Sixteen

Rimasero nella sala d'aspetto per due ore, seduti su quelle dannatamente scomode sedie.
Aspettavano, vedendo i minuti scorrere sull'orologio appeso al muro, impotenti e preoccupati.

Ray aveva la mente offuscata dai ricordi di quel posto, dal dolore che ogni ricordo le faceva riaffiorare.
Ci stava seriamente provando a resistere, ma sentiva che non ci sarebbe riuscita ancora per molto.

«I-io... D-devo andare u-un attimo fuori... T-torno subito.» balbettò, alzandosi dalla sedia e dirigendosi a passo spedito verso l'uscita.

Camminando, si rese conto che non sarebbe riuscita ad arrivare fino all'uscita, così deviò alla propria sinistra e salì le scale che conducevano ad un terrazzo, quel terrazzo dove non andava mai nessuno, ma che lei conosceva a memoria.
Quel terrazzo era uno dei pochi ricordi vagamente felici che aveva di quel posto, era il suo piccolo rifugio.

Quando aprì la porta arrugginita e più malandata di quanto si ricordasse, una ventata di aria fresca le invase le narici, facendola respirare nuovamente.

Sospirò di sollievo, quando vide che poco o nulla era cambiato di quel posto.
C'era sempre quel salice piangente, che faceva ricadere alcuni rami sul muretto del terrazzo, e quella panchina di legno, troppo vecchia e malandata per potervisi sedere ancora.

Ray si avvicinò al muretto e vi si appoggiò, guardando in lontananza le luci di San Francisco.
Erano quasi le 11:30 pm, e la ragazza non aveva detto né a Lucinda, né a suo padre che sarebbe uscita. Aveva soltanto lasciato un biglietto.

Ray chiuse gli occhi e si abbandonò ad una melodia che le risuonava in testa, una melodia dolce e tranquilla.
Lasciò che i propri pensieri si dissolvessero, come vapore nell'aria, e si sentì infinitamente meglio.

Quando riaprì gli occhi, la città davanti a sé era rimasta la stessa, forse con qualche luce in meno, ma era sempre lì, ferma, immutabile, eterna.
Ray sapeva benissimo che nulla durasse in eterno, che nulla rimanesse uguale, eppure a volte sperava che certe cose rimanessero immutabili, che non smettessero mai di esistere.
Era una delle sue tante caratteristiche, sperare in qualcosa di impossibile e irrealizzabile.

«Signorina, lei non può stare qui, lo sa?» la voce di un'infermiera la risvegliò, facendola voltare.

Ray vide una ragazza alta, magra, con i capelli biondo scuro tagliati corti, con un camice bianco sopra a dei jeans blu ed una maglia nera con il logo degli AC/DC. Aveva l'aria stanca, ma sembrava simpatica.

Poi le sorrise tristemente, annuendo e sospirando.

La giovane infermiera si guardò attorno, chiuse poi la porta dietro di sé e si avvicinò a Ray.

«Ho un disperato bisogno di fumare, potresti coprirmi per cinque minuti?» le chiese, prendendo con mani tremanti il pacchetto di sigarette e l'accendino dalla tasca posteriore dei jeans.

Normalmente Ray si sarebbe irritata e avrebbe mandato a quel paese chiunque le si trovasse davanti; ma quella volta, vedendo quella ragazza di una manciata di anni in più di lei, annuì, percependo la sua tensione.
In fondo, se lei voleva avvelenarsi un po' con una sigaretta, chi era Ray per impedirglielo? Lei, che si avvelenava con qualcosa di molto più devastante e logorante della nicotina e del catrame di una sigaretta, annuì e continuò a guardare San Francisco in lontananza.

L'infermiera sorrise, riconoscente e sollevata, accese la sigaretta che già teneva tra le labbra e aspirò profondamente una boccata del suo veleno.

«Perché sei qui?» le chiese, più tranquilla e rilassata di prima.

«Con qui intendi qui, sul terrazzo o qui, in ospedale?» chiese lei, sistemandosi una ciocca di capelli ramati dietro l'orecchio.

«Entrambe, in realtà.» ridacchiò lei.

«Quindi, uhm, sono qui, in ospedale, perché una mia...amica, no, cioè, è la cugina di una mia amica...» prese un respiro profondo, «Comunque, è finita al pronto soccorso non so bene per quale motivo, forse un incidente domestico, e io sono venuta qui per fare da supporto a quell'amica che ti ho detto e altri due miei amici.»

«E perché sei qui, sul terrazzo, invece di essere di sotto ad essere di supporto ai tuoi amici?»

