Nebbia funebre
Gallia Cisalpina, 222 a.C.
Il manipolo di soldati romani era perfettamente mimetizzato nel bosco che circondava il villaggio fortificato di Medhelan. Nonostante il freddo di quell’alba invernale che divorava le ossa, i legionari stavano immobili, acquattati tra gli alberi secolari.
Quei dodici legionari erano gli unici che Gneo Cornelio Scipione aveva lasciato sul posto. Il condottiero romano aveva fatto finta di togliere l’assedio al villaggio gallico ed era fuggito, col resto dell’esercito, in direzione di Acerrae.
I guerrieri Celti avevano creduto di aver messo in difficoltà le legioni romane e, convinti di un facile successo, uscirono in massa da Medhelan per attaccarli alle spalle, lasciando nel villaggio solo vecchi, donne e bambini.
Marco Azio, il centurione che era stato posto al comando del manipolo, aveva ricevuto l’ordine di penetrare nel villaggio sguarnito e massacrare la popolazione civile.
Osservò uno stormo di corvi sorvolare gracchiando la roccaforte di Medhelan e sogghignò, interpretandolo come un presagio di buon augurio: entro poche ore quegli uccellacci si sarebbero cibati delle spoglie dei loro nemici.
Accertatosi che non ci fossero sentinelle sulle torrette di guardia del castrum, e approfittando della nebbia, che avvolgeva la pianura come un sudario lattiginoso e gelido, Marco Azio guardò i suoi uomini e alzò la mano sinistra.
A quel segnale, i legionari uscirono come furie dal bosco e circondarono il perimetro del villaggio, scavalcando le palizzate di legno.
Tuttavia, la roccaforte di Medhelan sembrava essere stato completamente abbandonata. Nelle capanne non c’era nessuno. Dopo averle perlustrate tutte senza successo, i romani si riunirono al centro del villaggio, dove si ergeva, tetro e minaccioso, un enorme santuario fatto di ossa umane. A presidiare quel luogo terrificante c’era un vecchio druido con la barba e i capelli lunghi e argentei. Indossava una tunica bianca e una cintura di cuoio, alla quale era attaccata una falce dal manico corto e intarsiato di pietre preziose.
«Dov’è la tua gente, vecchio? Diccelo subito o farai una fine orrenda!» urlò Marco Azio nella lingua dei Galli Insubri.
Il vecchio druido non rispose subito. Squadrò i soldati romani con uno sguardo di fuoco, poi allargò le braccia e rovesciò la testa all’indietro, urlando delle parole incomprensibili: «ISS MASS SSARATI SHA MUSHI LIPSHURU RUXISHA LIMNUTI! IZIZANIMMA ILANI RABUTI SHIMA YA DABABI! DINA DINA ALAKTI LIMDA! ALSI KU NUSHI ILANI MUSHITI! IÄ MASS SSARATI ISS MASS SSARATI BA IDS MASS SSARATU!»
I romani scoppiarono a ridere, e alcuni di loro sguainarono i gladii per trafiggere il druido, ma Marco Azio li fermò. Gli abitanti del villaggio stavano riapparendo dalla nebbia, restando immobili e silenziosi a osservare la scena.
Anche il resto dei legionari si accorse di quelli che sembravano fantasmi in sembianze umane, ma non ebbero il tempo di preoccuparsi di loro.
La terra aveva cominciato a ribollire sotto i loro piedi, come se si sciogliesse in una massa putrida e melmosa. Tutt’intorno, con una tonalità crescente, gli abitanti del villaggio intonarono un tenebroso canto di due sole parole: «BUGG-SHASH! BUGG-SHASH! BUGG-SHASH!»
Alcuni romani sprofondarono nella melma fino al ginocchio, mentre da quella stessa melma ribollente affioravano occhi luminescenti, artigli e zanne affilate. In pochi attimi la metà dei legionari venne ridotta in una poltiglia di carne e sangue, tra indicibili urla di dolore e terrore.
Marco Azio restò immobile, con gli occhi sbarrati, solo per un secondo. Il tempo di realizzare che quel vecchio stregone aveva evocato qualche demone del suo maledetto pantheon. Sguainò il gladio e si gettò in quella melma diabolica, facendo segno ai legionari rimasti di seguirlo.
Tranciarono a colpi di spada orrende mani artigliate, bocche zannute che si aprivano in quel fango infernale e globi oculari giallastri che non avevano nulla di umano. Tuttavia, i legionari furono ingoiati dalla melma e sprofondarono sottoterra, precipitando per diverse decine di metri in un budello maleodorante e ritrovandosi in una specie di grande sala naturale, al centro di un dedalo di cunicoli di pietra.
Medhelan era solo la parte in superficie di qualcosa di molto più grande, un regno infernale che i Celti avevano senz'altro realizzato con la magia druidica e con l'aiuto delle loro demoniache divinità.
Sporchi di terra, fango e altri liquami immondi, i legionari si strinsero spalla a spalla, con i gladii puntati davanti a loro.
«Dove siamo finiti, centurione? Che razza di posto è questo?» chiese un giovane milite con voce tremante.
«Non lo so, ragazzo. Forse siamo morti e questo è l'inferno dei Galli...» gli rispose Marco Azio.
Qualcosa stava arrivando nel buio. Qualcosa che emanava una malvagità insostenibile. I romani sentirono le gambe cedere, il forte tremore che li scuoteva fece cadere le armi dalle mani a buona parte di loro. Pregarono che la fine giungesse rapida e indolore, ma quel giorno i loro dei stavano guardando altrove…
***
Gneo Cornelio Scipione giunse trionfante, alla testa delle sue legioni, alle porte di Medhelan. Tra l'avanguardia e la retroguardia del suo esercito sfilavano, a piedi e in catene, centinaia di guerrieri Celti, nudi e con il corpo colorato del blu dei loro colori di guerra e del rosso del sangue che sgorgava dalle ferite ancora aperte.
Scipione si aspettava che il manipolo di legionari a cui aveva dato incarico di sterminare i civili rimasti nel villaggio gli venissero incontro.
Invece inorridì, vedendo ciò che rimaneva dei cadaveri di sei di loro inchiodati sulle palizzate. Uno spettacolo orrendo e inumano.
L'alto ufficiale romano fermò la colonna a meno di cento metri dalle porte di Medhelan e fece convocare Sagur, il gallo senone rinnegato che aveva come consulente personale.
Quando il celta fu al suo cospetto, Scipione lo osservò attentamente prima di parlare.
«Dimmi la verità, Sagur: possibile che dei vecchi, delle donne e dei bambini abbiano potuto compiere una simile atrocità?»
«No signore! Quella non è opera umana! Potete entrare e sterminare l'intera popolazione, ma ti do un consiglio da amico: dai ordine alle tue legioni di non toccare il Santuario delle Ossa! Perché lì sotto giace Colui Che Non Deve Essere Destato!»
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