Capitolo 28
Tacco squadrato e verde d'Irlanda
28.
Mentre la porta della camera personale dei miei genitori veniva richiusa producendo un leggero cigolio, un discreto colpo di nocche sul legno duro si palesò al di là della mia soglia.
Non fui sorpresa quando trovai l'espressione esitante, tipica di chi non riesce a nascondere un'evidente agitazione, e uno sguardo circospetto che il giovane vampiro faceva correre da una parte all'altra del buio corridoio.
Il motivo mi fu chiaro nel momento in cui, dopo il mio muto invito a lasciarlo entrare, Lawrence Holmes si precipitò all'interno e, sollevato, si sentì libero di parlarmi a bassissima voce: «Non sono sicuro che tua madre approverebbe».
Annuii allora accordandomi con lui.
Gli feci cenno di sedersi, ma prima pensai bene di acciuffare il topo Basil per impedire di finire schiacciato sotto il peso del ragazzo ed evitare così una poltiglia bianca di ratto.
Lawrence alle volte mi appariva tanto impacciato e oltremodo goffo come un bambino che impari a camminare. In quella circostanza lo scoprii molto più del solito.
Collegai quel suo strambo atteggiamento - anche se non del tutto nuovo - al fatto di trovarsi come ospite inconsueto tra le mura della casa dei dormienti nonostante egli stesso avesse tentato di declinare l'invito a restarci anche per tutto il giorno a venire.
Ma nulla poté contro i miei genitori, i quali per mezzo di una ferrea insistenza ne avevano già deciso gli eventi, complici l'alba che stava per accingersi a tornare e il pericolo non meno rimarchevole di Bob Codafolta che, sotto mostruose sembianze di un enorme licantropo, gravava su quello sprazzo di campagna inglese, o forse anche sull'intero territorio londinese.
Deciso il da farsi, una camera degli ospiti - la sola e unica che si trovasse in tutto il piccolo cottage - era stata accuratamente preparata da mia madre. Lì, lei supponeva, Lawrence sarebbe dovuto rimanere, senza immaginare che invece il suo disubbidiente ospite avrebbe avuto l'ardire di sgattaiolarvi fuori per intrufolarsi a passo felpato nella mia stanza vicina.
Mentre il suono rimbombante del vecchio pendolo riecheggiava risalendo dal piano di sotto, stetti in allerta a orecchie spalancate tentando al contempo di avvertire un'altra volta la porta di mamma e papà spalancarsi e i loro rispettivi passi calpestare il pavimento.
Nulla vi accadde, e dunque, tanto più silenziosamente del solito, mi recai in contro a Lawrence Holmes affiancandolo sul bordo del mio letto a baldacchino.
Con le pesanti tende tirate, che bene impedivano al sole nascente di filtrare i suoi primi raggi del mattino, ce ne stemmo così immersi nel buio senza quasi un bisogno reciproco di aprire la bocca, ma solo per il semplice gusto di goderci il silenzio o meglio ancora per frenare un qualsiasi tentativo nascente di fare baccano e dunque di farci scoprire.
Basil si era intanto raccolto sul mio grembo godendo delle mie attenzioni sul suo piccolo capo morbido e di tanto in tanto scattante verso l'alto, che fiutava curiosamente l'aria quasi come colto d'interesse per l'intruso quale poteva essere Lawrence.
Ancora il silenzio dominava, lo stesso che poteva intromettersi tra l'imbarazzo di due perfetti sconosciuti qual però non eravamo, così non vidi altra via di uscita che recarmi al mio scrittoio e dare luce alla stanza per mezzo della lampada a olio posizionata sul ripiano, con accanto una pila di libri ordinatamente sistemati.
Il debole bagliore giallastro inondò a gradi gli spazi più vicini, ma lasciando comunque in ombra buona parte dell'ambiente. La luce colpì in maniera più ovattata anche Lawrence di cui scoprii gli occhi verdi seguire attentamene le mie azioni. Dovetti apparirgli oltremodo curiosa, con un topolino in bilico sul mio palmo e i capelli lasciati sciolti per metà a causa del momento che mi aveva poco prima distratta dall'ingarbugliato nido di forcine da far saltare via. Fatto positivo, non ero in camicia da notte.
