Capitolo 5
5.
Resurrezione e ricordi lontani
Correva l'anno 1812, e il cielo di Londra poteva vantare di limpidi sprazzi giornalieri, del tutto ignaro della cenere grigia che avrebbe ben presto sporcato l'azzurro di quel suo tetto trasparente. Pochi anni dopo, e con l'ascesa al trono della sovrana Vittoria, svariate ciminiere avrebbero preso a funzionare ergendosi verso il cielo con le loro bocche spalancate, e, da quelle, nubi nere di carbone sarebbero poi zampillate deturpando maggiormente l'aria cittadina.
La mia casa, situata nel lussuoso distretto Mayfair, catturava ogni pallido raggio di sole battente sulle tegole e alle finestre vezzeggiate da tendine ricamate. Una donna e la sua giovane figlia passavano le proprie giornate fianco a fianco nell'attesa di qualcosa di sfuggente, un semplice evento che scuotesse entrambe le vite portandole a un livello solo un tantinello più alto di lietezza. Avevano detto addio e per sempre a un uomo fin troppo ammaliato dalla ricchezza così come troppo poco avvezzo a sentimenti verso il prossimo. Giunta una lettera nella quale parole di compianto venivano espresse riguardo la tragica scomparsa di un illustrissimo padre di famiglia, l'ormai vedova attestata, la bella Annabel, era stata ben felice di scappare finalmente dal ricordo di un marito, la cui viva presenza s'era fatta immateriale già da tempo.
Un paio di cameriere e qualche pezzo di arredamento seguirono ben presto me e la mamma in una nuova dimora più piccola, ma che lasciava respirare a pieni polmoni una vaga idea di libertà. Più volte mi ostinavo a voler capire il perché di tale scelta abitativa, del resto la nostra vecchia casa stanziava niente più che a una manciata di passi dalla nuova. Non potevo immaginare, tuttavia, quanto il mio desiderio di sapere fosse meno forte di quello proprio di una donna la cui vita calpestata da un matrimonio infelice non era più disposta a sopportare neanche un giorno di più le stesse stanze che, un tempo, avevano ospitato la presenza seppur sfuggente di un uomo che di certo nessuna delle due avrebbe pianto o ricordato con affetto.
Molto poco conoscevo del mio vero padre, ma mi era bastato troppo spesso scoprire mia madre piangente, riuscendo così a scorgere tra quelle lacrime e occasionali attacchi di tosse il dolore di una vita mai veramente voluta. L'ingenuità non faceva per me. Non avevo bisogno di un adulto per capire come le continue assenze ingiustificate di papà fossero il frutto di compagnie con donne poco raccomandabili e viaggetti in terre lontane alla scoperta di chissà quali allettanti passioni.
Fu dunque così che una croce definitiva era poi sopraggiunta sulla testa di mio padre, portato via da noi da un incidente in mare aperto senza più possibilità di far ritorno; nonostante tutto, né madre né figlia avevano osato disperare, sognatrici di tempi migliori che speravano avrebbero bussato alla porta come un suono di campane a festa.
Le campane non vi giunsero, ma un violino e un gentiluomo sì. Mr Benedict Atkins si materializzò una sera d'estate come un pallido sole a illuminare le stanze buie della nostra nuova casa, annunciando di rispondere alle poche condizioni lette su di un annuncio trovato affisso alla vetrina di una piccola agenzia di stampa. Avevo, infatti, in quel periodo espresso il desiderio di riprendere a suonare, e chi meglio del giovane e aitante maestro poteva aiutarmi a dirigere il tocco delicato delle mie dita su dei tasti bianchi e neri?
L'uomo, vero amante della musica, si dilettava in tre strumenti diversi quali violino, flauto traverso e pianoforte. Una sola condizione, inoltre, era l'unica che lui chiedeva in cambio di poche sterline: le lezioni si sarebbero tenute espressamente di sera, dopo il calar del sole.
Accettai con entusiasmo e senza farmi troppe domande. In breve tempo le note musicali, unite a quelle della sua voce diventarono gradita abitudine, non come invece la tosse preoccupante che colpiva troppo spesso la mia cagionevole madre e di cui il mio insegnante fu messo stranamente in allarme.
