III

Materializzate come dal nulla, emerse dalla nube di cordite e mandorla amara, quattro fatine inguainate nelle tute operative dei reparti speciali del corpo dei Vigili del Fuoco di Des Moines – chissà perché proprio Des Moines?! - avevano appena fatto irruzione nel suo attico. 

Quella che appariva la caposquadra si rivolse alla dolce mistress dal caschetto azzurro, pensata e progettata in mesi di lunghe elaborazioni sul suo SognoLucido™.

- Forse non ci siamo capiti, fatina del cazzo; tu non sei una puttana! 

- Ma Lilith, io...

Sembrava non esserci spazio per rimostranze o chiarimenti

- Questa stronzata potrebbe costarti un'accusa di diserzione di fronte alla corte marziale!

Attimi troppo brevi per capire, davvero, cosa stesse succedendo. Secondi che correvano troppo veloci, quasi più del battito d'ali impazzito di quelle amazzoni che s'affaccendavano in volo lungo le direttrici diagonali del suo soffitto, scarrellando le leve di carico degli AK47 e preparandosi a fare fuoco.

- Megera, Gorgone, occupatevi di tutti questi topacci dalle orecchie giganti!

Quella stronza che dava ordini l'aveva urlato senza neppure degnarsi di chiedere spiegazioni al padrone di casa, per poi rivolgersi all'ultima.

- Bruja, tieni fermo questo segaiolo sfigato mentre gli faccio capire che succede a pensare a noi fatine come troiette da sbatacchiare a comando!

L'amazzone alata dal cognome ispanico parve accendersi lungo la pelle di un reticolato di curiosi tatuaggi fluorescenti che le percorrevano l'incarnato bruno. Braccia, gambe e ogni centimetro scoperto dell'epidermide s'incendiarono con motivi che ricordavano quel trucco che intarsia viso, mani e pelle di messicana memoria, quello in onore dei defunti e di tutte quelle altre robe che da quelle parti chiamano Santa Muerte.

- Como te gusta, Lilith. Vamos a sentir come gode questo porco...

Ispanico imbastardito, un dettaglio da appuntarsi, magari. Giusto appena per identificare l'illetterato che aveva rimaneggiato le carte in tavola.

Gli occhi di quel poveraccio indugiarono senza una ragione precisa sulle mostrine da Sergente Maggiore che sbrilluccicavano sul seno sinistro della caposquadra dalla chioma rosso rubino. La sadica fatina si avvicinava lenta, il fucile mitragliatore appena passato a tracolla e la mano destra sulla fibbia del cinturone, poi sulla patta, poi sulla zip a liberare un mostruoso dildo d'acciaio con derive direzionali affilate come rasoi. 

Little Boy. 

Almeno, così c'era scritto con vernice rossa e caratteri sanguinolenti su uno dei fianchi del mostruoso arnese.

- Tutto tuo, maiale, con tanti saluti dall'Isola che non c'è.

Il tutto, mentre gli anfibi scricchiolavano sul parquet d'abete rosa e le sopracciglia dell'amazzone disegnavano accenti circonflessi di terrificante perversione.

Il fischio feroce della frusta arrivò giusto in tempo a rompere l'attimo sospeso, distraendo Lilith e regalando al proprietario di casa la possibilità inattesa di rifilare una violenta gomitata alla fatina che lo tratteneva dalle spalle. Il tentativo, nemmeno a dirlo, era quello di liberarsi dalla presa - in qualche modo.

- Lascialo stare Lilith. Non è come sembra!

- Ah no, Trilly? E spiegami: com'è, allora?

- Lo amo, capisci? Lo amo e lui ama me...

La caposquadra scosse la testa con un sorriso beffardo che tradiva stizza e disappunto.

- Lo ama... e lui ama lei... Vaffanculo! Voialtre, fuoco!

Bastò un cenno sbrigativo della mano a Lilith, mostrine del comando e chioma rosso rubino che, magicamente, adesso appariva ancora più scarlatta. Diede ordine alle due sottoposte di prodursi in uno sbarramento di piombo ad alzo-zero sui coniglietti. 

