Come irrompere nei pensieri


"Per il nome di Greyce cuore di ghiaccio, l'ammazzastreghe, il conquistatore di anime, colui che ci ha salvati dal male."

Si tratta di guardarsi alle spalle.

La porta sbatte, mentre i miei stivali urtano contro qualcosa provocando un tonfo sordo. È un grosso vaso d'argilla che barcolla in cerchi concentrici. Lo fermo con la mano.

Il vento agita le tende rosse. Sono di stoffa spessa, ruvida, intrise di polvere che mi rimane sui guanti bianchi. L'odore è sempre rose e rosmarino, la vista è sempre dalla finestrella, sul precipizio.

Il fiume è centinaia di metri più in basso, come una linea zigzagante, e l'unico segno che non sia completamente ghiacciato sono i riflessi che scivolano, uno sopra l'altro.

All'orizzonte si estende la foresta, interrotta solamente dalla montagna gemella che s'erge fino a toccare le nuvole. Un mosaico di bianco ghiaccio e pietra cenerina.

C'è il letto, le lenzuola sono riverse a terra e il loro colore candido ora è grigio; c'è l'armadio, che di diverso ha solo il fatto di essere completamente vuoto, spalancato.

Mi fermo davanti allo specchio. Incorniciato d'oro s'innalza dal pavimento e arriva fino alla punta della mia testa. Non c'era. Anche l'uomo che vedo, non c'era. Non c'erano quegli occhi profondi da sembrare quasi vuoti e non c'era la divisa della guardia reale, ricoperta di stemmi e sigilli.

Se ci penso non riesco quasi a ricordare il ragazzino nell'armatura color platino che ero. Un sorriso di malinconia sboccia sulle mie labbra, che si piegano prima un po' su, e poi in giù. Non c'è più nulla qui.

Noto una macchiolina sul vetro, per questo tolgo il guanto e la gratto con la punta del pollice. Noto anche che così facendo l'ho incrinato. Stacco il dito. Una ragnatela di crepe s'allarga avvolgendo il mio petto. Sembra sia sul punto di frantumarsi, cosa che mi provoca un senso di inquietudine e che mi porta a posare il palmo all'altezza del cuore.

Deglutisco. E dando le spalle, convengo che è solo un riflesso.

Frullio d'ali o fruscio di passi, che da oltre la porticina di legno seminascosta dall'armadio, attira la mia attenzione.

Mi avvicino lentamente e per un attimo, penso a come agire. Se decido di avventarmi contro qualsiasi cosa si trovi dall'altro lato, potrei fare dei danni. Se busso, chiunque ci sia saprà che sono qui.

Non sono più ai tempi delle spie all'arco dell'ombra. Non sono più in presenza di bestie tentacolari divine e nemmeno di esseri oscuri provenienti dall'oltretomba.

È solo una porta.

Preso da un istinto irrefrenabile, busso. Il suono è soave e fragrante, come il profumo del pane appena sfornato. Quella delizia che si respirava nella casetta nel bosco degli scoiattoli.

Lei viveva lì, era la casa di sua nonna. Quando lavoravo come guida e lestofante a tempo perso vicino al ponte di Goronahalamhall, passavo a trovarla tutti i giorni. Erano i giorni migliori, erano i giorni spesi in riva allo Yosehamhall, nel prato di margherite rosate, distanti dai suoni e dal caos del centro e del porto.

Rimembro il suo sorriso baciato dal sole che mi faceva tanto impazzire di gioia.

La ricordo minuta, dal viso delicato, due occhi smeraldini e capelli color rame che teneva raccolti in una treccia. Se li scioglieva si mescolavano coi miei neri, quando rotolavamo uno nelle braccia dell'altra.

La porta ruota silenziosa. Mi saluta. Il vestito è verde. Sta sorridendo, proprio come faceva un tempo. Le unghie sono rosse, lunghe.

Sbircio oltre, so perfettamente che sulla destra c'è una grande finestra che sta sempre aperta per sentire il cinguettio degli uccellini, in fondo un piccolo baule con qualche vestito e sulla sinistra il grande letto con le lenzuola azzurre e la coperta rossa.

Avevo dormito lì una volta soltanto. Quella notte mi ero svegliato di soprassalto, avevo visto la luna piena e avevo preso paura, credendo fosse la morte a guardarmi dall'alto. Mi ero alzato ed ero andato nudo al centro della stanza. Ricordo il verso dei gufi e il rumore che il silenzio aveva fatto nella mia testa. Ero stato così finché lei non mi aveva preso per le spalle, mi aveva stretto a sé e mi aveva trascinato sul letto.

Sento la sua mano nella mia. Non sono più fermo sulla soglia. Fuori c'è il paesaggio surreale della foresta intricata di umidità e frinire di cicale, dentro ci siamo noi, lei che mi circonda con le braccia e posa la sua testa sul mio petto.

«Dove» sussurra.

«Dove siamo?», ripeto e aggiungo. «Non dovrebbe esistere più questo posto».

Ricordo il fuoco che ardeva.