A un primo sguardo d'attenzione pensai che il pallido, quasi cadaverico, viso di Atkins mostrasse dei segni inconfutabili di una qualche malattia mal nascosta; ciò che non seppi cogliere prima era invece la dura realtà della quale fu resa vittima la mamma. Consunzione, una sola parola che portò tutt'a un tratto a sbriciolare il mio cuore in una miriade di pezzi doloranti. Come previsto da un dottore, un tipetto sveglio e sicuro di sé, la malattia peggiorò molto prima di quanto avessi immaginato, tramutando la donna bella e con la schiena sempre dritta in un corpo stanco e accartocciato su se stesso, obbligato a restarsene a letto per interi giorni di fila. Questo finché tutto cambiò.
Una sera, sul tardi, disobbedii alla nostra cameriera di mezza età - Ginny, la cara e dolce Ginny – la quale aveva ribadito con evidente rammarico di non disturbare la padrona di casa inferma nelle sue stanze private.
Ciò non avvenne, e la cosa mi turbò enormemente.
In piedi al capezzale di Annabel, una figura scura e appena china sulla mamma, distesa intanto come un cadavere in una bara, sollevò in fretta il capo scuro per puntarlo su di me. Un appena percettibile sibilo proveniva intanto dalla donna ammalata. Non mi parve un lamento, bensì qualcosa che s'avvicinava a un sospiro di sollievo seguito subito dopo da un udibile "Grazie".
Non gridai alcun aiuto, pensai solo a rifugiarmi tra le braccia di mia madre che mi parve a un primo tocco troppo fredda per avere vita in corpo.
«Mamma... Mamma, riesci a sentirmi?», sussurrai tremante scorgendo nel buio della stanza i suoi occhi chiusi e una tale immobilità che mi preoccupò. Giusto un istante prima la cara Annabel aveva parlato, ma pensai ben presto di averlo solo immaginato. Mia madre pareva già aver varcato le soglie del paradiso.
Un passo in avanti del terzo figuro mi portò tutt'un tratto a sussultare, e fu allora che una rabbia tremenda montò dentro me. Come poteva quell'estraneo indegno e probabilmente ladro aver osato entrare di soppiatto nelle stanze di un innocente moribondo e restarsene lì impalato nonostante la sottoscritta lo avesse incastrato? Credeva forse di prendersi beffe di una povera figlia rimasta ormai orfana anche di madre? Insisteva a osservare il drammatico quadretto gioendo forse della morte stessa?
Rimandai giù troppo in fretta tutto quanto.
La scintilla scaturita dallo strusciare di un fiammifero sulla piccola scatoletta, mostrò il pallore cadaverico di ben due corpi a guardarmi con fare raccapricciante.
Da un angolo della bocca del mio insegnante di pianoforte, un sottile rivolo di ciò che mi parve essere sangue colava formando un fiumiciattolo infuocato, che s'andava interrompendo per congiungersi, più in basso, a dei fori rossi e ravvicinati, facenti da spicco sul collo candido ed elegante di mia madre.
Pensai di trovarmi nel più spaventoso dei miei incubi.
«Nerissa, amore mio, sta tranquilla, andrà tutto bene, vedrai». Tale e bislacca rassicurazione da parte della donna bianca come un cencio, ma – a quanto potei constatare – viva e sorridente come non l'avevo mai vista, mancò l'esatto scopo. Ero sconvolta.
Mi rivolsi titubante e con immane voglia di scappare a Mr Atkins lì al mio fianco. Il sangue sulla bocca era come per magia scomparso, spazzato via da un fazzoletto inamidato, quest'ultimo dileguatosi poi in fretta nella tasca della giacca.
«Tutto ti sarà spiegato, Nerissa. Lascia solo che sia io a raccontarti ciò al quale hai assistito. Non avresti dovuto scoprirlo così, ma – se mai servirà a non farti urlare di paura – io ti prometto che da oggi in avanti la vita di tua madre sarà felice e per molti anni a venire lontana persino dalla più ingiusta malattia».
