Capitolo 29

Bella cera e sapore ferroso

29.

Il buio che seguì al crepuscolo di quella nuova notte mi abbracciò col suo manto freddo e trapuntato di stelle non appena uno dei miei stivaletti oltrepassò la soglia verde e scrostata.

Inalai profondamente l'aria satura di mille odori assorbendone il più possibile nelle narici e riuscendo a riconoscerne la maggior parte tra i quali spiccava molto forte l'aroma buono del basilico coltivato in giardino.

Ridiscesi i pochi scalini del porticato e mi voltai a rimirare la facciata della casa con le sue finestre illuminate, uno dei pochi indizi che portava a intuire ci fosse vita nel pittoresco cottage "dei dormienti".

Erano state nottate nervose le ultime, che avevano seguito vicende dai toni diversi e cangianti, rievocazione di ricordi mai veramente assopiti e una breve gitarella alle porte di Londra da parte dei miei genitori a comando del carretto trainato dal docile Gilbert. Riguardo a quest'ultima parte, ammetto lo stato di perplessità in cui mi pareva di essere, ahimè, piombata nel momento esatto che la mia mano non smetteva di salutare, rivolta al retro del mezzo a quattro ruote. Trapassando aria fredda al di là del davanzale oltre cui mi sporgevo, tentavo di scorgere il viso pallido di Lawrence Holmes, su cui mi veniva ricambiato un accenno di sorriso mentre il carretto procedeva sul sentiero allontanandosi dalla mia casa a trotto costante.

Avevo avvertito una certa delusione nel vederlo andare via, in seguito alla lunga confessione circa il passato che il vampiro aveva deciso di condividere, forse, per la prima volta con qualcuno in tutta la sua immortale esistenza. E per qualche ragione aveva scelto proprio me, lasciandomi poi svuotata e piena allo stesso tempo, un miscuglio di emozioni contrastanti che oscillavano tra la soddisfazione di aver finalmente colmato la mia mancata conoscenza circa i suoi natali e una cruda amarezza nel venire a scoprire le curiose modalità di ogni singolo accaduto.

Se ve lo steste domandando, voi che indugiate ancora tra queste pagine oramai ingiallite dal tempo e dall'inchiostro inevitabilmente sbiadito, Lawrence abbandonò la mia camera subito dopo che le proprie malinconiche confidenze furono giunte a galla. E se ancora è vostro interesse sapere anche questo, la mia poco indulgente madre non ebbe la notte dopo l'ardire di rimproverarci per la poco congrua condotta adottata a sua insaputa.

Perciò tengo a riferire che l'uscita di scena da parte di Lawrence non fu affatto causata da un qualche malinteso ben celato dalla rossa vampira, bensì dalla sincera preoccupazione dei miei stessi genitori di riportare il loro giovane ospite dritto dal suo patrigno e spiegare a quest'ultimo la scomoda faccenda del poco sangue disponibile nella nostra dispensa.

Prevedibile fu scoprire quanto il gentile atto solidale del signor Walker si riscontrasse pure nella propria accordanza in un altro gesto totalmente affine con la tipica posizione genitoriale in cui riversava assieme agli altri adulti, ossia che i rispettivi figlioletti avrebbero fatto meglio a restarsene chiusi in casa ancora per qualche altro giorno.

La punizione era dunque a noi giunta, o almeno mi piacque pensarla così, e quando mi vidi poi assolta da quella prigionia casalinga non persi occasione per sgattaiolare all'esterno.

Porsi l'udito ai suoni della campagna e tutto mi parve sprofondato nel classico silenzio notturno che ci si aspetterebbe da una normalissima campagna addormentata. Gli occhi vagarono per un po' sul giardino oramai rinsecchito dalla fredda stagione, e soppesai l'idea di ritornarmene dentro e affiancare mia madre con la creazione di nuove bambole di stoffa oppure preferire di aggirarmi nei paraggi per godermi un po' di sana libertà.