«Dove sei stato?», dice.

«Lontano».

«Ti sei dimenticato di me».

«No», dico, ma nel farlo mi rendo conto di non riconoscerla.

La credevo più bassa.

I suoi occhi si fissano nei miei senza che uno dei due debba sollevare lo sguardo.

«Non mi ami più», mormora, improvvisamente ricordo il perché, come uno schiaffo in pieno volto, nel momento in cui posa le mani sul mio petto e schiaccia.

Sento come un risucchio a quell'altezza e quando lei fa un passo indietro, tra i suoi palmi, una farfalla pulsa di luce rossa come il sangue. È tutto reale e doloroso, eppure, nella lucidità della mia mente, sono certo si tratti di una pallida traccia del passato. Di quando lei mi rubò il cuore, di come lo rinchiuse tra le dita di una mano, e di come con l'altra, mi trascinò via.

La porta che oltrepassiamo sembra intagliata nel cristallo. Una parete, mille specchi. Mille immagini di me e di lei.

Del giovane in armatura color platino, dai capelli lunghi e selvaggi come la notte, dalla pelle color avorio e la spada puntata contro il collo della ragazza minuta dal sorriso innocente e delicato, nei cui occhi profondi balena il significato dell'odio alla fine della corsa, sulla cui punta delle dita scintille cremisi saettano tra i capelli mossi da un vento furioso, impalpabile. Siamo l'eroe e la strega di cui tutti parlano e hanno sempre parlato. Siamo la determinazione e il maleficio. Il bene e il male che si abbracciano tentando di uccidersi.

«È questo che siamo sempre stati, non è vero?», la sento parlare. Mi rendo conto che è andata avanti, lungo il tunnel di cristallo.

Continua, il suo tono s'indurisce, «Siamo i tuoi ricordi e la verità che essi ti hanno conferito col tempo. L'ammazzastreghe, hanno detto... signore del bene e protettore del regno. Da cosa, Gris?»

«Ciò che forse dimentichi, strega», sibilo, mentre avverto una nuova forza farsi strada da qualche parte, dentro di me.

Sollevo lentamente il capo a ispezionare i riflessi «è che sei stata tu, a fingerti innamorata di me. Per te il mio cuore è sempre stato il primo obiettivo e perché? Ogni cuore è potere, ogni frammento è un passo in più verso i nostri sogni e i sogni sono parte integrante di noi. Perché mi hai chiamato qui, ora, in questo luogo di inganno e menzogna? Forse, per rinfacciarmi ciò che ho fatto? Dopo che tu mi tradisti, lasciandomi con una mano vuota e l'altra appoggiata a un petto sanguinante?» sputo le ultime parole con veemenza.

Come se lo avessi annunciato, il successivo istante corrisponde a una fitta profondissima nel mio petto. La ferita è ancora aperta.

Tutti questi anni ed è ancora lucida, grondante di dolore. Sto soffrendo. Ho sempre sofferto, per questo.

La sua presa sulla mia mano le si rivolta contro quando le piego il polso e la spingo contro la parete, finché non la sento gemere. «Sei contenta, strega?», le grido in faccia.

Ha un collo sottile e fragile. Lo ha sempre avuto, ma non avevo mai pensato fosse talmente fragile da poterlo frantumare nel mio pugno.

Ora lo sento. E schiaccio. «Le tue lacrime sono inutili! Ogni tua parola è irrilevante! E ogni tuo sguardo», ringhio mentre cerco le sue pupille, «Invano!»

«Lasciami».

«Lasciami».

Non la mollo.

Non lascerò la presa finché non vedrò la luce di quegli occhi smettere di riflettersi nei miei.

Le sue mani tremano. Si sollevano e s'ingarbugliano in quell'ammasso di capelli sciolti, che viene scostato.

Si scopre il suo cuore, covo in cui ogni maltolto da sempre viene custodito. Un tondo d'un pallore mortale, in cui non scorrono gemme di ghiaccio, né palpitano farfalle di fuoco. Il mio odio è improvvisamente vuoto.

Odio.

Quale parola tremenda per una vita passata nell'agonia.

In un istante, mi sembra di essere in mille altri luoghi.

Sento premere qualcosa contro la mia schiena. È l'alabarda di quel comandante che ci aveva sorpresi nella notte di luna piena. Io l'avevo ucciso senza che lui potesse fare altrettanto. Si era arrabbiato per questo, ma non era mai tornato.

E le voci nelle mie orecchie sono quelle dei predicatori Gh'na, che volevano giustiziarci per negromanzia.

La cicatrice degli artigli di Ark'atungh è tornata a bruciare, dopo che mi aveva marchiato la spalla, mentre gli mozzavo la gola e mi proclamavo Signore del Fiume.

Vogliono vendetta.

Tutti hanno sempre desiderato vendetta e nella dimora del Dio del Silenzio, ognuno esige la propria parte.

La mia presa su di lei si allenta.

Sto soffocando e da qualche parte del mio animo, mi chiedo cosa stia realmente accadendo. Eppure continuo a parlare e a comportarmi come se nulla fosse. «Anche tu vuoi la vendetta?» dico, stringendola a me.

