Gone
La traccia di questa storia era: inventare un racconto che iniziasse dal suo epilogo e si concludesse con l'inizio. Massimo 1000 parole.
«Mi presti un –»
«... filtro. Puoi prenderli, lo sai»
Il treno per. Roma. È in arrivo al binario tre.
Si guardano negli occhi in un lampo, impauriti, il filtrino che si sporge verso le mani di lei, ancora in attesa.
«Finalmente»
«Sì, era ora»
Lei usa il filtrino per rollarsi un'ultima sigaretta, con gesti lenti ed esperti. Non ci pensa neanche, a quello che sta facendo, e non lo guarda in volto nemmeno una volta.
Lui, invece, non si perde neanche per un secondo il mutamento della sua espressione: spera di coglierci qualcosa. Delusione, forse, oppure fastidio? Non lo capisce. E non vede proprio nulla, cazzo. Solo una ragazza che lecca la cartina tenendo gli occhi chiusi, e poi con una mossa forse stizzita? stacca il pezzo in eccesso per poi gettarlo a terra, con improvvisa noncuranza. Cade con un soffio flebile di vento tra loro, seduti per terra nell'afa serale.
«Una giornata lunga» ci scherza su, lei, e mima un sorriso stanco. Non le riesce bene, soprattutto quando si rende conto che lui non sta sorridendo affatto. Occhi di neve in un contesto che di nevoso ha ben poco, pensa, nel caldo torrido che non l'ha scalfito neanche una volta, durante quella giornata infinita.
Molla quasi subito, e torna sulla sua sigaretta. La fiammella dell'accendino quasi non trema, baluardo immobile tra due anime in tempesta.
Lui tira su con il naso, anche se non avrebbe realmente bisogno di farlo. Vuole solo spezzare il silenzio e tutta quella staticità che li circonda: «Quindi... vai?»
«Tu no?» scatto di testa, occhi sbarrati: finalmente una reazione, cazzo.
«Non... non so» si passa nervosamente una mano tra i capelli, ancora catturato dall'immobilità di quella fiamma: cozza con ogni principio della fisica, Cristo. Non che ne abbia mai saputo granché di fisica, comunque, al liceo andava male in tutte le materie scientifiche, ma gli sembra strano; eppure lei non pare notarlo. Lei, d'altronde, non nota un sacco di cose.
Solo questo, il fatto che lei non noti quell'evento soprannaturale, dovrebbe bastargli per intuire l'epilogo di tutta la faccenda; ma non ci fa caso – non ci vuole far caso, e continua a sperare fiocamente che anche lei decida di non salirci su quel treno, alla fine.
«Senti, io non volevo... »
«Non è per te, o per quello che mi hai detto, ok? È una decisione mia. E basta»
Lei soppesa le sue parole. Non riesce a capire se sia sincero; nemmeno lui, riesce a capire se è sincero. Sa solo che quella mattina è arrivato in stazione convinto che entro sera sarebbe tornato nel suo minuscolo appartamento pieno di bottiglie vuote di superalcolici sulle mensole alte della cucina, la finestra spalancata solo nelle ore in cui l'indiano, al piano di sotto, non è in servizio, inondando il quartiere con un simil-perenne odore di spezie e misto pakora; era convinto che, a quell'ora, sarebbe stato sul divano con il noiosissimo manuale di Diritto Privato da un lato, e una gigantesca canna piena zeppa di erba e buoni propositi dall'altro.
E invece è seduto per terra da tutto il fottuto giorno, un caldo che Studio Aperto probabilmente ci sta dedicando il notiziario delle sei... con lei. E non riesce davvero da invidiarla, quella canna, nemmeno un po'.
Il rumore inconfondibile di un treno in arrivo spezza il silenzio cattivo che si è creato tra i due.
«Grazie, allora. Per la... giornata. Per la compagnia» ancora quel sorriso finto. Vaffanculo, pensa lui.
Rimane immobile a guardarla, mentre lei si alza e si pulisce i pantaloncini corti sul sedere, soprappensiero. Gli getta un'ultima occhiata prima di inforcare la valigia e avvicinarsi verso il treno, che ha aperto le porte proprio davanti a lei, invitante. Lui non la sta guardando: cos'è più importante di quell'ultimo saluto, porca puttana? Lei si innervosisce, mette la valigia sul treno.
Proprio quando sta per darsi lo slancio finale, non resiste oltre: si volta.
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... ci scusiamo per il disagio.
«Stai scherzando!» lei ha le lacrime agli occhi.
«No, te lo giuro, te lo giuro, cazzo: era talmente ubriaco che è entrato nella camera dei miei genitori, si è messo a fianco a mia madre e le ha urlato: e tu chi sei, cosa cazzo ci fai nel mio letto?»
«I tuoi amici sono da internare» le ridono gli occhi miele, colore della vita bella, «e tuo padre cos'ha detto?»
Gli muore il sorriso sulle labbra. Con gli occhi color del ghiaccio guarda i binari, roventi di caldo e di qualsiasi altra strana e incandescente cosa stia accadendo proprio lì accanto. Lancia la sigaretta mentre gli occhi di lei si scusano con un fiato amaro.
«E' tutto ok. Scappo spesso a Roma per evitare... mia mamma. Tutto»
«Non dovresti» le esce più velocemente di quanto vorrebbe. Maledetta, si fa giudice di qualcosa che nemmeno conosce, di qualcuno che palesemente sta male. Si affretta: «Se io soffrissi ti vorrei vicino» ma che sta dicendo? Sembra una dichiarazione, figuriamoci, ad uno che conosce da appena qualche ora. O forse si capiva, che voleva solo intendere che si è immedesimata nella madre? Sì, si capiva: come potrebbe dire così candidamente ad uno sconosciuto che lo vorrebbe vicino nei suoi momenti dolorosi?
Lui torna a fissarla, molto serio, studia le sue ultime parole: ora è lei a sentirsi giudicata, sotto analisi attenta di un viso glabro e un volto giovane ma pieno di occhiaie. Come sono, le tue notti? Ce l'ha sulla punta della lingua, lei, quella domanda, ma non le esce nulla. Non vuole che lui colga la sua linea di pensieri, potrebbe fraintendere. E invece lui non fraintenderebbe proprio niente, e le sta per chiedere in un unica frase senza logica cosa cazzo ci trova, lei, in quel fantomatico fidanzato milanese che sta andando a trovare tutta agghindata, sbattendosene del fatto che chiaramente, in questo caso, lei intuirebbe la sua linea di pensieri, ma Il treno per. Roma. Arriverà con un ritardo di
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«Ciao»
«Ehi»
«Il mio treno è in ritardo. Tu lo hai un filtrino?»
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