'uno dirimpetto all'altra, in piedi, l'asfalto brullo sferragliava sotto al sole cocente di mezzogiorno.

Antonio si voltò verso Dorothy e la guardò negli occhi. Erano tristi, notò. Dubitavano, chiedevano spiegazioni ma allo stesso modo erano schiavi di una rabbia a lungo inespressa. E proprio per questo, ancora più radicata e violenta.

Solo guardare il suo viso, identico a quello della madre di cui l'aveva privata, lo condusse a ricordare ogni dettaglio di quella grigia giornata dove parte della sua moralità morì senza possibilità di ritorno.

Le due figure rese oscure dalla penombra scaturita dai raggi solari erano immobili davanti a una piccola abitazione isolata, cinta da muretti che contornavano un grazioso giardino. Le loro vesti lunghe svolazzavano al ritmo del vento e gli sguardi duri nonché stanchi per il viaggio erano dischiusi, fissi di fronte a loro.

Avevano affrontato un itinerario per giungere fino alla zona più esterna della cittadina di Dismal, dove erano stanziate villette e abitazioni fuori mano occupate da persone più abbienti rispetto alla media del posto, per svolgere un compito assegnato loro dal generale dell'Esercito Shihaiken in persona: Sendai Masamune. In quella casa vivevano i bersagli che erano stati mandati a eliminare.

"È questo il posto? Accidenti, sembrava non si arrivasse più! Ho proprio voglia di sgranchirmi i muscoli!" Il più alto e grosso del duo, un energumeno avvolto dalla manta grigia, si abbassò il cappuccio mostrando i suoi ondulati capelli biondo scuro che cascavano sul collo spesso e venoso.

"Jansen, a dire il vero vorrei che mi lasciassi questo compito." replicò il più basso, dalla pelle olivastra e gli occhi vispi. "Il generale Masamune ha affidato a me l'incarico, dopotutto. Tu dovevi solo accompagnarmi."

"Che palle che sei, Santos!" sbuffò col suo vocione Jansen Dolberg. "Almeno vedi di fare un lavoro pulito, questi qui non dovrebbero essere novellini da due soldi. Soprattutto la donna." avvisò.

"Donna?" chiese Antonio, accigliato. "Pensavo che fosse un solo bersaglio, il generale non ha mai accennato a una donna."

Il compagno d'armi lo fissò con un'espressione caratterizzata da un marcato cipiglio, il ghigno sprezzante che mai abbandonava il suo mascellone squadrato. "Forse l'ha omesso perché conosceva la tua natura da mollaccione nei confronti dell'altro sesso. Lo sanno tutti che sei un pervertito della peggior risma. A ogni modo, i bersagli in questione sono membri di una famiglia che vive allegra in questa zona appartata dai bassifondi di Dismal, i Goover. Ryoga, il marito, faceva parte delle nostre fila pochi anni fa, poi ha conosciuto sua moglie Milly, una Guardian dell'esercito, se n'è innamorato e ha disertato per vivere il suo sogno con lei." prese a spiegare.

"Goover è il cognome di lei immagino, un'ottima copertura per non farsi trovare." intuì Antonio.

"Già." confermò Jansen. "E inoltre pare abbiano una figlia, lei non devi ucciderla se non ti va. Anche se così la priveresti dei genitori e finirebbe per strada con lo stato di guerra in corso."

Antonio calò il capo, pensieroso. La missione iniziava a pesargli non poco, ma se Masamune gliel'aveva assegnata significava che era una faccenda importante. Evidentemente, Ryoga possedeva informazioni segrete oltre a essere un disertore, forse sulle posizioni di alcuni punti di rifornimento, accampamenti o altro. Andava eliminato per essere certi che non le divulgasse.

Era per la causa. Per la libertà del luogo in cui era cresciuto, e per garantire un futuro luminoso ai suoi legami. A Takeshi, Saito e Karasu. Questo si ripeteva nella testa mentre muoveva pesanti passi verso la porticina del cancello d'ingresso, incastrato tra i muretti di contorno.

"Tu resta qui, farò presto." si limitò a dire.

