La strana morte del dottor Lauri

Dopo aver ripulito quel macello nel laboratorio artistico, ci spostammo nell'ufficio del centralinista, che a quell'ora ormai era vuoto.

Lorenz rimase di guardia nella segreteria infermieristica, ad attendere che i pazienti del gruppo Arte del professor Pickman rientrassero dalla chiesa di San Bernardino alle ossa.

Rigoni accese la centralina di collegamento delle videocamere di sorveglianza ed entrò nella memoria della black box. Selezionò la videocamera puntata sul corridoio dei laboratori e cliccò sulla cartella delle registrazioni dell'ultima settimana, impostando la velocità di riproduzione al livello più alto possibile.
«Anche in questo modo ci vorranno delle ore per visionare tutto», disse Rigoni.
«Dobbiamo farlo», rispose la dottoressa.

Accanto a lei sedeva Lauri, visibilmente scosso dopo aver visto i gatti massacrati.  Quando erano stati nel laboratorio lo psichiatra aveva evidenziato le caratteristiche rituali della scena, scattando delle foto anche lui e prendendo appunti su un block notes. Aveva spiegato brevemente chi era Bastet, una antichissima divinità egizia dalle sembianze feline, venerata già a partire dalla prima dinastia. In origine era chiamata Bast, ed era la dea della guerra nel Basso Egitto, la regione del delta del Nilo, prima dell'unificazione delle culture dell'Egitto; nel corso dei secoli assunse caratteristiche meno feroci e più miti e protettive e venne venerata come dea della casa, dei gatti, delle donne, della fertilità e delle nascite. Nessuno studioso era ancora riuscito a capire cosa significasse quel pezzo di papiro ormai noto come le Sei Ingiurie di Bastet, ma ormai era chiaro che il massacro felino era collegato ad esso.

Le registrazioni della videocamera cominciarono a scorrere e tutti si concentrarono sullo schermo del computer.
I primi due giorni non evidenziarono nulla di che, gruppi di pazienti ed educatrici psichiatriche che entravano e uscivano, Pickman che dava indicazioni sul trasporto di pennelli, cavalletti, barattoli di colori e tele da pittura, in una inquadratura si vedeva anche GianMaria Colli che usciva dal laboratorio parlottando con Katia, la violinista.
Scene ordinarie.
L'ultima volta che il laboratorio era stato usato risaliva al pomeriggio di tre giorni prima.

Alle h. 16:42 la dottoressa Margherita Primi faceva uscire un gruppo di pazienti e sembrava voler chiudere la porta, poi la riapriva, dicendo qualcosa a una persona che era ancora dentro. La sollecitava a uscire. Questa persona gettava qualcosa all'interno del laboratorio, infine usciva e finalmente la dottoressa Primi chiudeva la porta col passpartout e se ne andava.

«Ferma lì, Marco!» urlò Giada.
«Chi è quello? Cos'ha gettato nel laboratorio?»
Tutti si avvicinarono allo schermo.
«È un uomo. È di spalle e coperto da altri pazienti che sopraggiungono. Non si vede bene… però sembra Alessandro!»
«Zooma sulla cosa che getta nel laboratorio, per favore».
Rigoni ingrandì e scansionò più volte il dettaglio.

«Èhhh... un saaaacco di teeeeela chiusoooooommmhhhh...» sentenziò il dottor Lauri.
«Un sacco di tela chiuso...» pensò Nicko a voce alta. «Forse i gatti, ancora vivi, erano in quel sacco».
Giada lo guardò, perplessa, poi si rivolse a Rigoni.
«Fai uno screenshot e vai avanti, Marco» disse Giada.
Rigoni eseguì e fece ripartire il tasto PLAY.