«I-io... È una cosa molto personale, sarebbe...disdicevole parlarne ad una sconosciuta.» balbettò, sentendo i suoi demoni ridacchiare nella sua testa.

«Oh, giusto.» disse l'infermiera, avvicinandosi a Ray e tendendole la mano, «Piacere, io sono Kendra.»

Lei rise, alzando gli occhi al cielo, stringendole poi la mano e sussurrando «Ray.» in risposta.

«Non essere tesa e nervosa, non ti mangio mica, sai?» scherzò Kendra, ridendo e prendendo l'ultimo tiro dalla sigaretta.

Buttò poi il mozzicone per terra e lo sfregò con la suola di una scarpa per spegnerlo, lanciandolo poi in un angolo remoto di quel terrazzo altrettanto remoto.

«Dovremmo tornare dentro, non credi?» disse poi a Ray, scuotendola dal suo stato di torpore, e risvegliando le paure che poco prima l'avevano assalita.

Ray rabbrividì immediatamente, al pensiero di dover tornare dentro a quel luogo che aveva ospitato i suoi incubi peggiori, e indietreggiò lentamente, cominciando a tremare.

Kendra si accorse di ciò e si preoccupò, capendo con uno sguardo che tutto ciò che Ray cercava di nascondere stava per assalirla.

«Oppure possiamo rimanere ancora un po' qui, se ti va.» le sussurrò dolcemente Kendra, invitandola a sedersi per terra.

«Grazie, Kendra.» balbettò Ray, riprendendo a respirare più o meno regolarmente.

«I tuoi amici sanno che sei qui?» le chiese poi l'infermiera, mantenendo il tono dolce e rassicurante di prima.

Ray scosse la testa, rispondendo di no.
Da quanto tempo era lì?
Si stavano preoccupando forse?

«Non vuoi che ti vedano in queste condizioni, mh?» le parole di Kendra le arrivarono ovattate alle orecchie, rendendo anche la sua vista più annebbiata.

Ray annuì, cominciando a sentire la testa vorticare.
Kendra se ne accorse e le chiese: «Che cos'hai? Ti senti male?», ma la sua voce arrivò deformata alle orecchie di Ray, facendola rabbrividire.

Delle piccole macchioline nere le riempirono la visione e la testa cominciò a pulsarle, e Ray iniziò a perdere contatto con la realtà.

Sentì Kendra chiamare il suo nome svariate volte, ma non ebbe la forza di risponderle.
Si lasciò andare al turbine di nebbia che le stava avvolgendo i sensi.
Smise di respirare.

Il bip insistente di un macchinario dell'ospedale costrinse Ray ad aprire gli occhi.
Era su un letto bianco e freddo, circondata da muri bianchi e freddi.
L'unico colore era il rosso, il rosso del suo sangue, che dalla vena del suo braccio andava in un tubo, fino ad un macchinario. O forse il contrario?

Sentiva la testa scoppiare e i suoi incubi peggiori riaffiorare.
Non poteva farli tornare, non doveva e non voleva.
Sentì le vene dei propri polsi pulsare insistentemente, come se fossero stati ammanettati al letto.
Strinse i denti, cercando di trattenere urla e singhiozzi.
Cominciò a respirare furiosamente veloce, evitando però di pensare.

«Ray, va tutto bene?» questa volta la voce di Kendra la sentì perfettamente, senza che fosse distorta o altro.

«Lasciami andare.» soffiò Ray, continuando a stringere i denti.

«Ti sei appena ripresa, hai avuto un arresto cardiaco.» la informò un'altra infermiera.

Ray sentì la risata malefica dei propri demoni riecheggiare nella sua testa: stavano tornando.

«Ora però sto bene, quindi posso andarmene.» sentenziò, cercando di mantenere un controllo che a breve avrebbe perso.

«In realtà no, dobbiamo farti ancora degli esami per verificare--»

«Lasciatemi andare!» urlò Ray, interrompendo l'infermiera.

Fortunatamente non era un urlo troppo forte da essere sentito da tutto l'ospedale, ma presto Ray avrebbe perso ogni misura, ogni controllo, e le sue paure e tutto ciò che l'aveva perseguitata per anni l'avrebbero distrutta.

«Ray, calmati, okay? Sono solo degli esami, non ti succederà nulla.» cercò di rassicurarla Kendra, senza successo però.

«Voi non potete saperlo, lasciatemi andare.» singhiozzò, perdendo quel po' di lucidità che le era rimasta.

«Ray?»

Per un momento quella voce le sembrò quella di Michael, ma per fortuna non era così.
Davanti alla porta della stanza dove si trovava Ray, c'era Luke.