"Cerca di non combinare casini." mugugnò il gigante alle sue spalle.

Oltrepassato il cancello e il vialetto che divideva in due la parte anteriore del cortile, ai lati dei quali diverse ordinate coltivazioni di girasoli disposte simmetricamente tra loro fiorivano, rallegrando tutto l'ambiente, Antonio si ritrovò dinanzi alla porta d'ingresso e bussò.

Il suo intento era eliminare subito chiunque avrebbe aperto per poi passare a chi si trovava all'interno sfruttando il fattore sorpresa, ma quando oltre l'uscio di casa si ritrovò di fronte quella donna tutto mutò in un battito di ciglia.

I capelli bianchi e raccolti in una coda incorniciavano un viso non più giovanile come quando era adolescente, ma comunque radioso e affascinante nella sua semplicità. Gli occhi d'oro penetravano fin dentro l'anima, quasi decifrandola con la loro naturale empatia. Indossava una maglietta a mezze maniche leggera e casalinga, che avvalorava i suoi fianchi armoniosi e le gambe slanciate.

Antonio ne rimase ammaliato a prima vista.

"Buongiorno... Desidera?" chiese Milly, un po' titubante.

La voce più melodiosa che il samurai avesse mai udito. Era materna e semplice, ma anche molto musicale.

"I-io..." farfugliò Antonio. "Penso che lei sappia per conto di chi vengo a farle visita." sospirò infine, ben conscio del fatto che non avrebbe mai potuto evitare la sorte di quella donna. Se non lui, ci avrebbe pensato qualcun altro. E sarebbe stato di certo più indelicato.

Milly socchiuse le palpebre sulle quali troneggiavano lunghe ciglia innevate. Sembrava rassegnata, come se si aspettasse un risvolto del genere prima o poi. Che li trovassero, nonostante fossero fuggiti in un sobborgo sperduto e abbandonato da tutti, persino dal governo, senza nemmeno dichiarare la loro residenza per diventare autentici fantasmi.

E infatti, a discapito di queste accortezze, erano stati scovati.

"Prima di fare ciò che devi, vorrei chiederti di entrare." Iniziò a dargli del tu. "C'è un favore che dovrei chiederti, come ultima volontà."

Antonio aggrottò la fronte, spiazzato, ma la forza che lesse nello sguardo della donna lo convinse a concederle ciò che chiedeva. Dopotutto, era sul punto di morire, perché non avrebbe dovuto quantomeno ascoltarla?

Jansen lo osservò con sgomento mentre entrava in casa, insieme alla signora Goover. "Bah, vorrà un caffè prima di eseguire il compito?" ipotizzò. "Non mi sembra il momento, però..."

L'interno della casupola era rustico e molto accogliente. Le pareti erano quasi tutte in legno, così come lo scricchiolante pavimento; pochi piacevoli spifferi di vento tiepido penetravano dalla finestrella con davanzale, in fondo al salotto che succedeva l'ingresso, con piantine di gerani appoggiate su di esso a rallegrare l'atmosfera familiare. Un tavolino era posto proprio sotto uno di quei vasi e Milly invitò Antonio ad accomodarsi lì, con un gesto rapido del braccio.

Anche le sue movenze, le lievi smorfie del suo viso, l'armonia dei movimenti trasmettevano nell'uomo una nostalgia soverchiante, che gli schiacciava l'animo con il suo dolce peso.

Vedeva in lei qualcosa che non aveva mai avuto, sebbene in quel momento gli sfuggisse di che si trattasse.

Si sedette sulla sedia cigolante, imitato poi dalla donna. Ora che la guardava in volto, con l'accenno di sorriso che anche in quella disperata situazione ornava il suo volto luminoso conferendole delle lievi fossette ai lati delle labbra, Antonio si rese conto che non doveva avere più di trentacinque o trentasei anni. Lui era di una ventina d'anni piu giovane, eppure quella donna gli faceva un effetto unico, mai sentito prima.

