03. GOCCIA DI PIOGGIA
VIVIAN
And I say, "Hello Satan, I
I believe it is time to go"
Me and the devil walkin' side by side
Me and the devil walkin' side by side
ME AND THE DEVIL, di Soap&Skin
Non sono pazza.
C'è un motivo, c'è sempre un motivo. Le azioni che gli esseri umani compiono sono sempre frutto di un bisogno più grande, una ragione che ti artiglia la mente, scava nelle tue ossa, prende posto nelle tue membra fino a quando non rendi tua quella causa e a quel punto succede. Succede che potresti ritrovarti le mani sporche di sangue.
Quando siamo piccoli ci viene detto di comportarci bene. Ci danno avvertimenti credendo di poterci controllare, quando nessuno sa della bestia che si nasconde sotto la superficie. Tutti hanno la capacità di fare del mare, di essere cacciatori e non prede.
È più facile essere buoni, che cattivi, ma un mondo senza oscurità sarebbe un mondo noioso.
Babbo Natale non esiste.
Se il nostro legame non fosse stato tanto profondo, forse mi sarei comportata molto peggio. Forse lo avrei ucciso prima.
Le lacrime mi riempiono gli occhi e tutte le scuse montate dal cervello crollano come i muri della mia testa. Osservo attentamente il soffitto della prigione mentre un odore acre mi riempie le narici e il tossicchiare di uno degli agenti giunge alle mie orecchie.
Mi faccio rigirare tra le mani il pacchetto di Marlboro, tentata di prendere un'altra sigaretta.
I miei occhi si spostano su una macchia di muffa in un angolo mentre il piede comincia a traballare a contatto con la parete durante un'attesa straziante.
Il mattino odora di pioggia. È insolito per una città come Los Angeles. Ricordo con precisione i tre giorni in cui ha piovuto tanto da poterlo rimembrare, ma ieri
Ieri il cielo ha pianto con me. Ha abbracciato la mia causa, capito le mie ragioni, visto quello che ho visto io. Si è chiesto chi avesse mai potuto dare vita agli uomini, che di buono hanno portato parole che vengono usate per ferire, armi che vengono utilizzate per combattere.
Il cielo piange ancora. Le sue lacrime rivestono tutto ciò che incontrano, sfaldandosi contro superfici dure che non erano in grado di affrontare.
Sei una goccia di pioggia.
Sono sveglia.
Ho gli occhi aperti, i muscoli consci, il cervello consapevole.
Sono sveglia. Eppure dormo esanime da quando sono stata messa qui, circondata da quattro mura che mi sono amiche, un soffitto che non crolla se urlo.
Perché dovresti urlare?
Perché mi dispiace. Mi dispiace di non aver capito prima, mi dispiace per la me passata che non aveva idea di ciò che avrebbe vissuto, mi dispiace per mia madre, per il mio cuore afflitto, la mia mente bizzarra.
Non per lui, lui se lo meritava.
Aspetto circondata dai pensieri, dialogano tra loro senza produrre suoni. Immagino scenari di un prossimo futuro, scenari di una vita passata.
Immagino fino a quando la porta non si apre, le sbarre scorrono sotto dita callose e un agente non compare sulla soglia.
In mano ha una ciambella. La mastica lentamente senza mai distogliere lo sguardo dal mio. Lo stomaco ricorda il sapore dolce dell'impasto glassato e subito l'irritazione mi consuma le membra.
Mi fa un cenno con la mano prima di voltarsi. Allungo il collo cercando di scorgere con gli occhi dove stia andando, il perché abbia lasciato la mia gabbia così aperta, incustodita.
Dopo poco torna, l'espressione confusa sul viso, la bocca ancora piena.
Fa un altro cenno verso l'uscita e poi si rimette a camminare. Lo seguo esitante, sicura che questa sia una trappola della quale non sono ancora consapevole.
Niente e nessuno però ostacola la mia libertà. Mentre esco, recupero il coltellino e l'accendino e li nascondo insieme al pacchetto di sigarette.
Quando incontro i raggi del mattino serro istintivamente gli occhi, ma non abbastanza da evitare la figura di mia madre che mi aspetta davanti un auto nera. L'agente torna dentro la sua casa di sbarre e metallo senza nemmeno salutare, io rimango a fissare lei.