Non riesco più a farle del male.

È un fuscello leggero.

Per un minuto, si limita a rimanermi abbracciata. «Abbiamo giocato con il fuoco, Gris. Siamo arrivati fino in fondo e lì ci siamo fermati. Siamo rimasti a contemplare la perfezione del nostro mondo, dal ciglio di un precipizio mortale, affascinati da quanto fosse perfetto, senza staccare gli occhi dalle tenebre che ci lambivano gli arti e ci trascinavano via, mettendoci l'uno contro l'altra». Mi prende la mano e la posiziona sul mio petto.

La sua voce è atona. «Hai gridato contro di me chiamandomi traditrice, ho acceso un fuoco e ho sussurrato il tuo nome per tutta la notte, sperando che l'ira degli dei si abbattesse su di te, ma ora basta, ti prego».

Nei suoi occhi scorgo una sorta di timore, che scompare non appena ricambia lo sguardo.

Riprende, «Sei tu colui che è uscito vincitore, eletto, scelto, acclamato, eppure non sei soddisfatto. Il mio cuore», la sua voce diventa flebile e nel mentre s'allunga a scostare le ciocche di capelli che m'incorniciano il volto e scendono sul petto, su quel tondo che, è il luogo ove si cela ogni bottino, ogni conquista.

Nei riflessi sulle pareti della grotta, seguo la scena e non posso fare a meno di meravigliarmi.

Il mio cuore è come una matassa intricata, di caldi, di freddi, di odori e sensazioni. Come radici e dita, che s'intrecciano tra loro, tra la sabbia di un deserto, l'aria frizzante, la pietra porosa, l'acqua gelata e un ritmo di mille tamburi.

Una musica cacofonica e disordinata che, a essere sinceri, non avevo mai sentito prima.

Lei è sorpresa, confusa.

Dispiaciuta.

«Quanti ne hai presi, Gris? Quanti te ne servivano per essere soddisfatto?», mormora.

Sembra voler aggiungere qualcos'altro, ma non lo fa. Deposita tra le mie mani la farfallina, poi, estrae dal groviglio una gemma azzurra e fredda che mi lascia una sensazione di frizzante sulla pelle, quando esce da me, per tornare in lei.

I riflessi nella grotta di cristallo si spengono.

«Qui e ora, il nostro amore termina», dice con un sospiro.

«Amore», dico, «cos'è l'amore? Non so cos'è l'amore».

Restiamo abbracciati a lungo. Quando restavamo abbracciati in quel modo, lei mi accarezzava il mento, e poi ci baciavamo. Seguivamo sempre gli stessi passi e l'abitudine, aveva preso il controllo.

Nessuna abitudine per noi, ora.

Non provo nulla nel vederla arretrare, senza saluti, senza commiati.

Le voci si spengono.

Eravamo davvero solo noi due e tutta quella paura che avevo avvertito, ora non c'è più. Non c'è più nulla.

L'uscita dalla caverna mi strappa il fiato. Luce. Una scossa parte dalla punta della nuca e arriva fino ai piedi.

Mi sento le membra intorpidite e stanche. Il sole è basso, sono come cieco. Siamo ancora all'alba. O forse al tramonto.


Barcollo sul prato fuori dalla grotta, al tramonto di un'era in cui, uscito dal rifugio del mio cuore, brandisco la spada nel nome del mio vero nome. "Greyce", penso, "Greyce e basta". E la getto lontano, nell'erba.

A volte, per poter amare bisogna fare del male a sé stessi, agli altri, a coloro che sentiamo più cari, solo per capire che ci siamo illusi, e che nessuno oltre a noi è davvero importante.

Che siamo solo egoisti e nella lotta per la vita non lasceremo spazio a nessuno.

A nessuno.

A meno che non ci sia nessuna lotta, ma solo la vita.

«Papà!» Mi prende la mano e mi porta all'ombra.

«Hai trovato quello che cercavi?»

«Sì»

«C'era il Dio del silenzio?»

La prendo in braccio.

I suoi capelli rossi mi accarezzano il viso. Le sue dita si attorcigliano nei riccioli della mia barba. C'è fresco lì fuori, ma dentro mi sento bruciare.

Sono le lacrime che si raccolgono attorno a una ferita appena riaperta e fanno male, perché sono salate. «Sì»

«E cosa ti ha detto?»

«Mi ha raccontato una storia»

«Com'è?»

«Non è ancora finita». Slego Njiake, il mio stallone grigio che nitrisce impaziente. Isso in sella Joeyce.

«Avete aspettato tanto», sospiro.

Lei non sembra farci caso, «Quindi dovrai tornare per sapere come va a finire?»

«No».

«Mi dici almeno il pezzo che sai?»

«Mentre torniamo a casa, sì», rispondo. Sprono Njiake al trotto. «Stringiti forte».



"A Joeyce, piccola scintilla, e al suo sorriso, alla sua determinazione, a ciò che ha sempre desiderato dalla vita."



Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top