First

20 novembre.
Il giorno del suo compleanno.
Quella mattina Michael odiò più del solito la sua vita.

«Clifford, alza il tuo cazzo di culo e vieni a lavorare, coglione.»

Buongiorno anche a te, Dan. Pensò.

Si alzò dal letto contro la volontà del proprio corpo e si trascinò in bagno.
Non osò nemmeno guardarsi allo specchio quella mattina.
Dopo una bella doccia fredda, Michael si vestì con un paio di skinny jeans neri, una maglietta dei Metallica, una giacca di pelle nera e le solite, vecchie e consumate All Star-Converse nere.

Mentre scendeva le scale per andare al piano di sotto, dove lo stavano aspettando, si passò una mano tra i capelli tinti di rosso, che ormai stavano sbiadendo, trasformandosi in uno strano arancione.
Le occhiaie sotto i suoi occhi erano particolarmente più evidenti quella mattina.
La sua pelle bianchissima era grigiastra quella mattina.
Tutto faceva più schifo del solito quella mattina.

«Michael, che cazzo hai fatto ieri sera, eh, coglione? Sembri un cadavere, porca puttana. Leila, cerca di renderlo meno schifoso.»

Leila, seduta comodamente sull'isola in marmo della cucina, si alzò, andò verso Michael e, con l'aiuto di qualche trucco, ravvivò un po' il volto del ragazzo.
Michael non si mosse, rimase fermo a farsi imbrattare la faccia di fondotinta, anche se non lo sopportava e si sarebbe lavato via dalla faccia quello schifo il prima possibile.

Quando la ragazza finì di truccare il ragazzo, Dan le si avvicinò e le diede una sonora pacca sul sedere.
Dan era un uomo rude, avaro, a volte crudele, ed era il datore di lavoro di Michael, nonché suo tutore legale.
Era in un qualche modo un suo lontano parente, da parte di madre.

Leila era una ragazza di appena venticinque anni, che stava con Dan nonostante lui avesse più del doppio dei suoi anni.
Michael non sapeva se i sentimenti di Leila per Dan fossero veri, ma non erano affari suoi.

Dan e il ragazzo uscirono di casa, che consisteva in un appartamento sudicio e fatiscente all'ultimo piano di un vecchio palazzo, e si diressero al lavoro.
Un lurido, piccolo, buio locale nel centro di San Francisco, California.

Quella mattina, da come Dan era agitato, ci sarebbe stato un cliente importante.

«Vedi di non fare cazzate, brutto bastardo.» disse Dan a Michael, prima di entrare nel locale.

Il ragazzo si limitò ad annuire e a seguirlo dentro.

Alle undici in punto entrò un uomo in giacca e cravatta.
Michael stava, come al solito, lavando e asciugando piatti e bicchieri, quando una ragazza si sedette al bancone e gli chiese un gin tonic.
Lui la servì come se nulla fosse, prima di accorgersi che era insieme al signore in giacca e cravatta.

«Non le serva alcolici. Non ha ancora ventun'anni.» gli disse l'uomo vestito in modo elegante.

La ragazza sbuffò rumorosamente e Michael riprese il bicchiere con l'alcolico.

«Vaffanculo.» sussurrò lei.

«Non sto dicendo a te.» disse a Michael, dato che lui le aveva rivolto un'occhiata interrogativa.

«Acqua tonica.» disse dopo un po'.

E acqua tonica fu.

«Dov'è il proprietario?» chiese l'uomo elegante.

Michael andò nel retro.
Dan era, come al solito, stravaccato sulla sua poltrona con un sigaro in una mano e una bottiglia di birra nell'altra, mentre guardava la televisione.

«Cazzo, è già arrivato?» chiese a Michael.

Il ragazzo annuì.
Dan si alzò di scatto e buttò il sigaro e la birra in un cestino.

«Richard!»

«Dan!» rispose l'uomo in giacca e cravatta.

Cominciarono a parlare come se fossero amici di vecchia data e Michael tornò dietro al bancone a lavare e asciugare piatti e bicchieri.

«Che vita di merda.» sbottò la ragazza dopo un po'.

A chi lo dici. Pensò Michael.

«Ti prego, dammi qualcosa di alcolico. Ho i nervi a fior di pelle.» lo pregò.