-Vieni siamo già in ritardo. – annuncia mentre si sistema al posto del guidatore, la cintura nera che le fascia il busto, le mani tremanti sul volante.
-Per cosa? – mi avvicino cautamente prima di sedermi accanto a lei.
-Per il suo funerale. –
Non lo confesserei mai ad anima viva, ma ucciderlo ha lasciato un segno profondo, nonostante il dolore che ha recato e gli sbagli che ha commesso. Non posso evitare il senso di colpa che mi serpeggia lungo la schiena. Un'ombra di lui che la sera mi si siede accanto, accarezzandomi i lunghi capelli biondi, districandoli, coccolandomi in una dolce bugia.
Lo odio, eppure vedere la sua bara mi destabilizza più di quanto sarei disposta ad ammettere.
Ho sempre detestato i funerali.
È capitato che fossi partecipe solamente a quello di mio nonno Gerald. Da piccola ero costretta a indossare costantemente gonne lunghe fino al ginocchio e camicette di velluto che scorticavano la pelle. Per le telecamere.
Lui fu l'unico per il mio compleanno a comprarmi dei jeans. Non di una marca famosa, non di un tessuto pregiato che avrebbe fatto gola hai miei compagni o avrebbe attirato lo sguardo dei giornalisti.
Un semplice paio di jeans.
Piansi molto quando lo seppellimmo. Per mio padre, mi sono imposta, non verserò nemmeno una lacrima.
Gli addetti richiudono la bara di legno con delicatezza, quasi come se lui stesse dormendo e avessero paura di svegliarlo. Invece resta fermo, le mani incrociate in modo innaturale sul petto, il vestito pulito che nasconde la ferita.
Il prete pronuncia la messa con la noia che traspare dal tono, mia madre si stringe in un abbraccio solitario, ripiegandosi sull'ombra di sé stessa, i giornalisti iniziano dirette televisive, scrivono articoli, scattano fotografie.
Uno mi si avvicina a tal punto da accecarmi con il flash della macchinetta.
Tristan Rey, imprenditore e magnate di Los Angeles muore misteriosamente all'età di quarantacinque anni. Lascia la moglie e la figlia con un patrimonio di circa sette milioni di dollari.
Già immagino il titolo chilometrico sulla prima pagina del giornale, in foto la bara con io e mia madre nello sfondo grigio. Lei distrutta, io impassibile.
La cassa viene spostata lentamente fino a colpire il terreno solido a un metro sotto di noi. Gli addetti mi sfilano accanto con in mano pale di acciaio. Una la danno a me, l'altra a lei.
La impugno spingendola verso il basso fino a quando il metallo non è ricoperto di terriccio scuro. Lo porto sopra il legno in prossimità della testa del defunto.
A poco a poco tutto il suo corpo viene ricoperto, in parte dalla terra in parte dalle lacrime di mia madre. Un prurito inizia a solleticarmi le palpebre provate dalla stanchezza.
Non piangere, Vivian.
Non puoi vomitare qui, Vivian.
Eppure, nonostante tutti gli atti deplorevoli, il dolore che ha recato, la promessa che mi ero fatta, piango.
Verso lacrime amare a poco a poco che il cielo si scurisce insieme alla mia anima. Gocce di pioggia cominciano a rigarmi il viso tanto che non so più distinguere le une dalle altre.
Tutto si deposita sul suo corpo morto ormai sepolto.
Un singhiozzo mi abbandona il petto mentre la pioggia si infittisce e il flash delle fotocamere diventa accecante anche una volta che ho chiuso gli occhi.
Non hanno pietà, come sempre.
Io non sono una ragazza che ha perso il padre, per loro. Sono la notizia da piazzare in prima pagina. Lo sono sempre stata.
Mi stringo il petto quasi come se il cuore potesse schizzarmi fuori dalla cassa toracica. L'ho ucciso per un motivo, un motivo molto valido, ma ora non riesco a ricordarlo.