Per tutto quel pomeriggio, la notte e il pomeriggio successivo nessuno era entrato nel laboratorio. Erano state fatte delle operazioni di manutenzione sugli ascensori e sul sistema fognario e il corridoio con i laboratori era stato chiuso e isolato.
Le immagini non evidenziarono nulla fino a quando, il pomeriggio del giorno prima, il monitor non indicò le h. 19:00.
«Ferma ferma ferma! Chi è quello?» urlò Giada.
«Sei tu, Nicko! Che stavi facendo?» gli chiese Rigoni.
«Ero sceso a controllare che le porte fossero tutte chiuse prima di terminare il servizio alle 20:00. Il solito giro di routine», rispose l'infermiere.
«E qui, che è successo? Si sono spente tutte le luci, una a una...», constatò Giada.
«Si, non so cosa sia successo. Era come se si fossero fulminate tutte assieme...»
La registrazione infatti era completamente buia a quel punto. Dopo un po' appariva un piccolo fascio di luce.
«Quella è la torcia del mio telefono», disse Nicko, anche se la cosa era piuttosto ovvia.
«Qui stai aprendo proprio la porta di quel laboratorio. Entri. Rimani dentro...» disse Giada, con un tono piuttosto sospettoso.
«Si. Avevo notato il murales. Quello che riproduce lo stile di Haring».

Evitò di dire che quella pittura gli aveva messo i brividi, che aveva sentito dei fruscii sul pavimento, visto l'ombra nera e percepito una marcata sensazione di malvagità in quella stanza.
«Qui stai uscendo. Chiudi la porta in tutta fretta. Sembri agitato. Non avevi notato il sacco?» chiese ancora Giada.
«Assolutamente no. Era buio pesto e la mia attenzione era stata catturata da quel murales».

Sullo schermo, nel buio, apparve un altro piccolo fascio di luce che illuminò all'improvviso la figura di Nicko.
Prima che gli altri parlassero, spiegò.
«Quella è Lea che viene a cercarmi».
All'improvviso, tutte le luci si riaccesero. Si vedeva Lea con la mano sull'interruttore. Dopo un po' entrambi sparirono dall'inquadratura.
«Dunque non erano fulminate!» disse Rigoni. A quel punto tutti mi guardarono con sospetto.
«Vai avanti, Marco», ordinò Giada, concentrandosi sullo schermo.

Niente altro fino a quando sul monitor non apparvero le cifre delle h. 21:00. La porta del laboratorio si aprì di poco dall'interno. Si videro chiaramente due mani maschili armeggiare con un passpartout, poi la porta si richiuse.
Ancora immagini del corridoio deserto.
A mezzanotte in punto un'ombra nera iniziò a fuoriuscire da sotto la porta del laboratorio. All'inizio sembrava del fumo, ma poi...
«Ma che cazzo... Ferma ferma! Torna indietro e rallenta al massimo!» ordinò Giada. Rigoni eseguì.
«Ma che cazzo è quello?»
«È un'ombra che sta assumendo sembianze umane! Guardate! Ma... è possibile che questo video sia un fake?»

«No, non è un fake. Le black box delle videocamere di sorveglianza non possono essere modificate», rispose Rigoni, sovrapponendosi al coro di commenti.
«Èèèèèè... mmmhhhhhh …iiillll faaaaaaantaaaaasssmmaaaaa della Scaaaaalaaaaa… Aaaaaahhhhhrrrhhhh».

Il dottor Lauri cominciò a contorcersi sulla poltroncina, scosso da contrazioni sempre più violente, fino a scivolare sul pavimento.
«Ha una crisi epilettica! Aiutatemi!» urlò Nicko, sfilandosi la cintura di cuoio dai pantaloni e mettendogliene un'estremità ripiegata in bocca, per evitare che ingoiasse la propria lingua.
Rigoni gli bloccò le mani e Giada la testa.
La crisi epilettica era così violenta che non riuscivamo a capire se stesse respirando ancora.

La bocca di Lauri cominciò a schiumare. Una bava  bianca, densa e puzzolente, che continuò a scivolare lungo le guance, sul pavimento, mentre i capillari del viso scoppiavano e gli occhi ruotavano all'interno delle palpebre.
Per tutto il tempo della crisi continuò con quel latrato agghiacciante, fino a quando la crisi non terminò, improvvisamente, così come era iniziata.
Il dottor Lauri non si muoveva più. Non c'era battito. Non c'era respiro.

«È morto!» sentenziò Giada, con gli occhi fuori dalle orbite.
«E non so come sia possibile, ma quella... cosa nella registrazione… era la cosa che aveva visto la notte del T.S.O. alla Scala di Milano. L'apparizione che gli fece perdere l'uso corretto della parola. Lo so perché io c'ero, e la vidi!»

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