Dedicai molta attenzione ai buffetti sull'animale squittente, decisamente più di quanta Basil stesso pretendesse, in quello che voleva essere un inutile tentativo di apparire impegnata, come lo era del resto anche Lawrence, a testa nuovamente china e assorto in un'attenta contemplazione delle sue scarpe.
Alla fine la pazienza del topolino vacillò improvvisamente perché cominciò a flettersi e a divincolarsi selvaggiamente per tentare una via di fuga dalla mia gabbia di falangi. Fui costretta a rimetterlo a terra, dove finalmente libero zampettò velocemente verso l'angolo più in ombra scomparendovi all'interno.
Lawrence fece scattare il capo scuro come uno di quei tanti tic che perseguitavano Nickolas.
«Il bianco topastro di mano è saltato,
ha forse il formaggio di gusto odorato?
Ma credi tu a me, quel ratto ha un perché:
il muso ha attizzato
e la fuga ha bramato!»
«Ssh! Ti sentiranno!». Corsi a tappargli la bocca per eludere ogni altro suono praticamente urlato che Lawrence poteva in maniera del tutto inappropriata tirare ancora fuori. Ma, intanto che le mie dita premevano contro le labbra semiaperte del vampiro, cozzando contro le punte dei canini un po' sporgenti, un ululato distinto e non molto lontano irruppe nella quiete di quella notte inoltrata.
Sobbalzammo tutti e due bramando immediatamente una più stretta ravvicinanza; da mia parte, spostai la mia mano dalla bocca del giovane per portarla ad avvilupparsi saldamente al suo braccio dove gli si avvinghiò artigliandone la carne.
«Per la miseria!». Ne fu sbigottito Holmes con gli occhi strabuzzanti che quasi minacciavano di fuggirgli dalle orbite.
«Lawrence, per l'amor del cielo!», sibilai a denti stretti ma senza richiudergli la bocca. Ero troppo occupata a stringergli l'arto. «Ricorda che dall'altra parte di queste mura c'è mia madre pronta a prendere la mira e colpirti con il tacco squadrato di uno dei suoi stivaletti».
Lawrence parve cogliere il giusto senso delle mie parole, ovvero la minaccia incombente e che in tutta probabilità si sarebbe abbattuta anche sulla sottoscritta.
«Tua madre, giusto», dovette ammettere allora con voce sottile e un insolito distacco improvviso.
«Non è andato lontano», constatai poi pensierosa e a viso rivolto verso il rosso scarlatto delle spesse tende, come se in qualche modo potessi essere in grado di vedere con chiarezza al di là Bob Codafolta innalzare il proprio muso peloso alla luna.
Liberai Lawrence dalla morsa in cui lo avevo mio malgrado obbligato, e quando volsi attenzione ai suoi lineamenti delicati ed eternamente fanciulleschi lo scoprii di colpo incupito oltre che ripiombato in uno sconcertante mutismo. Non che la cosa mi dispiacesse affatto, in costante apprensione che qualcun altro della casa ci scoprisse in un qualsiasi momento, eppure i suoi occhi bassi e così innaturalmente tristi mi obbligarono a prestargli particolare premura e a chiedergli che cosa fosse che lo turbasse. Ancor prima di ascoltarne la possibile risposta, in cuor mio presumetti non avesse nulla a che vedere con tutto ciò accaduto fino a quei giorni, impellente problema di scorte di sangue compreso.
«Ti invidio, sai?», ammise il vampiro riproponendomi un nuovo quesito al quale io non seppi trovare neppure una comprensibile ragione. «Tua madre è una donna davvero eccezionale, per quanto alle volte mi induca un bel po' di timore».
Non mi aspettavo di certo che il dialogo prendesse una simile e insolita piega.
Attesi un momento saggiando ponderatamente sulla lingua le parole che avrei voluto tirar fuori, ma quando tentai di far valere un po' del mio coraggio Lawrence fu più veloce e mi batté sul tempo: «Mia madre era una donna perennemente distratta, con la testa rivolta al cielo, alla natura, ai fiori, all'osservazione di come un raggio di sole potesse entrare in una stanza e colpire un oggetto da una determinata angolazione... Di conseguenza credo non sarebbe stata portata per la vita da non-morto».