Alla fine, ornata del mio parasole e di un grazioso cappellino alla marinara, raggirai l'antico cottage in pietra e mi spinsi sul retro laddove il piccolo capanno adibito a una stalla piuttosto minuscola per adempiere a tale scopo ospitava un destissimo Gilbert nonostante la tarda ora. Ancor prima di varcare l'ingresso lo scoprii insolitamente vigile e irrequieto, coi suoi sbuffi e nitriti sommessi che spezzavano la quiete di quel pezzo di terra ben curato.

Era del resto un cavallo notturno, abituato com'era a dei ritmi certamente inusuali perché tipici della mia famiglia, tuttavia c'era qualcosa che non quadrava e che si rifletté subito in me come un effetto indiretto della natura empatica tipica di un vampiro.

Mi avvicinai al capanno con fare felpato, e mi tenni volutamente pronta a impugnare il parasole in entrambi i palmi e a innalzarlo di contro a un possibile chicchessia intrufolatosi nella tenuta.

Aguzzai i miei sensi tutti insieme nel mentre che mormorii sommessi si facevano udire dall'interno, simili a note sussurrate di un'ipnotica cantilena.

Di chiunque si trattasse non era umano, e il lievissimo formicolio che iniziò a solleticarmi la pelle delle braccia al di sotto del tessuto me ne diede la certezza.

Feci il giusto carico di coraggio e spalancai la porta brandendo il parasole a mo' di una spada, quindi gridai con voce ferma: «Chi è là?».

Nell'immediato seguirono un urlo e un tonfo pesante e poi la risposta al mio quesito: «S-s-sono io! N-N-Nicholas!».

«Nicholas?! Dov'eri finito?».

«S-s-sono terribilmente desolato... I-i-i-o non sapevo come comportarmi dopo t-t-t-tutto quello che-»

«Va tutto bene, Nicholas, non hai motivo di dispiacerti così», pensai a rassicurarlo dopo vari altri tentativi, cercando di mettere un freno a quel suo gesticolare nervoso che accompagnava una lingua goffa e balbettante.

Non serbavo rancore nei confronti del ragazzo, ma ritenevo ancora difficile accettare come lui non fosse riuscito neppure a prendere in considerazione l'idea di farsi vivo - permettetemi l'ironia - e rassicurare noi tutti sulla propria incolumità. Non dopo tutto quello che avevamo passato. Durante le antecedenti notti mi ero quasi rassegnata a pensare che davvero il licantropo dalle lunghe e affilate zanne si fosse avventato sulla povera figurina dell'impaurito Nicholas e avesse fatto di lui un bocconcino prelibato di vampiro. E invece eccolo lì, a raccontarmi adesso, assieme a un ritrovato balbettio nella voce, come la vergogna di essere fuggito via a gambe levate per il raccapriccio vissuto al cimitero lo avesse fatto desistere fine alla fine; almeno fino a quella notte in cui ne avevo scoperto la presenza nella piccola stalla, rifugio improvvisato per la sua mente tanto turbata e indecisa se bussare o meno alla mia porta.

«Ho a-a-avuto una paura così g-g-grande! Non avevo mai v-v-visto una bestia simile, così p-p-pelosa e ag-g-gressiva e-»

Non permisi al vampiro di tormentarsi ulteriormente che gli fui più vicina per ben scrutarlo in volto.

«È perfettamente normale provare paura», dissi sorridendogli, e per la seconda volta mi ritrovai a guardarlo negli occhi chiari. «Io e Lawrence abbiamo corso un grave rischio. Riporre fiducia in un licantropo che era lì lì per trasformarsi... Nessuno di noi, te compreso, avrebbe saputo dire quanto tempo ci avrebbe messo, tanto più cosa avrebbe comportato il suo istinto da bestia».

«Io ne ho sentito parlare! Si raccontano un mucchio di cose sul loro conto. In un libro si raccontava persino mangiassero carne di vampiro!».

Rimasi d'improvviso costernata e non nascosi una smorfia di disgusto che riuscì a strappare uno sbotto di risata al ragazzo.