Lui, non sapendo cosa fare, la ignorò semplicemente.

«Almeno parlami, dimmi qualcosa, raccontami com'è la tua vita, qualunque cosa.» sospirò la ragazza.

Michael si ritrovò di nuovo senza parole.
Nessuno si era mai interessato alla sua vita, perché una sconosciuta avrebbe dovuto?

«Mi chiamo Michael,» iniziò con la sua voce un po' roca. «vivo qui da dieci anni, lavoro qui da cinque anni e...» sospirò. «...oggi è il mio compleanno.» disse a voce più bassa.

«Tutto qui? Speravo in qualcosa di più complicato e coinvolgente.»

Oh, tu non hai idea di quanto io sia complicato.

«Io sono Rayleigh, meglio Ray, ho diciassette anni, quell'uomo con cui sono venuta qui è mio padre, vivo qui da oggi e sono all'ultimo anno di liceo.»

Michael, nonostante facesse finta di non ascoltarla, non aveva perso nemmeno una singola parola di quello che aveva detto.

«Ti piacciono i Metallica?» gli chiese Ray, indicando la maglietta.

Lui annuì silenziosamente, come sempre.

«Anche a me. Ascolti altre band? Tipo Green Day o AC/DC?»

Michael accennò un sorriso.

«Io adoro i Green Day!» esclamò lei.

Michael la osservò meglio.
Ray aveva i capelli tinti di viola scuro, raccolti in una treccia scomposta, con qualche ciocca che le ricadeva sul viso, gli occhi di un colore strano, un grigio brillante, color argento, con una linea di eye-liner nero attorno, la pelle chiara, ma non come quella di Michael, e il labbro inferiore più spesso di quello superiore.
Indossava un paio di jeans strappati sulle ginocchia, un maglione nero con il logo dei Nirvana e un paio di anfibi neri.
Non si poteva dire che fosse femminile, questo no, però aveva il suo fascino.

Michael fece un cenno al maglione di Ray e lei sgranò gli occhi.

«Ascolti anche i Nirvana? Sul serio? Okay, no, ma dimmi dove vuoi la statua, cazzo!» esclamò, evidentemente eccitata.

Michael rise per la schiettezza della ragazza e anche perché aveva urlato quasi a squarciagola e tutte le persone che c'erano nel locale si erano voltate a guardarla.

Ray si rese conto della figuraccia che aveva appena fatto e nascose il proprio viso dietro le proprie mani, e Michael non poté fare a meno di ridere ancora di più.

«Smettila, cretino. Non è divertente.» disse lei, ridendo però insieme a lui.

Michael capì che quella ragazza gli faceva uno strano effetto.
Sentiva un piacevole calore vicino al cuore e la testa leggera.

«Sei un tipo strano, sai?» gli disse Ray.

Lui fece un'espressione confusa e la ragazza ridacchiò.

«Non parli quasi mai e per esprimerti fai delle facce strane.»

Lui scosse la testa, sorridendo.

Sì, era vero: non parlava quasi mai, non perché non volesse, ma perché non era abituato a parlare con qualcuno.

«Strano, sì, ma hai dei gusti musicali fantastici.» ammise Ray.

Michael fece una specie di inchino rivolto alla ragazza e risero entrambi.
Poi ci fu un lungo periodo di silenzio prima che uno dei due riprendesse la parola.

«Buon compleanno, Mikey.» disse lei, sorridendo, mentre il ragazzo era voltato.

Lui si fermò, irrigidendosi di colpo, sgranò gli occhi e il suo cuore perse qualche battito.
Sentì il calore salirgli alle guance e rimase immobile.
Aveva sentito bene? Lei gli aveva fatto gli auguri di compleanno?
E l'aveva chiamato Mikey?
Sì, non era stata solo un'illusione.
Non era stato uno scherzo della sua mente.

«Quanti anni compi?» gli chiese Ray.

«D-diciannove.» balbettò lui.

«Rayleigh, dobbiamo andare.» disse l'uomo in giacca e cravatta, Richard, ovvero il padre della ragazza.

«Allora... Ciao, Mikey.»

«Ciao, Ray.» rispose lui, voltandosi, per poi accorgersi che lei non c'era già più.

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