Pensò in quel momento che non aveva mai avuto una madre, o quantomeno non era mai stato in grado di conoscerla. La sola famiglia che aveva erano il maestro Fujiwara e i suoi tre compagni d'armi.

Milly Goover risvegliava in lui un bisogno che non sapeva di possedere. Una sorta di volontà di essere protetto, la ricerca di un affetto che gli era sempre stato estraneo.

Un groppo gli si formò in gola senza che potesse contenerlo, seppure si contenesse visto dall'esterno.

"Dunque, ciò di cui volevo parlarti, ehm..." Milly lo fissò con aria interrogativa nei suoi grandi occhi, come a voler chiedergli qualcosa.

"Oh, mi chiamo Antonio." Capì lui.

"Antonio." ripeté Milly. Era quello il nome di chi l'avrebbe uccisa. "Ciò che volevo chiederti riguarda mia figlia. Dorothy."

"Non intendo uccidere una bambina, può stare tranquilla." Per qualche ragione Antonio continuava a darle del lei.

"Non è solo questo." proseguì Milly, sbrigativa. "Se lei fosse privata dei suoi genitori, senza nessun altro tutore, con la guerra è probabile che finirebbe per strada, a vivere di stenti. Dismal è già di suo abbandonata a sé stessa... Vorrei chiederti perlomeno di garantirle un posto in cui vivere felice, circondata da persone che le vogliono bene. È il mio unico desiderio."

Adesso Antonio riusciva a perscrutare il tremolio sul labbro inferiore di Milly, così come sulla sua mascella. Non era solo preoccupazione, capì. Era paura. Non voleva morire, temeva quel destino, ma lo nascondeva in maniera quasi impeccabile.

"Farò sì che Dorothy abbia una vita normale, cercherò un buon orfanotrofio nelle vicinanze per lei subito dopo..."

Subito dopo averti uccisa, stava per dire. Una frase crudele quanto veritiera. Era davvero giusto compiere atti del genere per la causa? Per liberarsi dal giogo dei Guardians? Non li rendeva uguali a loro, compiere azioni del genere?

Forse avrebbe dovuto lasciarlo fare a Dolberg. Ma ormai era lì, e doveva assumersi le sue responsabilità. Non per mostrarsi forte agli occhi del collega o altro, ma per questione di principio. Non avrebbe permesso inoltre che qualcun altro si fosse preso quel compito, adempiendo a esso magari in maniera ben peggiore di come avrebbe fatto lui.

Se si fosse rifiutato, inoltre, o avesse tentato di salvare quella donna, sarebbe potuto anche sembrare un tradimento. E avrebbe passato guai dai quali nemmeno Fujiwara avrebbe potuto difenderlo.

"Te ne sono grata." Milly continuò a guardarlo negli occhi. Lo trafiggevano con più efficacia di qualsiasi lama. Riflettevano le sue insicurezze su quella situazione forte e chiaro, gli sussurravano che era soltanto un ragazzo che stava eseguendo un compito più grande di lui. Quasi lo biasimavano. "Mio marito tornerà a breve a casa." aggiunse la donna.

"Aspetta, Summer, non correre così veloce!"

"Forza, Dorothy, prova a prendermi! Corri!"

In quel momento, si udirono grida e risate dal giardinetto oltre il davanzale, sul retro della casa: la piccola Dorothy correva tra i luminosi girasoli, mentre con le sue gambette tozze stava a stento dietro a una ragazzina un po' più grande con capelli arancioni acconciati in due treccine posteriori. Una sua amica.

"Fate piano, bambine!" le richiamò Milly, la voce un po' tremolante.

"Sì!" rispose per entrambe Summer.

Per un attimo, gli occhioni dorati di Dorothy incontrarono curiosi quelli castani di Antonio.

Lui distolse lo sguardo, e così facendo notò una foto sul davanzale accanto a un vaso di gerani, dove erano ritratti tutti e tre i membri della famiglia. Un'allegra bambina era a cavalcioni sulle spalle larghe di un uomo dai capelli bianchi tirati all'indietro e un viso squadrato molto paternale, con una barbetta irsuta sul mento. Doveva essere lui, Ryoga.