«Bè, questo non so dirtelo e comunque non intendo essere la prima a sperimentarlo, assieme ai paletti di frassino che si soul dire abbiano nuociuto contro lo stesso e illustre Dracula», ammisi esibendomi ancora in faccette buffe ed esageratamente allarmate.

«Ti va di fare due passi?», domandai poi indicando con la punta del mio ombrellino la campagna davanti a noi. «Ne ho decisamente bisogno dopo questo isolamento in camera da luna piena».

«Mi piacerebbe molto. Ti accompagno volentieri», asserì Nicholas Johnson rendendomi un'altra volta evidente come fosse ben capace di controllare, se non addirittura frenare, la sua fastidiosa balbuzie semplicemente calmando i suoi nervi. A quanto pare, e come già il vampiro aveva tenuto a precisare tempo prima, ero io la causa di un simile miracolo.

Ci incamminammo lungo il sentiero dando le spalle al mio cottage. Nicholas mi affiancava solerte, armonizzando i suoi passi coi miei. Era più alto di me di diversi pollici, di stazza massiccia e dai tratti più aguzzi di quelli di Lawrence Holmes, che ne facevano quindi esaltare una maggiore parvenza di maturità.

Percorremmo la via maestra senza dirci una parola, con la luna ritornata sotto sembianze di una falce stagliata su di un cielo color grigio fumo. Sarebbe stata una notte di pioggia, riuscivo a sentirne dei flebili accenni nell'aria portati dall'umidità sempre più palpabile.

Percorremmo pressoché una manciata di passi, che un fragoroso scalpiccio ci fece voltare entrambi, e solo per vedere un Lawrence Holmes parecchio scarmigliato avvicinarsi a grande velocità coi lembi del soprabito che gli si aprivano sul petto.

Il vampiro mi si fermò di fronte dedicandomi un sorriso che però s'andò nell'immediato affievolendosi, lasciando solamente una linea dura e ben chiusa.

«Nicholas?», ribadì sinceramente sorpreso Lawrence tirando in causa il ragazzo a me vicino.

«S-s-sì, eb-b-bene... Eccomi qui!», rispose ridacchiando nervosamente quello.

Scossi divertita la testa e mi apprestai ad aiutarlo: «Nicholas mi ha spiegato il tutto, Lawrence. Non c'è niente che possiamo per rimproverarlo per quel suo abbandono improvviso durante la nostra missione. È tutto a posto>>.

«Bene...», mormorò Holmes, ma non mi parve molto convinto. Per qualche ragione insisteva a fissare la giacca di Nicholas, laddove in un punto che riuscii ad adocchiare anch'io un filino di spago tranciato faceva supporre la perdita di un bottone.

Mi accorsi poi anche del foglio di carta ripiegato in più parti che faceva capolino tra le dita magre di Holmes, ma che lo stesso pensò presto a nascondere al mio sguardo ricacciandoselo nella tasca dei pantaloni. Mi parve di avvertire nei suoi modi affrettati un non so che di nervoso, come se solo un momento prima fosse stato sul punto di mostrarmi quel foglio e poi avesse deciso tutt'a un tratto di non farlo più.

Poteva essere per via della presenza inaspettata di Nicholas?

Non feci domande e scacciai tutto dalla mente, e mi ritenni in dovere di afferrare le redini di quella situazione di stallo e comandare il mio gruppo a seguire i miei passi.

Non ci fu bisogno di esprimerlo a voce che già i due vampiri mi furono dietro come due docili cagnolini addestrati. Proprio non capivo come e perché nessuno dei due riusciva più di tanto a tollerare la presenza dell'altro.

La cocciutaggine di entrambi non aveva un vero senso per me, ma ero fiduciosa che se l'avrebbero fatta passare. Era solo questione di tempo e sarebbero presto diventati normali amici. Almeno lo speravo.