Decisi di starlo a sentire.
Malgrado la mia mente fosse sempre stata nido di fantasia fervidissima, mancai di osservare come tra una lezione e l'altra Mr Atkins imparò a fraternizzare con mia madre. Amicizia che sera dopo sera aveva trovato terreno fertile a poter quindi mettere radici su qualcosa di più: l'amore, un tipo di sentimento tra i più puri che la mamma avesse solo raramente osato sperimentare. Fiducia e gentilezza emanate dall'uomo avevano, infine, fatto cedere entrambi a lasciare che ogni minima confidenza si dichiarasse a voce alta. Il vampirismo era una di quelle, e sorpresa fui di scoprire quanto bene l'avesse presa Annabel. Cosa insospettabile, come pure l'impegno sancito tra i due che prevedeva il lasciarsi trasformare in un essere della notte, pallido e bevitore di sangue, nell'esatto momento in cui la linfa vitale avesse voluto abbandonare il corpo affetto da consunzione. In tutto ciò non avrei dovuto avere voce in capitolo, soltanto la scelta consapevole di seguire il suo esempio oppure di decidermi a condurre un'esistenza da umana. Scelsi la seconda. Non ero affatto pronta per frenare la mia crescita e vagare nella notte nascondendomi nell'ombra. L'eternità non mi si addiceva, mi ripetevo, ma mi sbagliavo. Il destino ci riserba inaspettate sorpresine, la mia giunse quando, solo pochi giorni dopo, un piccolo taglio in giardino mi ridusse a stare a letto, febbricitante e con le ore contate. Un'infezione avevo in corso nelle vene, come un veleno che, sapevamo, avrebbe fatto poi tutto il resto. La mia voglia di vivere fu tuttavia molto più forte di ogni timore e, dunque, con la benedizione di entrambi i vampiri, accettai di trasformarmi.
Un morso delicato ma al tempo stesso doloroso per mano del mio nuovo padre mi concesse la resurrezione, e mi sentii tutt'a un tratto libera da quella febbre e dal sudore causato dalla morte, signora inclemente che in quei giorni avevo avvertito così tanto vicina.
La famiglia era dunque al completo, un trio inseparabile di non morti, pronti a far sparire ogni loro traccia da quello spazio di vita londinese riserbato a chi di sangue ne aveva ancora nelle vene.
Non ho mai fatto del male a nessuno, sia ben chiaro, e il merito va tutto a Mr Atkins, il quale, oltre all'averci regalato il suo cognome e una vita tutta nuova in maniera gratuita e disinteressata si prese cura fin da subito di me e di mia madre, insegnandoci ogni cosa. Il modo con cui amava madre e figlia sorprese entrambe fin da subito. Non avremmo potuto sperare in un migliore salvatore, e fu così che durante i molti anni a venire il mio patrigno non era mai venuto meno al suo buon senso dato dall'uomo meraviglioso qual era. Aveva ottenuto il giusto posto che gli spettava tamponando laddove lo spettro troppo assente di mio padre non sarebbe più tornato per riuscire a rimediare.
Annabel Atkins, la donna dai folti e bellissimi capelli di fiamma che in quel presente istante mi affiancava, sollevò allo stesso modo di un ambito trofeo la buffa creaturina fatta di ritagli di stoffe appena venuta al mondo da quel suo impeccabile lavoro di cucito. La osservava attentamente con uno sguardo molto critico.
Riflettei sul sorriso sincero che al contempo abbelliva il visino perlaceo di mia madre. Incredibile mi parve immaginare come una sola bambola di vecchi rappezzi ne rendesse così innaturalmente sereni i lineamenti delicati. Più difficile mi era tuttavia pensare che una vita spesa al buio, a scapito di una seconda vissuta all'insegna del sole, la rendesse tanto calma e appagata. Sapevo quanto Annabel adorasse la tiepidezza del sole, le belle giornate senza neanche una nuvola l'avevano sempre messa di buon umore. Nonostante per la vampira non vi fosse più occasione di una visita nella grande capitale in pieno giorno, avendo dunque già da tempo rinunciato a malincuore a passeggiate e frivolezze per le strade sempre piene e brulicanti di carrozze e tanta vita, era solita non darlo a vedere. Mi dicevo avesse trovato molto altro per cui vivere, e il mio patrigno era la prova.
