Seventeen

Michael e Luke rimasero a guardare la strada lungo la quale l'auto di lusso del signor Grey si era allontanata, portando via Ray.
Erano entrambi confusi, soprattutto Luke.
Perché sia Ray sia suo padre avevano guardato intensamente il colore delle sue iridi azzurre? Cos'avevano di strano? Erano solo dei semplici occhi azzurri, secondo Luke.

Una folata di vento convinse i due ragazzi a rientrare nella sala d'aspetto, e si diressero verso la sedia sulla quale era seduta Cory, la quale stava sonnecchiando, non sopportando più la stanchezza che aveva addosso.

Luke si sedette di fianco a lei e le circondò le spalle con un braccio, stringendola a sé.
La ragazza a quel gesto si accoccolò contro il corpo del biondo, nascondendo il viso nella stoffa della felpa scura di lui.

Michael accennò un sorriso, vedendo lo scambiarsi di quei piccoli ma significativi gesti d'affetto tra il suo migliore amico e Cory.

Rimasero così, a contemplare il silenzio per un bel po' di tempo.
Finché un'infermiera entrò nella sala d'aspetto, annunciando che Hannah si era svegliata.

Non si erano rivolti parola, come al solito d'altronde.
Erano arrivati a casa, scesi dalla macchina, entrati e Ray si era rinchiusa in camera sua, mentre suo padre nel proprio studio.
Lucinda li aveva guardati con uno sguardo triste e dispiaciuto, ma nessuno dei due le aveva rivolto né un'occhiata né una parola.

Ray era sola. Di nuovo.
È strano quanto la solitudine sia tanto rigenerante quanto devastante.

Era sotto il grande piumone caldo, nel suo amato letto, con le cuffie nelle orecchie e la musica che le invadeva la mente.
Spesso faceva così, per evitare i propri pensieri: si metteva gli auricolari e la musica ad un volume alto, e si concentrava solo sulla melodia e sulle parole della canzone. O almeno ci provava, perché a volte i pensieri erano migliaia di volte più forti di qualsiasi volume e di qualsiasi canzone.

Pensava a tutto e a niente, perché non c'era un pensiero fisso nella sua testa, ma bensì un vorticare di pensieri contorti e disconnessi tra di loro.

E poi le note dolci e delicate, impregnate di tristezza, di una bellissima canzone riempirono i sensi di Ray, tranquillizzandola e allo stesso tempo rattristandola.

I preferred it before
We should ring dad more
Lost our house
Hold me close
I stopped by, just to wash my clothes

I know it's me that's supposed to love you
And when I'm home you know I got you
Is there somebody who can watch you?

I know it's me that's supposed to love you
And when I'm home you know I got you
Is there somebody who can love you?

Is there somebody who can watch you?
Is there somebody who can watch you?

Is There Somebody Who Can Watch You, dei The 1975.
Una canzone semplice, quasi banale e corta, per coloro che non sanno ascoltare.
Ma Ray, diamine, lei sì che sapeva ascoltare.
Quella canzone riassumeva tantissime emozioni che a parole sarebbero parecchio difficili da spiegare: l'incedere lento e straziante delle note del pianoforte, la voce un po' graffiata dalla tristezza del cantante, che sembra stia per mettersi a piangere, i lunghi sospiri che prende tra una nota e l'altra... Tutto ciò rendeva quella canzone una delle canzoni più significative nella sua breve intensità.

Poco dopo la fine della canzone, Ray riuscì a chiudere le palpebre e ad avere un sonno tranquillo, per una volta, cullata dagli occhi di sua madre.

«Rimani.» gli sussurrò all'orecchio, stringendolo tra le proprie braccia.

«Sai quanto non vorrei più lasciarti,» gli rispose, strofinando il naso nell'incavo del collo del proprio migliore amico, «ma devo tornare a casa.»

«Voglio tornare anche io a casa.»

