⟣ Capitolo 43 ― Ripianto e Sangue ⟣
Un gruppo di Hadi dell'Ombra cavalcava verso l'entrata dell'accampamento di Nabih, portando con sé i resti di Piruz. Si erano insospettiti quando il sicario non aveva fatto ritorno dal loro avamposto a pochi chilometri dalla trappola escogitata per Mahdi, così, dopo aver atteso qualche ora si diressero verso i resti, trovandolo privo di vita. Non volevano lasciarlo lì, solo, dopo quello che aveva fatto contro i loro nemici.
Lo presentarono di fronte al nervoso Nabih.
Il quale era pronto per una violenta battaglia. Imprecò ad alta voce alla vista del suo fedele. Radunò i suoi uomini e diede l'ordine di attaccare le frontiere dei villaggi vicini, in direzione del palazzo del Rubino D'Oro. Non sarebbero stati soli in quello scontro, molti Daeve che si erano uniti alle lotte avrebbero accompagnato quella guerra.
A quell'ordinanza un fiume impetuoso di Daeve si abbatté sulle terre di Eblis, scurendo, al loro passaggio, il cielo chiaro.
― Questa volta, comanderemo noi Eblis!
La voce di Nabih riecheggiò tra i suoi fedeli prima di salire sul destriero dal manto marrone, stringendo il giavellotto appuntito. Indossava una cupa armatura fatta dai tessuti e dagli spallacci a scaglie. Ordinò ai suoi uomini di salire sui cavalli e partire verso le terre dov'era nato e cresciuto.
Una volta entrati alle porte Piuma d'Ambra, superò con facilità, insieme ai suoi uomini e ai Daeve, i soldati e gli Immortali dello Shah. I quali tentarono di sradicare la malvagità dei nemici, ma quando le creature oscure si fiondarono su di loro, gli Hadi ebbero la meglio.
La gente correva, piangeva e urlava, molti tentarono di salvarsi la vita, ma la miseria di quei repentini gesti d'angoscia furono soppressi dalle creature. Pure lo Shah alla vista di quelle creature e, ancora focoso dalla vendetta di una delle sue figlie, ordinò di proteggere le figlie rimaste conducendole in un tunnel sotterraneo che le avrebbe portate in una grotta segreta nelle Gole di Granato, la stessa che molti nobili avevano usato per rifugiarsi.
Dhaki Shah al contrario rimase combattendo nella piazza del palazzo insieme ai suoi soldati, massacrando Hadi e Daeve. Non sembrava più uno Shah elegante e privo di coraggio, al contrario, il sangue degli scorpioni gli dava forza e vendetta. Solo quando diresse le ultime truppe alla destra del palazzo dei suoi antenati, vide di fronte a sé un Daeve tozzo e bipede urlagli, muoveva una clava fatta di ossa e rocce appuntite. Non gli bastò il tempo necessario di spostarsi che la mostruosità si scagliò contro di lui, colpendolo con l'arma e scaraventandolo a terra, sul busto del sovrano c'erano le ferite provocate dalle rocce, strisciò come un miserabile per poi spalancare gli occhi verso la creatura che si precipitò per finire il lavoro. Quello che rimase di Dhaki Shah furono i resti maciullati, le scaglie della divisa sporca di sangue e il cadavere che rotolava vicino a delle piante.
A quella visione Nabih non prestò attenzione, si diresse verso la salita del palazzo del Rubino D'Oro insieme ai suoi uomini. Finché trovando solo pochi nemici, massacrati dai fedeli, si presentò nella piazza della dimora, dove un fornito gruppo di soldati e parenti del Rubino D'Oro impugnavano le armi. A un gesto delle dita fermò i suoi sostenitori, osservando con disprezzo e arroganza il fratello minore.
Mu'ezz Nadir aveva estratto la spada al rumore della tremenda battaglia, di fianco a lui c'era Fathi. Non era sereno dalla decisione di Mahdi, ma del resto aveva solo un avversario davanti a sé.
― Fratello, sono tornato a casa, ti sono mancato? ― disse Nabih con un sorrisetto beffardo, allargando le braccia.
― Per niente, ― digrignò i denti Mu'ezz Nadir.
Nabih si avvicinò, osservando suo nipote: ― Vedo che la tua progenie si è salvata dopo quello che avete fatto ai miei uomini. Ti fai proteggere così? Oh, Bak-sa, non ti ho insegnato nulla?