«Perché lo pensi?», chiesi discreta e con qualcosa di sfarfallante che si agitava nervosamente dentro me. Ero quanto mai fremente di aspettativa per qualcosa che stava finalmente giungendo a me.
Holmes mi guardò con un pallido sorriso che trasmetteva una certa eloquenza, come se io stessa avrei dovuto già conoscere il motivo.
«Non avrebbe sopportato di rimanersene stagliata eternamente su di uno sfondo color blu notte che tende al nero funebre, quando i suoi colori preferiti erano il giallo, il rosa cipria e l'azzurro del mare in una giornata limpida. Lei amava sognare a occhi aperti e adorava la vita più di chiunque altro senza che perdesse mai occasione di ripetermelo: "La vita è un dono che va preservato, fa sempre ciò che ti rende felice. Vivi la tua grande avventura"». Mentre recitava quelle ultime parole il ragazzo fissava concentrato la luce emanata dalla lanterna a noi frontale. Si fermò pensieroso per qualche secondo come se avesse bisogno di riallacciarsi a un vecchio discorso, poi mi puntò interessato con le iridi, ed io potetti scorgervi all'interno e tutt'intorno uno scorcio della sua anima che sembrava possedere il doppio dei suoi anni da umano. «Ricordi di quando ho fatto menzione di Enya, la mia cagnolina?», mi chiese.
Feci cenno di sì con la testa. Ricordavo molto bene quel dettaglio legato al nostro primo incontro e al soprannome appioppatomi da Lawrence proprio in quell'occasione. La causa di quel particolare stava semplicemente da ritrovarsi nel fatto che vedeva le iniziali del mio nome per intero adatte a eguagliare il nome niente meno che di un cane, il suo; perciò mi era facile rammentare una così stramba circostanza.
Lawrence si mostrò compiaciuto, dunque riprese. «L'Irlanda è davvero una terra bellissima. Distese immense di aree color dello smeraldo più brillante, con le sue magiche valli e le scogliere suggestive. Si raccontano un mucchio di leggende circa popoli fatati e timidi folletti nascosti nelle foreste irlandesi. Penso sia stato tutto quello ad aver attratto così tanto i miei genitori fino a spingerli a trasferirsi là poco prima che io nascessi. Mio padre, un commerciante di stoffe pregiate, e mia madre, una donna innamorata delle tele e della natura, che ella non faceva altro che far immortalare da un certo pittore suo amico, erano una coppia molto affiatata. Lei ricordava spesso il giorno del suo matrimonio come il più bello della sua vita. Erano entrambi molto felici insieme. Un po' i tuoi genitori me li ricordano perciò ti invidio molto».
Avrei voluto sorridere per via di quel dato di fatto che riguardava il rapporto di affetto che univa la mia piccola famigliola, tuttavia Lawrence non poté immaginare quanto ero io quella a invidiarlo. La sua infanzia doveva essere stata molto felice e serena, al contrario del mio passato che non avevo ancora pensato di scoperchiare interamente davanti a lui. Potevo quasi immaginare la sua mamma rivolgere sorrisi d'amore e parole affettuose al signor Holmes, ma ancora non riuscivo a ricordare quante volte lo aveva invece fatto la mia verso un marito che non era stato in grado di farsi amare come avrebbe dovuto.
«Non è stato sempre così però, o almeno fino a quando un giorno, tornando in casa dopo la mia consueta lezione mattutina con la mia istitutrice trovai mia madre stesa in terra mentre due cameriere si davano da fare per farla rinvenire».
A quel punto avvertii un cambiamento repentino intorno a me, non tanto di tono, mantenuto sempre uguale da Lawrence fino a quel momento, quanto di luce che sulle pareti e sui nostri due visi pareva essersi fatta cangiante, se possibile un poco più tetra e che ne metteva in risalto le ombre.
Rapita da quel racconto dentro cui sentivo ormai di essere immersa come diretta spettatrice, intuii il precipitarsi degli eventi per via di qualcosa che doveva essere poi giunto a sconvolgere gli equilibri degli Holmes.
