Capitolo 1, ovvero non so scegliere un buon titolo per un capitolo.
Ecco che inizia la solita serie di banalità che nessuno dovrebbe scrivere sulla scuola. Ma, ehi!, sono una quattordicenne lunatica esclusa dal giro delle fighette della mia classe del linguistico o simili: che cosa posso fare, se non frignare contro la matematica brutta e cattiva? Leggere storielle scadenti su sitacci come Wattpad, inoltre, mi ha rovinato il ciclo del sonno e, con le lezioni che iniziano alle otto, dormirei circa quattro ore a notte: il piatto è servito! Per fortuna d'estate posso ancora dormire per recuperare la serata trasgressiva passata a bere tè alla pesca e a tirarmela fino ad esplodere perché ho fatto un tiro di sigaretta — lo so, lo so, è davvero una serata da alternative; infatti l'estate scorsa non ci avrei creduto!
Le banalità che devo vomitarvi addosso per iscritto sono giustificate dalla mia fiera ignoranza, causa di un debito in matematica abbinato a un «Perché non sai neanche le tabelline? Coi 7000 € all'anno che chi paga le tasse ti offre per studiare sai quanti puttan-tour si sarebbero potuti organizzare con esiti migliori per la società?» da parte della mia insegnante. Ah, e per non farvi mancare nulla inserirò termini burocratici come "sostenere" anziché "fare", perché ovviamente io nella mia testa parlo come un manuale di diritto pubblico, quando non parlo come mangio; e mi piace mangiare da McDonalds nei giorni in cui la cucina è affidata a stagisti nevrotici incapaci, se ve lo steste chiedendo.
Ora che avete capito con chi avete a che fare, se avete bruciato i vostri ultimi neuroni rimasti, passiamo alla parte in cui faccio la bambola e mi metto i vestitini: scelgo quanto di più banale esista sulla faccia della terra, perché l'autrice si è dimenticata di darmi un carattere interessante oppure di togliere questa sezione; e poi esibisco una marchetta ultracommerciale e per niente originale sulle mie scarpe, che non servirà a niente per quanto riguarda la trama; anche qui non posso che prendermela con la penna che mi ha generata; d'altronde non posso aspettarmi granché, visto che la colpa della mia situazione è, a quanto pare, dovuta ai miei educatori, che mi dicono addirittura cosa devo o non devo fare.
Esco di casa per prendere l'autobus, ascoltando una musica che voi umani non potrete mai conoscere, perché tanto neanche questa è utile ai fini della trama. Siccome, poi, dimentico di mettere il braccio fuori, l'autista tira dritto e io ho pure il coraggio di prendermela. Decido di chiamare il mio amico-zerbino che, Dio solo sa come, ha la macchina e mi può accompagnare all'esame. Questo scarto d'umanità fa anche lo spiritoso, ma devo trattenermi, altrimenti da qui a scuola a piedi è lunga.
Ah, che rimbambita, non mi sono ancora presentata in stile Alcolisti Anonimi — anche se, immagino, ne avreste fatto a meno. Mi chiamo Giulia Allie White, e a giudicare dal mio nome mia madre è italiana e mio padre anglofono, ma entrambi quel giorno avrebbero dovuto fare un salto in parafarmacia; ho diciassette anni anche se ragiono come una di quattordici, altrimenti la storia d'amore col ragazzo figo diventa pedofilia; abito a Venezia. A Venezia. La famosa Venezia con gli autobus che hanno una fermata che non sia Piazzale Roma o il Tronchetto; no, non abito a Mestre né a Marghera. Abito proprio a Venezia, sestriere San Marco: se volete, mollo un «ghesboro» di riconoscimento. Nella mia Venezia hanno fatto come aveva proposto Marinetti o qualche altro futurista fallito: al posto dei canali c'è cemento, e le macchine sfrecciano per la città. Giusto per decenza vi dico che il mio amico-zerbino si chiama Jason ed era il mio amico-quasi-fidanzato dell'anno scorso, ma nessuno dei due sapeva ancora da che parte fosse girato, quindi non abbiamo mai consumato e ci siamo lasciati per disperazione. Benché sia mio coetaneo, mi viene a prendere con un macchinone che neanche il figlio del dirigente della ditta che li produce può guidare; l'autrice, poi, avrebbe almeno potuto specificarne il modello, visto che esistono due Maserati nuove da 150000 € e, quindi, sarebbe stato meglio sceglierne una. Ma, come prima, ciò sarebbe stato inutile ai fini della trama, quindi non posso lamentarmi più di tanto.
Dopo aver rischiato ottantacinque incidenti per eccesso di velocità, arriviamo al mio liceo, che immagino sia il Franchetti o il Foscarini — e, se è il Majorana, possa io crepare all'istante. Ci sono altri due casi umani che non sanno ancora fare una somma senza calcolatrice.
«Ma buongiornissimo, coglioncella!», mi saluta Sarah (all'anagrafe si sono dimenticati di toglierle l'acca dal nome), simpatica almeno quanto la mia professoressa di matematica, su cui non voglio inventare battute brutte per non bruciarmele nel caso quasi impossibile che questa sia un personaggio importante.
«Qualcuno ha voglia di pregare il Signore nostro Salvatore perché passiamo questo esame?», chiede Nicholas. A questa uscita improponibile comincio a prendere fuoco e ad urlare come un'ossessa: il demone che ho dentro non capisce l'ironia, a quanto pare, e deve aver preso Nicholas alla lettera.
Sta suonando la campanella infame: dobbiamo entrare. Mi faccio tirare una secchiata d'acqua addosso, che grazie alla maglietta bianca crea un momento di fan service indimenticabile, ed entro — dopo aver friendzonato a dovere il mio zerbino.
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