Strada facendo e senza rendercene conto giungemmo davanti alla nera cancellata del cimitero, le cui sbarre lunghe e dritte terminavano in alto in aguzze foglie di ferro; quelle stesse che si riflettevano sotto le nostre scarpe attraverso ombre ingigantite e perciò inspiegabilmente minacciose.

L'ingresso principale era aperto dando libero accesso a chiunque, e mi sembrò come se quel luogo ci stesse chiamando a sé in un muto atto di benvenuto.

«Questo è molto strano», mugugnò sospettoso Lawrence.

«A quest'ora Bob non dovrebbe aver già chiuso ogni ingresso?»

«Un motivo in più per entrarci a dare un'occhiata».

«E se ci fosse la polizia? Dopotutto, Bob è ritenuto un sospettato», ribattei.

«Non è forse stato Sherlock Holmes in persona a ritenerlo libero di andare via da Scotland Yard?».

«I-i-inoltre non credo di s-s-sentire voci o altro provenire dall'i-i-interno», parlò intromettendosi Nicholas e portando in questo modo Lawrence a scoccargli un'occhiatina di sfida. Nel suo sguardo mi parve di cogliere pure un sentimento di accettazione. Dopotutto, anche Nicholas ci aveva azzeccato, e di questo Holmes dovette dargliene merito.

Dovetti, dunque, dare ragione a entrambi.

Così, nel mentre che ci introducevamo nel camposanto silenzioso adocchiai il cielo sopra di me tanto per assicurarmi che la luna non fosse impazzita e si fosse arrotondata come per magia.

Come previsto, il cimitero riversava in uno stato di tranquillità, con le lapidi e i mausolei facenti da culle per l'eterno riposo dei propri dimoranti.

Solo un rumore picchiettava nelle orecchie creando un eco che si propagava in tutta l'area, e che scoprimmo, poco più avanti, appartenere all'assiduo lavoro di una pala brandita in alto e subito dopo fatta affondare nel terreno da due braccia muscolose e inarrestabili.

Bob Codafolta ci dava le spalle a schiena ricurva, intento a flettersi in avanti e poi all'indietro per gettarsi alle spalle la terra della fossa sui cui stava lavorando.

Il custode avrebbe in tutta probabilità dissentito circa la nostra irregolare incursione al cimitero, eppure in quel momento non parve neppure accorgersi della nostra presenza.

Lo guardammo asciugarsi la fronte con la manica della camicia per poi barcollare vistosamente all'indietro mentre tentava invano di cercare un sostegno appigliandosi alla pala.

Subito il mio gruppetto fu al fianco stretto dell'uomo e insieme ne sostenemmo il peso. Bob non tentò alcuna vaga sorpresa nel scoprirci tutti lì, e mi bastò osservare i tratti del suo viso per capirne il motivo. Profonde occhiaie nere scavavano sotto le palpebre del licantropo, cerchi scuri che parevano sul punto di infossargli gli occhi. La pelle tesa rimarcava ancor più gli zigomi aguzzi e la fronte preoccupata solcata da rughe orizzontali mostrava il custode in una nuova veste, come non lo avevo mai visto prima.

Tutto in lui, dall'espressione stanca alle forze che l'avevano in quel momento abbandonato, portava alla luce l'uomo debilitato dal suo ultimo mutamento da plenilunio. Mi sembrò quasi sul punto di afflosciarsi e stramazzare al suolo come un animale ferito.

«No, ragazzi miei, le mie gambe sanno ancora come sostenermi», si lamentò con un filo di voce il custode e sbracciandosi come un uccellino che riprovi a rimettersi in volo dopo essere precipitato.

Nessuno dei tre provò a contraddirlo e in men che non si dica la mole sorprendente di Bob si fece nuovamente portavoce di una forza riacquistata come per convincerci del fatto che non avesse bisogno dell'ausilio di nessuno.