Lawrence e le sue pause frequenti mi facevano desiderare che nulla si frapponesse tra me e le sue parole.
«Un uomo... Un commerciante e insieme amico che aveva viaggiato a fianco stretto di mio padre in quell'ultimo suo spostamento lontano da casa bussò alla nostra porta per dirci che una malattia se lo aveva portato via. Da quel giorno mia madre non fu più la stessa... E non che prima di quello io per primo non avessi notato in lei dei segni di un qualche... insomma, per un figlio è assai facile notarlo, giusto?»
«Sì», risposi con decisione e un groppo in gola che mi impediva di dire altro.
«Un velo malinconico l'aveva sempre accompagnata, al quale si contrapponevano sorrisi luminosi e occhiate raggianti in talune giornate. Lei era fatta così. Tuttavia, dopo la morte di mio padre tutto questo si accentuò. Ti ho detto che una delle sue passioni era l'osservazione dei dipinti e del suo continuo provare di trarre un qualche insegnamento da ogni tela che commissionava personalmente, e che abbellivano poi intere pareti delle nostre stanze». Il ragazzo si prese una pausa, perso con lo sguardo nella dolcezza dei ricordi. «Cominciò a restarsene chiusa in casa. La sua cameriera personale mi riferiva di trovarla spesso in piedi davanti alla finestra a guardare fuori, ma non nel modo in cui era solita fare, bensì come estraniata dal mondo reale che la circondava, immersa in un vuoto nero solo a lei comprensibile.
Tentavo invano di tornare a far parte di quel suo mondo colorato e vitale, ma l'unica presenza di cui pareva importarsi era Enya, la nostra cagnolina dal pelo folto e candido come neve immacolata.
Nei mesi a seguire la nostra dimora immersa nel verde irlandese pareva essersi spenta d'improvviso, un silenzio smorzato solo dai miei continui colpi d'archetto che eseguivo di fronte alla mia paziente istitutrice». Lawrence sorrise tra sé e sé e lo feci anch'io, presupponendo divertita quanto le povere orecchie della sua insegnante dovessero risentire di un male atroce a ogni lezione di violino. Bislacco come dopo così dopo tanti anni trascorsi, il mio amico non avesse ancora imparato a destreggiarsi al meglio nello strumento. «Credo fosse l'unica vera presenza umana con cui passassi la maggior parte del mio tempo, trascorrendo il resto delle mie ore libere a vagare per il giardino e un po' più lontano, nell'intricata foresta che immaginavo somigliante a un labirinto dal quale ogni volta cercare di uscire prima che calasse il sole. Mi attraeva il mistero, assieme a quella inebriante sensazione di braccare la soluzione ponendomi dietro le tracce di orme, foglie e rametti calpestati. Mi capitava anche di mettermi a origliare tratti di conversazioni uscenti dalle bocche del personale di servizio, e adoravo fare ipotesi, dedurre e alla fine arrivare a una possibile teoria su chi avesse innaffiato il giardino e chi cambiato le lenzuola. A tavola ero solito soffermarmi sulle mani del maggiordomo che dava ordini alle cameriere, o ai grembiuli mai del tutto immacolati di quelle, che lasciavano indovinare le incombenze svolte durante la giornata.
Ci fu una volta in cui credo la mia nascente attività investigativa raggiunse picchi davvero promettenti: riuscii a liberare la mia governante dall'infamia crudele del sospetto quando la si additava ingiustamente per aver lasciato la porta d'ingresso senza mandate per due notti consecutive».
«Il metodo deduttivo ti è venuto in aiuto?»
«No, ma dopotutto ero stato attentissimo ad ascoltare la grassa e troppo chiacchierona cuoca mentre confessava alla sua aiutante che si vociferava di varie tresche notturne tra lo stalliere e la nostra sguattera. Un buon investigatore deve sempre sapersi trovare nel luogo giusto al momento giusto ed essere in gamba nell'ascoltare ciò che di più eloquente può esserci ai fini dell'indagine», spiegò altezzoso come consapevole che la sola fortuna potesse fare di lui un detective di nota.
«Poi cos'è successo?», lo interrogai fremente di sapere.