A guardarla in quel momento giudicai il nostro scorrere del tempo egoista e inafferrabile, dovendo ammettere che il passato era solo un lontano ricordo, e che senza alcun dubbio tutti quanti noi eravamo cambiati pur restando gli stessi d'aspetto. Quello che dapprima era stato, era infine tramontato per sempre.
«Sei felice, mamma?», domandai dopo un momento che mi parve lungo interi lustri. Non seppi dirmi il perché di quel quesito, pur essendo ben conscia di quel che la mamma avrebbe risposto.
La donna terminò di ispezionare la sua bambola per poi scoccarmi un'occhiatina di sospetto. «Nerissa, piccola mia, sicura di stare bene?», replicò con una nota sarcastica.
Ero sana come un pesce all'apice della sua vitalità, e di questo mia madre era certamente sicura. Ciononostante, non mi chiese se pur io fossi felice, e, probabilmente, non avrei neppure avuto da offrirle una lesta e incontestabile risposta. Talvolta stato d'animo e salute vanno unite a braccetto, di conseguenza se si è fortunati da scampare a un malore si diventa felici. Non ero malata né mai avrei potuto infettarmi, eppure al mio spirito non pareva importare.
Certe cose si dimenticano, come il fastidioso moccio al naso durante un brutto raffreddore, la gola che pizzica, un semplice mal di pancia. Avevo forse dimenticato anche cosa soleva dire sentirsi più vivi ed energici in seguito a un evento di eclatante portata? La cosiddetta calma dopo la tempesta. Uno stato di benessere si avverte, dopotutto, dico bene, lettore? Probabilmente, tuttavia, la felicità mi era stata portata via assieme alla mia defunta umanità.
«Povero il mio Benedict! Quel giovanotto gli farà perdere l'uso delle orecchie una notte o l'altra!».
Con la mente e lo sguardo rivolti altrove non mi resi affatto conto della stridente musichetta che finalmente aveva cessato di farsi strada tra le corde del violino lamentoso.
«Bene, Nerissa, direi che per questa notte possa bastare. Credo proprio che queste bambole siano sufficienti». Un lumacone strisciante ai miei piedi s'era fatto viscida attrattiva nel mentre che i miei pensieri s'erano persi in meandri segreti. «Sei libera di andare ora, ti ringrazio, mia cara».
Nessuna delle due aveva realmente contribuito alla creazione di un numero soddisfacente di bambole, e che fosse almeno in parte idoneo al bisogno di altrettante bambine londinesi. Ma Benedict Atkins aveva terminato la consueta ora di lezione musicale e mia madre risultava fremente di ricongiungersi al proprio compagno e di passare anche quelle ultime ore notturne standogli accanto.
Mi liberai da quella specie di bambola cucita per metà, un occhio pendente dal filo sottile che non ero stata in grado fissare per bene alla palla di stoffa riempita con trucioli di segatura. Pensai subito dopo che avrei dovuto tener fede alla promessa, così riacciuffai il mostriciattolo con un'orbita sfuggente e lo indicai verso mia madre, come a rassicurarla del contributo che pur io volevo offrirle ma in modo per nulla forzato. Lei annuì in un cenno silenzioso di gratitudine, dopodiché, cesta sotto braccio, mi affiancò su per la passerella in legno dell'illuminato porticato.
«Delle briciole di formaggio così in vista non mi pare vadano di moda tra le signorine per bene», mi sussurrò all'orecchio Annabel con un cipiglio solo un po' più severo di quando esigeva una schiena ben dritta e un portamento regale.
Non ebbi occasione di potermi difendere, troppo presa dall'inchino un po' goffo e impacciato che il ragazzo con lo Stradivari assassino di timpani riserbò all'indirizzo di mia madre una volta raggiunto l'ingresso principale.
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