«Ti aspetteremo.» lo rassicurò, accarezzandogli la schiena.

Cory era in piedi, di fianco alla valigia di Luke, a guardare i due ragazzi salutarsi.
Era triste per loro, ma sapeva, in cuor suo, che si sarebbero incontrati di nuovo.

Quando sciolsero l'abbraccio, entrambi avevano gli occhi lucidi.
Luke lentamente si avvicinò a Cory, per salutare anche lei.
La abbracciò dolcemente, e lei lasciò che quel contatto colmasse il vuoto che avrebbe sentito di lì a poco.

«Mi mancherai.» gli disse, lasciandosi sfuggire una piccola lacrima.

«A me mancherà la mia felpa.» scherzò lui, facendola ridere.

«Te la posso ridare, se vuoi.»

«Assolutamente no,» rispose lui, stringedola un po' di più, «voglio che tu la tenga e, quando la indosserai, voglio che tu immagini che io ti stia abbracciando, d'accordo?»

«D'accordo, Luke.» annuì Cory, appoggiando l'orecchio al petto di Luke, ascoltando il suo battito cardiaco.

«Ultima chiamata per il volo AU52 per Sydney, Australia. Si invitano i gentili passeggeri ad avviarsi al gate 28.» gracchiò una voce metallica, richiamando l'attenzione dei tre ragazzi.

Cory e Luke sciolsero l'abbraccio, e il biondo prese la propria valigia, per poi camminare verso i gate, lontano da lì.
Si voltò indietro un'ultima volta e, con un cenno della mano, salutò Michael e Cory.

«Vattene, Hemmings, prima di perdere il volo!» gli urlò Michael, facendolo ridacchiare tra una lacrima e l'altra.

Luke camminò senza più voltarsi, fin quando non si sedette al suo posto sull'aereo, di fianco al finestrino.
In quel momento guardò fuori, verso le grandi vetrate dell'aeroporto, e vide un ragazzo tutto vestito di nero con i capelli colorati ed una ragazza un po' bassina con i capelli scuri, che le incorniciavano la pelle diafana, e un paio di occhiali da vista dalla montatura grande.

In quel momento si accorse che, quando sarebbe arrivato a Sydney, si sarebbe rinchiuso in camera sua e avrebbe pianto fino a consumare tutte le lacrime.

E prima che l'aereo partisse, si mise le cuffiette e fece partire la riproduzione casuale.
E quale canzone poteva addirsi meglio ad una situazione del genere di I Miss You dei Blink-182?

Esattamente due settimane dopo, Michael uscì sulla piccola terrazza dell'alloggio nel quale viveva, per fumarsi una sigaretta, con i capelli di un nuovo colore.

Aveva sempre amato il nero, e in quei giorni il suo umore non era dei migliori.
Dan era sempre più insopportabile e lo obbligava a lavorare al locale fino a delle ore improponibili.
Leila lo aveva convinto a fare una piccola vacanza, abbastanza lontano da San Francisco, così da poter lasciare Michael un po' tranquillo.
Ma sarebbero partiti solo due giorni dopo.

«Clifford, enorme testa di cazzo, spegni quella sigaretta e torna dentro!» gli urlò Dan dalla finestra.

Michael, stremato da quella situazione, sbuffò leggermente e spense la sigaretta, per tornare dentro.
Quando arrivò in cucina e vide Dan e Leila seduti al tavolo, entrambi rivolti verso di lui, gli venne un po' d'ansia.

«Ho parlato con Richard, sai?» iniziò Dan, prendendo un sorso di birra dalla bottiglia che teneva in mano, «Sì, il padre della ragazzina che ti scopi.» Michael strinse i pugni, per trattenere la propria rabbia, «Mi ha detto di avvertiti: non provare più ad avvicinarti a sua figlia, altrimenti sono guai.» concluse, alzandosi dalla sedia e passando a fianco del ragazzo, per andare a stravaccarsi sul divano.