"Non vedrà nulla." tranquillizzò il ragazzo.

Non specificando se si riferisse a Ryoga, al suo ritorno, oppure a Dorothy.

Un accenno di sorriso aleggiò sul viso di Milly, prima che si alzasse. "Allora seguimi di là." affermò, eloquente. "E ricorda la promessa."

"Quando giuro qualcosa, mantengo sempre la parola." rispose Antonio, il capo basso.

Ciò che era in procinto di fare non lo avrebbe mai dimenticato. Questo pensava, mentre osservava la schiena di Milly allontanarsi oltre il corridoio sulla destra, senza quasi trovare il coraggio di seguirla.

Somber e Kojiro avanzavano lungo una radura verdeggiante e silenziosa, illuminata in parte dai raggi che fendevano i rami sopra le loro teste, chiazzando di giallino i loro capelli.

Il ragazzo seguiva il leader dei ribelli da qualche ora, a ritmo di marcia costante e sostenuto alternato a tratti percorsi di scatto.

Doveva, come il compagno d'armi aveva detto quando Somber era stato invitato a unirsi a lui, occuparsi di una faccenda che aveva a che fare con l'indebolire le linee nemiche in vista della battaglia al fronte di Haru, che sarebbe stata a dir poco decisiva per le sorti della guerra, essendo in palio la capitale del Continente centrale nonché fonte cospicua di rifornimenti.

In particolare, avrebbero dovuto intercettare una persona, un utilizzatore di Kaika. La sua assenza sarebbe stata determinante per il buon esito dello scontro imminente coi Guardians.

Somber sbuffò, scostando con il gomito l'ennesimo ramoscello appuntito e scacciando un'insistente zanzara dall'orecchio. "Allora, quanto manca?" domandò, col suo tono ermetico.

"La fretta è cattiva consigliera, caro Somber." canticchiò di rimando Kojiro, senza voltarsi verso di lui, gli occhi serrati che guardavano dritti dinanzi a sé. "Ormai non manca comunque tanto tragitto. Una volta superata questa piccola radura, dovremo percorrere poche miglia prima della destinazione. Ci siamo quasi." concluse la frase con voce trepidante, quasi a pregustare qualcosa che gli avrebbe procurato immenso piacere.

In tutta risposta, Somber emise un lieve grugnito. Non si trovava bene a camminare sotto gli alberi per lungo tempo. Lui stava bene in alto, ad ammirare il cielo, perso nei suoi pensieri nell'infinità di quel tenue azzurro.

"Posso chiederti una cosa?" chiese a un tratto mentre un cerbiatto, al di là di alcuni cespugli sulla destra, voltava il collo di scatto verso di lui, zampettando poi lontano, intimorito dalle loro figure umane.

"Mh?" squittì Kojiro.

"Mi sono sempre domandato perché tu faccia tutto questo. Per quale motivo tu abbia deciso di guidare dei ribelli." Somber lo scrutò a fondo, come spesso aveva fatto. Ma per quanto si sforzasse non era mai in grado di guardare attraverso quella patina di neutralità, di normalità ostentata che rendeva il suo leader illeggibile. Ordinario, tanto da risultare sospetto alla lunga.

Kojiro parve pensarci un po', tastandosi il mento con le dita e assumendo un'aria esageratamente riflessiva. Il suo atteggiamento ludico era un altro fattore che celava i pericoli che in realtà quell'uomo enigmatico rappresentava.

"Sai, caro Somber, si dice che il mondo si divide in lupi, pecore e cani da guardia. I primi divorano le seconde, che a loro volta sono protette dai terzi. Tu cosa senti di essere, se posso chiedere?"

Il ragazzo rimase confuso, riflettendo su quelle parole. "Non saprei, c'è stato un periodo in cui avrei risposto un lupo, senza pensarci troppo. Adesso mi piacerebbe dire di rappresentare il cane da guardia, ma in tutta onestà non credo che proteggere gli altri si addica a me. Credo di sentirmi più a mio agio senza essere classificato." affermò, scrollando le spalle.