«Non avete una bella cera, signor Codafolta, e avete persino dimenticato di chiudere i cancelli all'entrata», commentò preoccupato Lawrence, al che l'uomo - che lo sovrastava di molto in altezza - tornò a far cadere la sua maschera di finto vigore e disse: «Non qui... Seguitemi». Non badò a nascondere una veloce occhiata di circospezione nei confronti dell'area circostante.

Raggiunto un punto pressoché isolato del cimitero, seguimmo Bob verso un piccolo edificio dalle sembianze di uno dei tanti sepolcri lì presenti. L'intera facciata frontale in marmo veniva ricoperta da un intreccio di foglie di edera, e una volta varcata la soglia scoprimmo trovarci in un ambiente piuttosto umido ma arredato, sebbene in maniera modesta, secondo l'uso per cui era adibito: un modesto ufficio.

«Perdonatemi se vi sembro così tanto misterioso, ma meglio evitare orecchie indiscrete.

Quelli di Scotland Yard non mi hanno ancora perdonato per la faccenda delle misteriose riesumazioni», parlò a voce un po' più alta il custode dopo essersi richiuso la porta alle spalle. Un paio di candele e un lanternino pendente dal soffitto illuminavano l'ambiente.

«Non è colpa vostra», feci presente a Bob mentre scansavo un secchio con alcuni attrezzi da lavoro all'interno.

«Ah, lo so, signorinella Atkins, ma c'è chi ancora tra di loro mi addita come un possibile sospettato per la morte di quel dottore passato a miglior vita. Il cimitero sarà ancora per un po' sotto sigilli, e ancora si sentono in dovere di venire a farmi visita nonostante il bravo detective mi abbia scagionato da ogni accusa».

«Il bravo detective è Sherlock Holmes, dico bene?», s'illuminò di colpo Lawrence.

«E chi altri se no! Quegli altri idioti del dipartimento non sono che femminucce troppo preoccupate a tenersi ferme le sottane sotto un colpo di vento in confronto a lui. Voglio dire, non sembrerà tanto più massiccio della tua amichetta, ma in fatto di cervello batte tutti, garantito!».

Scoprii Lawrence sorridere con certo orgoglio come se l'acume di Sherlock Holmes tirato in ballo fosse dipeso interamente da lui. Io dal mio canto sorvolai sopra quel commentino un po' canzonatorio che mi era stato rivolto.

«Spero solo che uno di quei piedipiatti non abbia deciso di venire a trovarmi proprio... », dicendo questo, Bob estrasse dal taschino della sua camicia un fazzoletto di stoffa e non più così bianco come un tempo, per passarlo sulla fronte e tamponarne il sudore. Nel farlo notai un marcato tremolio nelle mani. Qualcosa lo turbava. Il cuore tamburellante nell'ampio petto la diceva assai lunga circa tutto ciò che lo preoccupava.

«C'è qualcos'altro che vi turba, Bob?», domandai quindi senza mezzi termini.

Quello mi puntò addosso le nere iridi, e pensai che non assomigliassero per nulla a quelle invece grandi e gialle, oltre che minacciose sopra ogni limite, del lupo grande e grosso con cui avevo rivaleggiato qualche notte addietro. Queste m'imploravano adesso, due pozze colme di paura e inaspettata incertezza.

«Io... Io non ricordo niente di niente!», sbraitò a una certa l'uomo lasciandosi cadere all'indietro su una sedia sbilenca, che per un pelo non andò distruggendosi sotto il suo peso. Nicholas ebbe un contraccolpo piuttosto vistoso che lo portò a fare un saltello all'indietro per lo spavento. «È tutto così confuso - come dopo ogni trasformazione, certamente -, ma stavolta era diverso perché io non ero nella mia cripta, impedito dal fare del male a chiunque incrociasse per sbaglio il mio cammino». Si torturò il lupo mannaro prendendosi la testa fra le grosse falangi. «Capite? Io non ricordo niente, non ricordo neppure come ci sono finito con le mani inzuppate di sangue e nella bocca il sapore ferroso di quello! Ho ucciso qualcuno! Che il buon creatore mi perdoni, ma ho ucciso qualcuno!».  

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