A quella provocazione Fathi cercò di avanzare tenendo la scimitarra stretta a sé, ma venne fermato quando il padre gli fece un cenno con la mano libera. Poteva controllare il figlio, ma non la vendetta negli occhi dei suoi parenti reduci da ciò che Nabih aveva fatto nel corso dei mesi era evidente.
Mu'ezz Nadir si rivolse al figlio: ― Vai da tua madre, raduna gli ultimi sopravvissuti e conducili in salvo.
― No, resterò al vostro fianco, padre, ― sussurrò con astio Fathi.
― Non è la tua battaglia, Fathi, ― tuonò Mu'ezz Nadir verso il figlio.
Il ragazzo cercò di controbattere le parole del padre, erano puntigliose come i rovi, lanciò qualche sguardo nervoso allo zio, finché si rivolse ad alcuni soldati per condurli verso i sopravvissuti. Si fidava del genitore, ma meno della correttezza di Nabih.
Mu'ezz Nadir strinse l'elsa della spada, finché i suoi occhi, si posarono per un breve momento sul giavellotto nella mano del fratello maggiore: ― Vedo che non riesci a separartene, non è così? Dopotutto quello che hai fatto a questa famiglia, tieni ancora in mano l'arma di nostro padre.
Nabih strofinò le dita sul giavellotto, bramava quella competizione che durava da anni, sorrise: ― Sì. Tu di certo non eri degno a possedere quest'arma e non lo sarai mai. Neppure il posto che lui ti diede anni fa era di tuo diritto. Ma in fondo, nostro padre era uno sciocco, non comprendeva appieno l'onore che gli avrei portato.
Un ruggito si abbatté sui presenti, i Daeve che fluivano nella capitale giunsero fino al palazzo del Rubino D'Oro, fiondandosi sui soldati che iniziarono a combattere. Fu in quel momento che Nabih ordinò ai suoi uomini di lottare e, correndo verso il fratello, attaccò.
La scimitarra di Mu'ezz Nadir e il giavellotto di Nabih si scontrarono producendo uno stridulo metallico.
Non badarono al massacro che intorno a loro si espandeva, solo i loro corpi agili si muovevano, parando, attaccando le armi.
Il giavellotto di Nabih puntò molte volte il costato scoperto dell'avversario, ma questi indietreggiò, finché non strappò con violenza un pezzo di tessuto della divisa rossiccia.
Il padrone del giavellotto si piegò di lato in avanti, per poi roteare l'arma e cercare di trafiggere l'addome dell'avversario, ma questi parò mettendo la scimitarra obliqua.
― Ti ricordi di quanto piangevi? Di quanto mi supplicavi per Hadiya? Eri ridicolo e debole, ― disse sarcastico Nabih al fratello. Spingeva con forza, facendo indietreggiare Mu'ezz Nadir di qualche passo, le braccia tese di entrambi dolevano, mentre i loro volti erano vicini, ― Ma tranquillo, non sarà più sola, presto quell'abominio di tuo figlio la raggiungerà. Il Grande Signore divorerà la sua carne, fino all'ultimo pezzo.
Mu'ezz Nadir scivolò all'indietro per la deconcentrazione di quelle parole, fino a reggere il corpo con una mano sul terreno, schivò di lato e rotolando per evitare il giavellotto nemico si rialzò. Non perse tempo a dar battaglia al fratello, facendo scontrare di nuovo le armi.
Nabih sputò un po' di saliva, evitando una sciabolata, piegò indietro la schiena e cercò di trafiggere il fratello più e più volte, facendo vibrare l'arma a ogni movimento. Poteva godersi quel momento quando un suo colpo ben preciso andò a segno, graffiando il fianco del fratello. Sorrideva di gusto per quel momento, ma poi si ricredette, quando Mu'ezz Nadir, facendo danzare la scimitarra ai lati, lo ferì obliquamente dal pettorale al bacino.
Si distaccarono per un momento, respirando con affanno.
L'Hadi urlò e si avventò per l'ennesima volta sul corpo stanco del fratello. Era un grido di disprezzo, come il disgusto che provava nel vederlo ancora in vita nella dimora dov'erano cresciuti.
Il rumore metallico delle armi durò parecchi minuti, i movimenti erano decisi e veloci. Minuti che ricordavano in quella selvaggia lotta gli occhi freddi del padre. Sudavano e i muscoli bruciavano per lo sforzo, finché le macchie di sangue non sporcarono le loro divise, fino a far scivolare uno dei due.