«Oh, ancora una cosa.» riprese, voltandosi verso la cucina, «Ha chiamato tua madre, dice di volerti vedere.»

Michael spalancò gli occhi.
Sua madre? Sua madre voleva vederlo?
Dopo tutti gli anni che l'aveva lasciato solo nelle mani di quell'essere viscido e crudele di Dan, voleva vederlo?

Leila, vedendo lo sguardo allucinato del ragazzo, gli si avvicinò e lo invitò a sedersi, sussurrandogli di non far esplodere la sua rabbia.
Michael annuì, serrando i denti e socchiudendo gli occhi, per poi sedersi su una di quelle sedie sgangherate della cucina.

Rimasero in silenzio, finché non sentirono Dan russare rumorosamente.
Allora Leila si sedette di fianco a Michael, gli prese le mani e gli parlò.

«So che è difficile da credere per te, ma tua madre ti vuole bene.» Michael a quelle parole, scosse la testa e sbuffò, «Ciò che ha fatto l'ha fatto perché credeva fosse un bene per te, ti ha allontanato il più possibile da quella situazione per proteggerti. Lei non voleva che tu soffrissi.»

«Eppure ho sofferto lo stesso.» e soffro ancora adesso.

Leila sospirò, accarezzando le mani del ragazzo, seduto al suo fianco.

«Lo so, Michael, e sai che lei non avrebbe voluto tutto ciò.»

Michael abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate.

«Posso chiederti una cosa?» le chiese, e lei annuì, «Perché hai scelto di stare con Dan?»

Lei sorrise amaramente, per poi ridacchiare e raccontare a Michael tutto della sua storia con Dan.

«Quando avevo otto anni, mio padre morì in un incidente d'auto, lasciando me e mio fratello da soli con mia madre. Lei era affetta da una grave malattia e non poteva badare a noi, e dopo la morte di mio padre, cominciò a spegnersi sempre di più, finché non morì anche lei, un anno dopo.» prese un lungo respiro, poi continuò, «Mio fratello Kyle aveva sedici anni, dovette abbandonare la scuola e cominciare a lavorare per mantenerci entrambi. Io avevo nove anni, andavo ancora alle elementari e tornavo sempre a casa da sola. Una sera, lungo una piccola via buia, mentre stavo tornando a casa dopo aver fatto la spesa, due ragazzi mi fermarono e cominciarono a darmi fastidio. A quei tempi ero ancora piccola, non avevo nemmeno dieci anni, e non sapevo cosa volessero da me, così stetti al gioco, finché non iniziarono a toccarmi, e cominciai a piagnucolare per la paura e il dolore.» le tremò la voce per qualche secondo, ma non si fermò, «Dietro di me c'era la porta del retro di un locale, e all'improvviso si aprì, e ne uscì un quarantenne stanco, con un grembiule legato in vita.» sorrise, scuotendo la testa, «Era Dan.» Michael la ascoltava, rapito dal racconto, «Ha mandato via quei due maniaci e mi ha presa con lui. Si è preso cura di me, senza che nessuno glielo chiedesse. Ho smesso di andare a scuola, avevo paura persino di aprire una finestra, parlavo a malapena. Però c'era sempre lui con me. Mi ha sempre protetta da tutto e da tutti. Un giorno però, avevo avuto un incubo, e non volevo più rimanere in quella cittadina del New Jersey, che ormai era diventata un luogo di brutti ricordi e brutte esperienze. Così Dan decise di trasferirsi qui, a San Francisco, lontano dal New Jersey. Mio fratello Kyle non l'ho mai più visto, lui sa solo che vivo qui, e io so che lui vive ancora nel New Jersey. Mi manca, sai? Però non posso tornare nel New Jersey, ho ancora troppa paura di quel posto.» sospirò amaramente, chiudendo gli occhi e concludendo il racconto.

