Labirinto
Per questa traccia de La Libreria del Cappellaio Matto, bisognava inventare una storia ambientata in un labirinto, in cui aggiungere tre parole: ombre, spazio, musica. Come sempre, max 1000 parole.
«Ti trovo benissimo. Mi... mi riconosci?»
Sorrido un po' confusa ad un paio di occhi celesti che mi fissano con un filo di malinconia, una musica leggerissima in sottofondo.
Mi ricordano qualcosa, quegli occhi color del mare nel cielo, delle striature dorate che li rendono luminosi anche al buio; scintillano come gemme preziose in un labirinto sfuocato, unica nitidezza in una oscurità che avvolge e confonde, senza tuttavia mettere paura: sono gli occhi di una ragazzina che si perde nel grano, i capelli biondi che si riflettono nel campo di spighe, mentre corre a perdifiato, scappando da qualcuno. Guardo meglio: non è paura, è solo un gioco da bambini; e mentre la ragazzina si volta nella mia direzione per capire quanto disto da lei, quanta libertà le è ancora concessa, la vedo svanire dietro un muro che prima non avevo notato, e che mi costringe a rallentare quella rincorsa spensierata.
Quando volto l'angolo mi aspetto di ritrovare lei, la ragazzina dei capelli del grano, distesa supina con le braccia aperte verso il cielo, scossa dai singhiozzi di rasate incontenibili – le risate di chi non ha ancora avuto niente dalla vita. Invece è diversa, più grande, ritta in piedi in una posa eccessivamente formale, le mani in grembo e la testa bassa – i capelli più scuri, il giallore estivo è ormai un ricordo lontano, così come le risate.
La riconosco, nonostante non riesca ad individuare i suoi occhi color del mare nel cielo: so che è lei, mi sembra quasi di riconoscerne i pensieri bui di chi ha capito che la propria vita cambierà per sempre, con quegli orribili ragazzi biondissimi (quasi bianchi) che impongono la propria presenza durante i pasti alle tavole di poveri contadini che hanno poco da offrire persino ai propri figli. Ad un cenno di qualcuno alle mie spalle, la ragazza del grano si rizza sull'attenti, prende un uniforme verde militare appoggiata sulla sedia – le fa schifo, quell'uniforme, emana l'odore acre di chi ha fatto cose brutte, ed esce dalla stanza, lasciandomi con un sentimento di oppressione nel petto; ho improvvisamente paura di rimanere sola. La seguo dietro quella porta, correndole dietro ancora una volta, e la rivedo in strada con un vestitino corto alle ginocchia, la gonna a campana e i fiori grandi addosso che sembrano papaveri – sa benissimo che quel vestitino è peggio che una dichiarazione di guerra. C'è anche un ragazzo biondissimo, quasi bianco, che indossa la stessa uniforme militare di molti altri, l'uniforme militare di chi ha fatto le cose brutte – ma che non odora di acre, constata la ragazza del grano mentre lui la sorpassa velocemente solo per poterle aprire la porta della drogheria con un inchino plateale che la fa ridere. Lui le sussurra qualcosa mentre lei entra – forse qualcosa sui papaveri rossi o sui suoi occhi color del mare nel cielo, da dove sono non riesco a sentire bene.
Mi sento barcollare in uno spazio vuoto, quando la seguo in quella drogheria. Ho perso la strada e ho perso la ragazza, ma come ho fatto? Ci sono solo sprazzi di occhi celesti mentre cerco la via tra ombre e muri che mi bloccano il passaggio. Sto per mettermi ad urlare di angoscia quando, dietro quello pensavo fosse l'ennesimo vicolo cieco, intravedo la ragazza del grano distesa al lume di una candela, l'uniforme militare che non sa di acre gettata per terra a qualche passo da lei – non deve più raccoglierla per metterla a posto, ora, ha la libertà di lasciarla lì, niente mani in grembo o atteggiamenti formali solo perché in presenza di un soldato. Ha un sorriso che non si sentiva addosso fin da quando correva libera nei campi, mentre il ragazzo biondissimo le stringe il corpo nudo e le infila due dita in un punto da cui lei non pensava si potesse ricavare piacere, Ich werde auf dich zurückkommen, aspettami, tornerò da te...
Mi vergogno di assistere ad una scena così intima, dopotutto quella ragazza nemmeno la conosco, mi sento così in colpa, perché la trovo sempre davanti ai miei occhi, qualsiasi direzione io intraprenda? Cerco di scappare ma è dietro ad ogni angolo, la vedo mentre piange, da sola, con una lettera tra le mani, mentre balla in compagnia di un uomo, gli occhi color del mare nel cielo increspati da delle piccole rughe d'espressione che prima non avevo notato, il vestito senza papaveri rossi e l'uomo che la stringe che le sussurra qualcosa che nemmeno la fa arrossire – non ha più niente della ragazzina coi capelli color grano, ha perso il candore la tenacia e la voglia di ridere.
Mi imbatto in un corridoio in cui c'è la donna dai capelli color grano un po' sbiaditi che mi da le spalle, respira affannata anche se cerca di non mostrarlo, davanti a lei un uomo biondissimo senza più l'uniforme militare, solo qualche anno in più e un sorriso grande che sembra voler dire Lo vedi che sono tornato? Ma lei non proferisce parola, non si slancia ad abbracciarlo, cerca di calmare il battito del suo cuore perché rischierebbe di svegliare la piccola creatura che regge tra le mani e che culla come un automa. Mi sporgo per guardare meglio la scena, faccio piano per non svegliare la bambina ma non ci riesco: quella spalanca gli occhi celesti, color del mare nel cielo, e non è più un infante, ormai, è più grande e ricorda moltissimo la ragazzina nel grano.
Si abbracciano, madre e figlia, e io non mi sento più in colpa ad assistere a quell'intimità, continuo a rivederle dietro ogni porta aperta e alla fine di ogni vicolo e oltre ogni siepe, insieme, sorridenti e complici; c'è una confessione d'amore e poi anche un bel matrimonio – con alcuni papaveri rossi legati ai banchi della chiesa, e perfino altri figli ed alcuni nipoti, e c'è anche un medico, alla fine, che sussurra una parola brutta che sa di acre: alzheimer.
Sento una musica leggerissima in sottofondo, riapro gli occhi: «Ci ho messo un po'. Ma ora ti riconosco, figlia mia»
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