«Non dire a nessuno che sono qui.» lo implorò Ray, trovando un po' di conforto negli occhi azzurri del biondo.

Erano di un azzurro così simile a quello degli occhi di sua madre...

«Che cosa è successo?» chiese Luke, entrando nella stanza e avvicinandosi al letto.

«Arresto cardiaco.» tagliò corto Kendra.

«Che ore sono?» chiese Ray, continuando a guardare l'azzurro nelle iridi del biondo.

«È passata mezzanotte. Perché?» rispose lui, guardando il cellulare.

«Dovete lasciarmi andare.» ripeté a Kendra.

«Ray, io non--»

«Ti prego,» la interruppe, «Kendra, ti supplico. Non posso stare qua.» piagnucolò, sentendo la paura crescere ogni secondo di più.

In quel momento entrò un medico, molto giovane, che si avvicinò al letto e scrisse qualcosa sulla cartella di Ray, facendo poi uscire Kendra e l'altra infermiera con un cenno.

Luke intanto era rimasto immobile, appoggiato al muro vicino al letto sul quale giaceva la ragazza.

«Dovete lasciarmi andare.» ripeté per l'ennesima volta Ray, rivolta al dottore.

«Hai avuto un arresto cardiaco, sarai stanca. Ora riposati e a breve arriverà tuo padre che ti porterà a casa.» le disse il dottore, convinto che con queste parole riuscisse a calmarla.

Ma peggiorò soltanto la situazione.

Ray emise un verso gutturale, un urlo disumano, che echeggiò in tutto l'ospedale.
Delle lacrime scure, quasi nere, cominciarono ad uscire dai suoi occhi.
Il sangue nelle sue vene si fece più scuro e la sua pelle più diafana.

Ray strappò via dal proprio corpo ogni ago, tubo e cose varie e scese dal letto, prendendo la proprie cose dal tavolino lì di fianco.
Bucò una delle tante sacche di liquidi vari e ne versò il contenuto sui macchinari della stanza e sul contatore dell'eletricità, facendola saltare in tutto l'ospedale.

Uscì dalla stanza senza preoccuparsi se andava addosso a qualcuno o qualcosa; solo corse, corse fino all'uscita laterale dell'ospedale.

Appena mise piede fuori da quel posto si sentì lievemente meglio.
Si tolse il pezzo di stoffa giallino che le avevano messo addosso le infermiere, e si rivestì con i propri indumenti.

Respirò a pieni polmoni, sentendo la propria testa più leggera.
Fino a quando due fari abbaglianti di una macchina non la costrinsero a socchiudere gli occhi.

Da quella macchina scese l'unica persona che in quel momento avrebbe potuto farle del male.
Quella persona le si avvicinò e la prese per un polso, trascinandola verso la macchina. E lei si lasciò trascinare, sapendo già cosa sarebbe accaduto dopo.

Ray sentì le voci di Luke e Michael, poco distanti da lei, chiamarla e si voltò nella loro direzione, facendo voltare anche colui che la stava trascinando verso l'auto nera.

Gli occhi neri del signor Grey incontrarono dopo anni un azzurro così simile a quello della sua amata.
E Ray sapeva come avrebbe reagito.

«Non dovete mai più avvicinarvi a lei,» ordinò in modo perentorio ai due ragazzi, «e tu a loro.» sibilò l'ultima parte della frase diretta alla ragazza, la quale aveva lo sguardo vacuo e perso nel vuoto.

La fece poi salire in macchina, salendo anche lui sulla vettura e facendola partire per tornare a casa.

Luke e Michael rimasero qualche minuto in silenzio, guardando l'auto nero lucido allontanarsi sempre di più.

Il primo che prese la parola fu Luke.

«Lui chi è?» chiese con voce titubante.

Michael sospirò profondamente, per poi rispondere all'amico.

«Richard Grey, il padre di Ray.»

•••

[A/N]
Sono molto originale nelle note d'autrice, quindi mi scuso per l'ennesima volta per il ritardo.

È stato un capitolo difficile da scrivere, davvero, spero sia venuto almeno decente, perché la mia ragione si rifiutava di andare a ripescare quelle emozioni.
No, non mi va di parlarne, preferisco non pensarci.

Comunque spero che continuiate a seguire la storia, nonostante i miei aggiornamenti ogni morte di papa.
(Non è morto nessun papa oggi, tranquilli, papa Francy è vivo e vegeto.)

La foto non c'entra molto con il capitolo, ma la frase riassume un po' tutto, lol.

Anyway, vi auguro una buona serata.

Alla prossima morte di un papa! #joke

All the love,
C .x

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