La Cosa che non dovrebbe esistere
Il pomeriggio trascorse lento e grigio come il tempo che c'era fuori.
Nicko sbrigò un sacco di lavoro di segreteria arretrato, fece telefonate per fissare nuovi appuntamenti con i pazienti, archiviò cartelle cliniche, ordinò scorte di farmaci.
Alle 19:00 in punto la sua collega di turno, Lea Cassi, gli chiese di scendere nel seminterrato per chiudere le porte dei laboratori creativi, così alle 20:00 se ne sarebbero potuti andare tranquillamente a casa.
Nel seminterrato era buio pesto.
Nicko tentò di accendere le luci, ma appena pigiò sull'interruttore si fulminarono una a una, lasciandolo di nuovo al buio.
Imprecando, accese la torcia del cellulare e iniziò a chiudere a chiave tutte le porte, ma quando entrò nel laboratorio di pittura, uno strano brivido di freddo gli attraversò la schiena.
C'era un murales, a cui i pazienti psichiatrici lavoravano di giorno.
Era una loro versione di un'opera del grande pittore e writer americano Keith Haring.
Per quanto Haring fosse già disturbante di suo, con i suoi omini stilizzati contorti, deformi e caotici, quel murales lo era mille volte di più.
Una sensazione di angoscia e di caos strisciante pervase l’infermiere mentre lo osservava, ma c'era un dettaglio che gli attanagliava le viscere, e non ne capiva il motivo: una rappresentazione della chiesa di San Bernardino alle Ossa, stilizzata in nero, campeggiava giusto al centro del murales e sotto di essa era stata disegnata, con un tratto nervoso, una spirale nera, fittissima e informe, simile a un intestino necrotico raggomitolato su sé stesso.
Più Nicko si soffermava, morbosamente, su quell'immagine, più si sentiva pervadere da un'aura malvagia ed estranea, aliena, una sensazione che non aveva mai provato fino ad allora.
Si girò di scatto verso la parete alla sua destra: era sicuro di aver sentito un fruscio proveniente da quella direzione. La torcia dello smartphone illuminò qualcosa e Nicko provò un brivido di freddo così intenso da fargli rizzare i capelli in testa.
Quello che vide era qualcosa che non poteva esistere nella realtà. Era forse un glitch della stessa realtà, o forse proveniva da una Realtà sconosciuta.
Eppure Nicko la stava guardando negli occhi, in quegli occhi bianchi senza iridi immersi in un’ombra nera come l’inferno, eppure ben definita nel contorno buio della stanza.
Era un’ombra dalle sembianze umanoidi, seduta sul pavimento. Sembrava aspettare, con infinita pazienza e malvagità.
Iniziò a sudare freddo. Mani e gambe furono prese da un tremore incontrollabile, sembravano voler muoversi da sole. Sembravano voler andare in direzione di quell’ombra demoniaca, che lo guardava e attendeva, famelica...
Solo grazie a un immane sforzo di volontà l’infermiere uscì dal laboratorio, sbattendo la porta e cercando con grande fatica di infilare la chiave nella toppa.
Un fascio di luce lo illuminò all'improvviso, mentre una voce alle sue spalle gli fece letteralmente spiccare un balzo.
«Perché sei al buio?»
«Lea! Accidenti! Mi hai fatto prendere un colpo! Le luci si sono fulminate tutte assieme».
«Che strano».
All'improvviso le luci si riaccesero.
Nicko vide Lea con la mano sull'interruttore.
«Ma no, vedi che funzionano?»
Rimase in silenzio, perplesso. Ma non provò nemmeno a dare una spiegazione. Di cose strane gliene erano accadute anche troppe quel giorno.
I tremori erano spariti. Chiuse a chiave il laboratorio di pittura e tornarono di sopra. Era ora di andare, e mettere la parola FINE a quella giornata.
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