In questo momento niente sembra giustificare la perdita di quello che, un tempo, era un padre amorevole. Quello che mi portava al parco, che mi spingeva sull'altalena, che mi comprava il gelato subito dopo essere stata dal dentista, che mi abbracciava la notte, che restava sveglio nonostante la stanchezza a guardare i cartoni quando mi sentivo male.
Io ho ucciso Tristan Rey, l'imprenditore e magnate, ma ho ucciso anche Tristan Rey, la figura paterna con la quale ho condiviso attimi preziosi della mia infanzia.
Senza che nemmeno me ne renda conto crollo a terra, il vestito nero che si sporca mentre il mio pianto si mischia alle gocce imperterrite che cadono dal cielo.
Ormai tutte le persone presenti hanno notato la manifestazione del mio dolore, tutti i giornalisti lo hanno potuto documentare, i parenti lo hanno giudicato.
Sento un paio di braccia circondarmi la schiena in una morsa rassicurante, una sofferenza familiare che si unisce alla mia. Ricambio la stretta mentre qualcun altro finisce il lavoro iniziato da noi e seppellisce quella cazzo di bara.
Il cielo si dispera con noi. Sono una goccia di pioggia, solo questo.
Mentirei se dicessi che il dolore è scomparso del tutto. Si è solo attenuato, diventando un'ombra costante che si aggira nel petto. Ha preso posto nella mia cassa toracica, abbraccia il mio cuore in una morsa lenta, passiva. Gli dispiace di essere comparso nella mia vita, di occupare uno spazio tanto importante. Ciò nonostante non se ne va.
Mia madre mi passa una mano sul fianco, cercando di scrollare il terreno che mi sono portata dietro una volta che la messa era finita e mi sono alzata.
Il sale delle lacrime si è ormai depositato sulle mie guance, le mani tremano ancora.
Ho fatto la cosa giusta.
Continuo a ripeterlo fino a quando non sento solo quelle cinque parole rimbombarmi nella testa. Ciò nonostante, ora sembrano solo una bugia.
Lei si ricompone con poco prima di prendere posto nell'auto e ingranare la marcia. Mi siedo nel sedile accanto, guardando scorrere dietro il finestrino il cimitero. L'immagine è distorta dalle gocce di pioggia che picchiettano implacabili sul vetro. Il rumore costante mi accompagna fino al cortile della prigione, nella quale mi ha riaccompagnato.
-Ci vedremo a Natale, suppongo. –
La battuta infelice mi solletica le labbra prima ancora che abbia la possibilità di trattenermi.
Mia madre sbuffa con forza, ma alla fine parla.
-Ti voglio bene, Vivian. Sei mia figlia e ti amo come il mio respiro. Non permetterò che tu marcisca dietro sbarre di acciaio buttando nel cesso la tua vita. Nemmeno però posso pagarti la cauzione e fare finta che tu non abbia ucciso tuo padre. Lui era l'amore della mia vita, il mio complementare in tutto e per tutto. Forse un giorno lo troverai anche tu, il tuo complementare. Per ora credo che sia giusto che noi prendiamo le distanze. Devo digerire le tue azioni prima di perdonarti totalmente. –
Non mi guarda in faccia, fissa le mani incrociate nel grembo. Alza gli occhi solo quando una Mercedes nera accosta accanto a noi. Il guidatore apre una portiera e aspetta lì accanto imperturbabile.
Quindi? Mi mandi via?
-Non farti desiderare. C'è chi ti aspetta. –
Sembra trattenere le lacrime mentre mi apre lo sportello con forza. Io, d'altra parte, sento che la prigione sarebbe meglio di qualunque luogo nella quale mi sta mandando.
- Ti troverai bene lì. –
Lì dove?
Le mani mi prudono mentre richiudo la macchina e mi avvicino all'auto parallela.
Non mi piace questa storia
- Vivian? – mi richiama, nella voce un accenno della solita gentilezza che credevo mi fosse preclusa.
Quando si rende conto di avere la mia attenzione continua.
- Non fare cazzate. -
SPAZIO AUTRICE
Eccoci qui! Se vi piace la storia lasciate una stellina⭐❤
Andate avanti che c'è un altro capitolo (ed entriamo nel vivo😈)❤
XOXO
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