Inarcò un sopracciglio scuro. «Ai due amanti?»
«Ma no! A tua... madre», mormorai facendomi piccola piccola perché pentita di aver usato troppo trasporto in quel mio impicciarmi del suo passato.
Lawrence abbassò il mento e s'intrecciò saldamente le dita sul grembo, pronto a riprendere. «Dopo due anni trascorsi a vagare tra le mura delle sue stanze come uno spirito tormentato, mia madre mostrò un barlume di cambiamento, sebbene lento, ma che lasciava lo stesso a ben sperare.
Iniziò a interessarsi nuovamente delle mie passeggiate nella foresta, ai miei racconti che ingigantivo apposta per sorprenderla e alle poesie in rima che mi inventavo per lei così su due piedi. Era sempre stata solita spronarmi a fare quello che mi piaceva di più, e in quel lungo periodo appena passato non avevo fatto altro che rimpiangere i nostri bei momenti, ai quali tante volte si univa anche mio padre, trascorsi in giardino a parlare di terre lontane, avventure di pirati e misteri irrisolvibili mentre gustavamo tè e dolcetti e la nostra cagnolina scorrazzava allegra nell'erba.
Le serviva solo tempo, era così ovvio. Tutti lo credevamo, e ci piaceva l'idea che quei giorni per lei tanto bui e tristi stessero lasciando il posto a molti altri soleggiati e sereni.
Un pomeriggio d'estate predispose con contagioso entusiasmo che avremmo fatto un pic-nic, al quale avrebbe potuto prendere parte persino la mia istitutrice. La cuoca preparò per noi una cesta colma di squisiti tramezzini di carne fredda, biscotti al cioccolato - i preferiti della mamma, e ci recammo contenti nella verde vallata a ridosso della mozzafiato cascata di Skogafoss. Era una giornata di sole macchiata qua e là da banchi di nuvole bianchissime e ce ne stavamo distesi sull'erba soffice mossa da una lieve brezza.
La ricordo ancora quella poesiola che scribacchiai sul mio quaderno... Faceva parte di un breve racconto in versi che ero lì lì per terminare. Faceva così:
Nell'erba più alta il bandito si accascia,
e l'avventuriero ingannare si lascia,
ma tracce nel fango ha trovato oramai,
a non scappar via penserà più, giammai!
Con grande furore si azzuffano i due,
son simili proprio ad un asino e a un bue,
ma il mitico eroe catturarlo lo vuole,
la spada sguainata gridar fa di...»
«E poi?», incitai protendendomi verso di lui con impazienza.
«Già... E poi... Sobbalzammo tutti sull'attenti per via di un frastuono proveniente da poco lontano, dal sentiero maestro lungo il quale si scendeva giù a valle».
Restai col fiato sospeso immobilizzandomi da capo a piedi, finché dalle sue labbra le parole che seguirono parvero gettare morte dentro di me oltre che in lui.
«La piccola Enya aveva fatto impennare un cavallo che scorrazzava libero per la distesa erbosa, finendo accidentalmente sotto i colpi degli zoccoli. Si era allontanata troppo. Mia madre fu la prima ad accorrere e ... Ecco, l'incidente la cambiò di nuovo».
«Lawrence, è terribile», piagnucolai con sincero dispiacere, e mi concentrai sul pavimento alla ricerca di qualche traccia di Basil perché tutt'a un tratto bisognosa di sentire il suo cuore pulsare.
«Credo sia da quel giorno che la mamma non mi è più parsa la stessa, o almeno non più di quanto non avessimo tutti, in casa, potuto osservare mesi prima. Stavolta era diverso, Enya...».
Al sentir pronunciare il mio nome, capì come Lawrence, ingenuamente, stesse cercando in me una più attenta comprensione. E mi sembrò che lo facesse implorandomi.
«Dopo la sepoltura della nostra cagnolina ripiombò nella desolazione più nera. I segnali c'erano tutti: attacchi d'ansia, mancanza di appetito, rifiuti perenni di uscire dalla sua camera da letto. Persino il verde dell'Irlanda, che tanto la rilassava, cominciò ad apparirle monotono e opprimente.