"È proprio da te una risposta simile, non c'è che dire, Somber." ridacchiò l'altro. "Ma vedi, per quanto mi riguarda, rispondendo alla tua domanda, non mi sento nessuna delle tre cose e tantomeno mi rivedo come non classificabile. Ciò che invece voglio, è diventare il pastore, che osserva tutto da lontano, in totale controllo del suo territorio. Colui che detiene il vero potere."

Per un attimo, Somber intravide di sfuggita un ghigno sinistro allargare la guancia che stava scrutando da dietro. Forse qualcosa riusciva a leggerla in quell'uomo, qualcosa che derivava dal potere schiacciante di cui disponeva per natura.

Una smisurata ambizione.

"Dunque, le cose stanno così?"

Dorothy, dirimpetto ad Antonio, aveva appena terminato di udire il racconto di quest'ultimo riguardo le circostanze che l'avevano condotto ad assassinare i suoi genitori.

Aveva deciso di ascoltarlo, di concedergli quantomeno una possibilità di spiegarsi, in nome del legame che da lungo tempo condividevano. Era stata una scelta sofferta, maturata già dopo tormentate riflessioni durante il tragitto fino a Dismal, il luogo in cui lo spadaccino del sud aveva compiuto quell'atto orrendo.

Sentire cosa Antonio aveva da raccontarle, si era detta Dorothy, era ciò che avrebbe di certo fatto Alex, sempre capace di sopprimere gli estremismi altrui nei conflitti, sempre equilibrato e ben disposto. Forse, cercare di assomigliare a lui in queste decisioni l'avrebbe resa una persona più indulgente, pacata. Meno accecata dall'odio, con maggior razionalità.

La rabbia per l'uomo davanti a lei continuava a divampare dentro di sé, eppure la soffocava a forza, per tentare di salvare qualcosa per cui probabilmente valeva la pena lottare. Dorothy non intendeva gettare al vento ogni suo legame senza dialogo. Antonio meritava almeno di fornire la sua versione dei fatti.

"Sì, è così che è andata, Dorothy. Uccidere Ryoga e Milly era un ordine da cui non potevo esimermi. Non cercherò di trovare scusanti per quello di cui ti ho privata, non sarebbe giusto. Questa è la pura verità." disse Antonio, senza lasciare per un attimo gli occhi socchiusi della ragazza, addolorati e combattuti.

"Ho vissuto un inferno a causa di quel gesto, è vero, e ancora provo rabbia per questo. Per la mia infanzia, la mia vita rubata." Dorothy avanzò di un passo, le pistole che rimanevano rinfoderate sotto al giacchetto rosso fuoco. "Però..." Si morse un labbro, pensando di star commettendo un errore, forse. Ma in una situazione come quella non esistevano soluzioni perfette.

"Però è anche vero che ho costruito nuovi legami e sono diventata più forte, anno dopo anno, insieme a loro. Per me le persone che ho adesso sono tutto ciò che possiedo, e nel tempo, mi rendo conto, anche se non hanno del tutto soppiantato la vendetta, l'hanno di sicuro mitigata."

"Dorothy, tu..." Antonio la fissò, catturato dal dilemma che leggeva sul suo viso.

"Anche tu fai parte di questi legami, Antonio." Lo sguardo della giovane pistolera era scolpito in quello dell'ex samurai, legato a esso da un invisibile filo ardente come fiamme. "Se non mi hai mai detto niente, se non ne hai avuto il coraggio, è perché tenevi a me, giusto? E al ricordo dell'incontro con mia madre. Non volevi rovinare il nostro rapporto. È così, vero?"

L'espressione divenuta speranzosa sul viso di Dorothy mostrava tutta la sua buona volontà verso colui che era stato un vero e proprio maestro per lei, quasi al pari di Fujiwara Taiyo. Una persona importante e per cui, nonostante tutto, provava affetto. Se si fosse trattato di un estraneo, o di un Vulture come Jansen Dolberg che aveva affrontato nel Continente orientale, non avrebbe esitato un attimo a ucciderlo. Ma in quel caso era diverso.