«Quand'è stata la prima volta che... Beh, ehm, tu e Dan...?» chiese Michael, non riuscendo ancora a capire come una ragazza giovane e bella come Leila stesse insieme a Dan.

«La prima volta che ci siamo amati? È stato il giorno del mio diciannovesimo compleanno. Lui aveva quasi quarantanove anni. Sembra assurdo, lo so. In teoria potrebbe essere benissimo mio padre. Però lui mi ha salvata, mi ha protetta, senza che nessuno glielo chiedesse. L'ha fatto perché voleva farlo, e non si è mai sentito obbligato a fare nulla per me: ha sempre e solo fatto tutto ciò che ha fatto, per farmi stare bene. E non lo ringrazierò mai abbastanza.»

Michael capì, e si sentì un idiota per non aver capito prima.

«Quando sei arrivato tu, Dan non voleva che tu lo distraessi dal prendersi cura di me. Non voleva prendersi cura di te, perché non voleva che io mi sentissi esclusa e dimenticata. Ma io l'ho convinto ad accettarti e a prendersi cura anche di te, perché a me sarebbe bastata anche una sola piccolissima briciola del suo amore e sarei stata felice lo stesso.»

Michael sorrise, «Come fai ad amarlo così tanto?»

«Come potrei non farlo? Lui è stato il mio salvatore, il mio custode, l'unica persona che tenesse a me incondizionatamente. Gli devo tutta la mia vita.»

Hannah non voleva più uscire di casa.
Non voleva vedere più nessuno, non era nemmeno riuscita ad andare a salutare Luke all'aeroporto, e adesso continuava ad ignorare le sue chiamate, messaggi e quant'altro.
Non voleva che nessuno la vedesse in quello stato, nemmeno Cory o men che meno i suoi genitori.

Odiava essere sempre sola, ma allo stesso tempo non voleva nessuno in mezzo ai piedi.
Voleva poter essere triste o arrabbiata senza dover dare spiegazioni, voleva poter essere accettata per com'era e basta.
Voleva solo che qualcuno le stesse vicino senza chiederle nulla, solo stando lì, senza dirle cosa dovesse e cosa non dovesse fare.
Voleva qualcuno che la amasse davvero, a prescindere dagli sbagli e dagli errori che aveva commesso.

Non mangiava nemmeno più, talmente era schifata da se stessa e dalla vita.

Stava distesa sul letto, avvolta in una calda coperta, a guardare il soffitto.
Qualcuno bussò alla porta e lei sussultò, ma non rispose.

«Hannah, puoi aprire? Sono settimane che sei chiusa in quella stanza.» la rimproverò sua madre, «Dovrai uscire prima o poi.» e se ne andò.

Ecco, Hannah odiava quando qualcuno le parlava così, come se sapesse cosa fosse meglio per lei.
No, gli altri non sapevano nulla di Hannah, non sapevano cosa fosse meglio per lei, nessuno lo sapeva.
O forse una persona sì...

Una sera, poco dopo il tramonto, un ticchettio destò l'attenzione della bionda, intenta ad osservare il cielo che scoloriva, tendendo al blu scuro.
Guardò attentamente la finestra e vide un piccolo oggetto grigio colpire il vetro.

Si alzò in punta di piedi e camminò silenziosamente fino all'altezza della finestra.
Osservò l'esterno e vide un ragazzo in giardino, alto, vestito completamente di blu, con i capelli grigi.
Non l'aveva mai visto, chi poteva mai essere?

Aprì l'anta della finestra e guardò verso di lui, il quale alzò lo sguardo verso di lei.
Aveva due occhi che risucchiavano l'anima, come se fossero due buchi neri.

Hannah rimase ipnotizzata per qualche secondo, poi sbatté le palpebre e sussurrò debolmente: «Chi sei?»

Lui aggrottò le sopracciglia e rispose: «Ti va di scoprirlo con me?»

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