Nabih colse quell'occasione e diede una gomitata sul volto del fratello, facendolo cadere supino. Rise a quello spettacolo, mentre gli occhi neri erano gelidi. Strinse tra le mani il giavellotto, ormai sporco di sangue e, alzandolo, puntò il petto del fratello di fronte a sé.
Mu'ezz Nadir afferrò saldamente la spada che gli era scivolata fra le dita sudate ed evitando di lato la punta del giavellotto, si protese con la schiena in avanti, curvandola, per poi trafiggere lo sterno di Nabih. Delle gocce di sangue bagnarono la lama fino a gocciolare sull'elsa.
Nabih restò fermo per degli intensi secondi, tremando e sputando sangue, gli occhi spalancati fissarono il fratello a terra. Il giavellotto gli cadde dalle mani, mentre le dita sfioravano la lama della scimitarra che gli passava da parte a parte.
Il fratello minore tolse la spada dalla carne del maggiore, lasciando scorrere un fiotto di sangue denso e brillante. Vide Nabih indietreggiare di un passo e inginocchiarsi al suolo per poi afflosciarsi. Lasciò la scimitarra a terra e si prostrò verso il fratello maggiore, prendendogli il viso tra le mani.
― Namvar..., ― biascicò Nabih.
Una pozza di sangue si allargava sul corpo dell'Hadi, mentre i suoi occhi si posavano su Mu'ezz Nadir. Farfugliò ancora il nome del figlio perduto, finché non chiuse gli occhi per l'ultimo addio.
Mu'ezz Nadir trattenne il suo volto, fino a posare la fronte contro la sua, le lacrime non tardarono ad arrivare.
***
A quella battaglia molte delle creature si scagliarono anche negli altri Regni. Molte di quelle creature si disintegrarono grazie alle barriere protette dai sassi dell'albero sacro, ma altri riuscirono nell'impresa e si scaraventarono contro gli innocenti.
Nello stesso momento i Principi della Luce D'Avorio, insieme al padre che duellava dall'altra parte del palazzo, combattevano con estrema forza, decimando le creature. I loro soldati restarono al loro fianco, avanzando e massacrando ogni belva che si palesava davanti. Erano così vicini all'entrata della capitale che la polvere di detriti copriva i loro corpi stanchi.
Taher scoccò delle frecce e alcune le recuperava dai cadaveri, era agile e preciso nel colpire i malcapitati, al contrario Shayan vedendo Rahim precipitarsi verso di lui, trafisse un'altra creatura mostruosa simile a un felino. Urlò al fratellino di ritirarsi ma quello disobbedì.
Shayan duellava insieme a un gruppo di soldati: ― Ti ho detto di raggiungere Taher! Dannazione, Rahim, raggiungi Taher!
― No!
Urlò a pieni polmoni il fratellino, colpendo con la mazza un Daeve dalle sembianze di un verme a due teste lungo un metro e grande quanto il suo torace.
Shayan digrignò i denti, trafiggendo con la scimitarra una belva, finché non vide alle spalle di Rahim una creatura umanoide dalla testa di un roditore. Gli artigli grondanti di sangue delle sue precedenti vittime, si allargarono, prima di scagliarsi alle spalle del piccolo principe.
Non perse tempo il fratello maggiore, si liberò dalla presa dei nemici e spingendo Rahim di lato lo spostò, ma la bestia cogliendo l'occasione di quel momento e vedendo Shayan di fronte a sé, trafisse il costato con gli artigli, per poi mordergli il collo.
Rahim stravolto da quella scena colpì con la mazza il muso della bestia, liberando per un momento il fratello, ma Shayan cercò di spingerlo verso Taher che avanzava, finché non cadde a terra sporco di sangue. Mostrò un sorriso caldo al fratellino.
Rahim tentò di avventarsi su di lui, urlando il suo nome, ma Taher che osservò quel macabro orrore, lo afferrò e lo trascinò verso il centro della capitale. Si ribellava dalla presa salda del fratello, scalciava con insistenza.
A coprire i due principi sopravvissuti furono gli Immortali. Rahim vide Shayan privo di vita, con lo sguardo fisso su di loro e gli occhi vitrei, sul collo del fratello penzolava il ciondolo con il simbolo della loro casata, mentre i Daeve avanzavano verso la capitale.
― Taher, lasciami! Taher! No! No! Shayan! No!
Le urla di Rahim erano massi scagliati sull'anima di Taher, il quale cingeva il torace del fratellino con un braccio coperto dall'armatura.
Sui tetti piatti delle dimore, la polvere, i detriti e il fuoco erano i segni spregevoli di quello spettacolo.
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