Aveva bisogno di sentirsi dire da lui che fosse come aveva ipotizzato, che si fosse pentito delle sue azioni passate, e volesse a sua volta lottare per provare a ricominciare.

"Per tutti questi anni, Dorothy, ho espiato ogni crimine commesso durante la guerra. Ma vedere te, uguale a Milly, forte e determinata come lei, mi ha fatto sentire come se qualcuno volesse offrirmi un'occasione per farlo sul serio. Non avrei mai pensato che l'orfanotrofio a cui ti avevo affidata sarebbe crollato dopo un bombardamento, non avresti dovuto vivere un'infanzia orribile come la tua. E per questo, io ti chiedo perdono." Antonio continuò a fissarla e lei non distolse mai gli occhi, mantenendo vivo quel contatto rovente e teso.

Dorothy si avvicinò, e tese le mani verso di lui, esitante, tremante nel gesto. Ma lo fece. Afferrò quelle dell'uomo che aveva ucciso i suoi genitori, e lo guardò dritto negli occhi, sorridendo.

"Allora io, Antonio, ti perdono." disse, bianca come un angelo nel suo sorriso scaturito dal dolore, dal graduale superamento di un odio a lungo radicato dentro di lei.

"Dorothy..." L'uomo ricambiò d'istinto il sorriso.

Ma non riuscì a dir nulla.

Lo sguardo di Dorothy si tramutò in una smorfia d'orrore nel momento in cui vide, come sbucata dal nulla, la lama di una spada fuoriuscire dal petto sanguinante di un Antonio incredulo.

Il corpo dello spadaccino crollò al suolo dopo uno schiamazzo, gli occhi spiritati per il trauma improvviso, rivelando colui che l'aveva trafitto da dietro.

Nakajima Kojiro.

"Ma salve, cara Dorothy Goover!" esordì, gaio, mentre una pozza di sangue appartenente ad Antonio iniziava a sgorgare sul terreno. "Ho interrotto qualcosa di toccante, per caso?"

Per alcuni secondi, Dorothy non riuscì a connettere. Guardava Kojiro, poi Antonio, in preda a una sorta di trance. In seguito, con la coda dell'occhio notò la presenza di qualcun altro, dietro il leader ribelle, con lo stesso sguardo sgomento che aveva lei, sorpreso da quello spettacolo che non si sarebbe aspettato.

Gli occhi di Somber erano irriconoscibili per lei, anche chiazzati di verde.

Continuava a fissarlo, chiedendosi se lui sapesse, se fosse venuto sin lì con l'obiettivo di uccidere lei e Antonio. Se fosse stato lui a intercettare la lettera inviata a quest'ultimo. Somber la voleva morta? Il suo più vecchio amico?

Ma in quelle sue iridi incerte avvertiva il dubbio. Magari era stata una sorpresa anche per lui. Dorothy lo sperava con tutta sé stessa, forse stupidamente.

A un tratto, una scintilla parve scattare in lei, e la sua attenzione volò verso il corpo esanime ma ancora in vita di Antonio. Tentò fulminea di curarlo con i suoi poteri. Ma la vista di un fiotto di sangue davanti a lei in seguito a un repentino montante di spada la costrinse a fermarsi.

Kojiro era stato rapidissimo: le mani di Dorothy erano state tranciate di netto con un taglio dalla velocità incalcolabile.

La ragazza sgranò le palpebre, orripilata.

"Bene, bene... abbiamo fatto risultato pieno, sembra. Due utilizzatori di Kaika nemici in uno. Una bella scocciatura in meno!" esclamò Kojiro, la spada insanguinata tesa lungo il fianco. "Somber, ora mi servi tu. Vieni qui e finiscila." Le penetranti gemme grigie dell'uomo apparivano dischiuse in un'espressione che si sarebbe potuta definire spettrale. "Uccidi Dorothy."

Somber, ancora attonito, si avvicinò piano a un'ansimante e dolorante Dorothy, logorata dal sangue che continuava a uscire a fiotti dai polsi dei quali si potevano distinguere i tendini e la carne viva. I due si guardarono negli occhi, mentre Antonio esalava gli ultimi respiri, ormai prossimo alla morte.