L'adorata Trilly col caschetto azzurro alzò la destra e sferrò un colpo preciso contro la canna dell'AK di quella stronza che dava gli ordini, cogliendola di sorpresa e disarmandola.

Mentre ninnoli e roditori finivano crivellati in tempeste le più varie di schegge, spruzzi di sangue e grumi di carne, da cuor di leone, il proprietario di casa non trovò di meglio da fare che cercare rifugio nell'unico luogo sicuro che gli parve fosse alla sua portata: l'orifizio stellato del Granconiglio in livrea.

Violò le pareti del buco con entrambe le mani, con tutta la forza che aveva nelle braccia. Sentì i muscoli della bestia cedere arrendevolmente, prima di rendersi conto che avrebbe dovuto forzare e strisciare, strisciare e forzare in un cunicolo stretto, inondato d'un fetore denso che gli si spalmava addosso.

Strinse i denti, mentre quella bestia prendeva a muggire - muggire, esatto, nemmeno fosse una vacca da latte.

Crepare – probabilmente - stretto tra le chiappe d'un coniglio culone e troppo cresciuto era di certo preferibile a finire prima brutalizzato e poi crivellato di proiettili da una comitiva di sadiche fate guerriere decise a vendicare non si sa quale onore perduto.

L'ansa terminale dove aveva trovato riparo sembrava confortevole, a dispetto delle prime apparenze. Larga abbastanza da starci non solo raggomitolato ma anche seduto. Lì fuori, l'inferno di scoppi e crepitii non accennava a placarsi. Di sicuro Megera e Gorgone stavano continuando a scaricare e rimettere in canna caricatori e caricatori, mentre il pavimento tintinnava di bossoli fumanti ed i tessuti intestinali della bestia, scossi da spasmi di terrore puro, non ne volevano sapere di smettere di contorcersi e tremare.

Schiocchi di frusta e sibili d'aria, fatta a fette con nerbi di bue, continuavano a protestare il vigoroso sciabordio di una lotta feroce. 

Trilly, lì fuori, si stava battendo anima e corpo per reclamare il suo diritto ad amare. A giudicare dai rumori, affare vano, il suo. 

Trilly, innamorata oltre ogni ragionevole dubbio e pervasa da una passione che la portava a fare tutto e di più per il suo amato schiavetto. Unica parte del SognoLucido™ più o meno rimasta aderente al reale.

D'un tratto la quiete, d'un silenzio spaventoso.

Immobile anche l'intestino della bestia che aveva battezzato Granconiglio – vista la mole c'era da credergli.

Si risolse a sciogliere quel nodo che lo avviluppava come cartaccia da buttare e provò, tentoni, a farsi strada a ritroso verso l'imboccatura, il grande ano prolassato della bestia, attraverso il quale, poco prima, s'era guadagnato quello che sembrava il pass per la salvezza.

Gattonò verso il foro d'uscita, oltre lo stretto tratto del retto - adesso appena un puntino di luce e di speranza, in fondo al tunnel saturo di miasmi e grondante di melma, feci, sangue. 

Testa protesa in avanti, naso premuto inutilmente al petto, provava a richiamare ai recettori una qualche traccia rimasta del Creed Orange che s'era spruzzato solo poche ore prima. 

Quel poveraccio continuava a spingere e forzare, avanzando a quattro zampe.

Si chiese se, in fondo, non fosse lo stesso che nascere ancora, quell'avanzare infantile e impaurito lungo un pertugio che sapeva di merda, piscio e sangue, violando cunicoli stretti, inadatti - all'apparenza - a calibri di quel tipo. Calibri degni della sua stessa stazza.

Si chiese se per caso non fosse più giusto pensare che stava venendo a nuova luce, nascendo di nuovo... 

No: si rispose che non si viene al mondo da un buco di culo, mentre fuori, lì fuori, diluvia un inferno di piombo e fuoco. 

Non stava nascendo di nuovo, stava solo provando a vedere se il culo, almeno lui, se l'era salvato o meno.

Anche perchè, come dire, l'antica regola che suggerirebbe di arredare un tunnel dal quale non riesci ad uscire, in questo momento, non gli pareva sanitariamente una ipotesi allettante.

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