"S-Somber..." Ora dalle orbite vacue della ragazza iniziavano a scorrere le prime lacrime di disperazione. Non per il dolore che provava o per quella traumatica situazione, ma per il fatto che fosse proprio lui a compiere quell'atto, il ragazzo con cui era cresciuta, con il quale aveva condiviso il vuoto di un'esistenza senza significato, così come il riscatto che avevano ottenuto insieme. La persona che forse più comprendeva la sua anima al mondo.

Il giovane pareva immobilizzato, il viso segnato della ragazza che conosceva da una vita era uno spettacolo insostenibile.

Sollevò la spada, indeciso. Kojiro lo stava mettendo alla prova nel più crudele dei modi. Pensò a Soyo, che forse non avrebbe mai più rivisto se si fosse rifiutato. A Emily e Takao, i suoi primi allievi, giovani e rampanti come lui e i suoi amici anni prima.

A Peter, Alex e Dorothy.

Loro brillavano più di ogni altra cosa nei suoi ricordi. Nonostante tutto, era ancora così. Ma non voleva rinunciare nemmeno alla ragazza che amava e ai suoi nuovi legami.

Non voleva scegliere.

Nel frattempo, la mano si muoveva solo mossa dall'istinto, ormai Somber aveva abbandonato la ragione poiché, febbrile, non lo avrebbe condotto da nessuna parte, lo sapeva. Il suo cuore era diviso a metà.

Dorothy aveva chiuso gli occhi, aspettando la fine. Non sarebbe riuscita a fuggire e non ne aveva la forza. Forse era positivo che fosse proprio Somber a finirla. Quantomeno, avrebbe fatto in fretta.

Il colpo giunse.

Dorothy aprì gli occhi. E vide la Mugenyoru cozzare conto la lama di un indemoniato Kojiro.

"Non posso... Io non ucciderò la mia più cara amica!" Somber tendeva i muscoli più che poteva per tenere lontano il nemico.

"Somber...?!" Adesso il pianto di Dorothy iniziava a diventare fragoroso, reduce dalla feroce paura di morire.

"Come sospettavo, non sei mai stato davvero uno dei nostri... Oh, mi sa che la dolce Soyo piangerà quando saprà della tua morte!" Kojiro gli sferrò un calcio nello stomaco con cui allontanò il ragazzo, che scivolò vicino a Dorothy.

"Kurai Ryoki!" esclamò di getto Somber, e in una frazione di secondo una grande sfera d'ombra fu eretta intorno ai due compagni, proprio un attimo prima che il taglio dimensionale di Kojiro raggiungesse i loro colli dalla distanza. L'attacco fu assorbito dall'oscurità.

Il guerriero dal crine arancio si avvicinò alla sfera, tentando di tastarla. In un istante, una cospicua parte del suo Kaika fu risucchiata da essa.

"Cavoli, che furbetto." sghignazzò. "Ha intrappolato sé stesso e la sua bella in quella barriera, imponendo la condizione che assorbisse ogni altra energia nelle vicinanze. Nemmeno un attacco dimensionale riuscirebbe a scalfirla ed entrare al suo interno, è probabile che verrebbe assorbito non appena io provassi a scagliarlo." Kojiro si voltò, scrollando le spalle. "Anche solo restare qui mi priverebbe di ogni energia in pochissimo tempo. Che vuoi farci, vorrà dire che dovrò andarmene! Qualcosa almeno l'ho ottenuta. Ho eliminato un nemico e smascherato un traditore."

I suoi occhi virarono verso il corpo immobile di Antonio Santos, a pancia in giù.

"Se oserà presentarsi, Somber perirà insieme ai suoi compagni sul campo di battaglia, a Haru." Detto questo, Kojiro si dileguò in un'unica distorsione spaziale, sparendo altrove.

La quiete tornò sull'ambiente circostante, mentre la sfera oscura in cui si trovavano Dorothy e Somber emetteva un sordo e costante ronzio, in quel paesaggio desolato.

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