Ogni giorno avvertivo il bisogno di ascoltare la sua voce rassicurante che mi chiedeva: "Mi racconti ancora la storiella di quell'eroe che...". Le piacevano i miei racconti ai quali molto spesso prendeva parte anche lei inventandosi personaggi e parole più adatte che andassero bene per le mie rime. Adesso sentivo solo i suoi lamenti feriti e il rumore secco di oggetti che venivano distrutti al pavimento.
Un dottore la dichiarò instabile e per questo predispose che fosse tenuta d'occhio il più possibile, ma non era facile averci a che fare e il forte dolore causato dalle rispettive perdite di Enya e di mio padre ne aveva accentuato il suo malessere interiore, il quale, probabilmente, era sempre esistito anche se tenuto assopito. Nessuno di noi altri della casa avrebbe potuto pensare che potesse essere capace di evadere volutamente dalla sua stanza in piena notte, recarsi vestita solamente della sua bianca camiciola nella piccola stalla e mettersi a cavalcare uno dei cavalli perché spinta chissà da quale folle pensiero. Fui svegliato dal nitrire frenetico dell'animale il quale l'aveva disarcionata in un punto poco lontano dalla mia finestra, e mi precipitai fuori urlando e svegliando il maggiordomo che accorse per primo.
Quando raggiunsi il suo corpo immobile notai del sangue sulla sua fronte, e quello stesso sporcava un grosso masso a lei vicino. Mia madre era ancora viva ma inerte e a occhi chiusi come addormentata, e avrebbe continuato a sembrarlo anche dopo che la vidi obbligata a letto per diverse settimane, senza più darmi la possibilità di rivederla sveglia. Non l'ho mai più rivista sveglia».
«Mi dispiace... Mi dispiace tanto, Lawrence», riuscii a dire incapace di pensare ad altro. Non riuscivo a smettere di credere come il destino fosse stato così crudele e avverso nei confronti della famiglia Holmes, e che come un altrettanto scherzo di cattivo gusto guidato dal caso le morti della vedova Holmes e dell'affezionata cagnolina avessero riguardato l'azione di un cavallo. Pensai al piccolo ritratto che Lawrence si rigirava fra le mani nella sua camera e quella donna di bell'aspetto rappresentatavi su. Pensai a suo figlio rimasto orfano e che ora era accanto a me con la schiena ricurva come per sostenere un grave peso che mai sarebbe andato allegerendosi, e tentai perfino di immaginarlo circondato da prati immensi e verdissimi con indosso abiti che si addicessero meglio alla sua epoca di provenienza.
Era dispiacere puro e semplice che provavo in quell'attimo di cruda empatia, ripescando dalla mia memoria anche ricordi inerenti a mia madre, al mio vero padre, alla nostra graziosa dimora nel distretto di Mayfair, a tutto il dolore patito e l'infelicità che era poi stata spazzata via grazie al miracoloso intervento di Benedict Atkins. Non avrei immaginato null'altro di più efficace per guarire mia madre da quella sua afflizione, e certamente anche il dono dell'immortalità a lei conferitole aveva avuto un ruolo importante nella cosa.
Aggrottai la fronte e assunsi un'espressione pensierosa per via dell'ultimo tassello che ancora mi mancava per completare il quadro delineato dal racconto di Lawrence.
Fui tentata di chiedergli spiegazioni a proposito della sua trasformazione in creatura della notte, ma uno scricchiolio sospetto mi obbligò ad ammutolirmi e a restare in attesa. Scoprii poi trattarsi di Basil che si divertiva a zampettare per la stanza.
«L'Irlanda è davvero una terra bellissima, Enya», ribadì dopo il giovane vampiro spezzando ancora il silenzio della camera.
«Potresti ritornarci un giorno».
Lawrence abbassò il suo sguardo e lo feci anch'io. Entrambi guardavamo dritti davanti a noi su prospettive diverse, ma in fondo in fondo con un unico e stesso pensiero. Sapevamo bene e in egual misura quanto fosse difficile per un vampiro affrontare un lungo viaggio senza il bisogno vitale di scampare ogni notte finita a un'alba incombente.
In quell'istante ricco di contrasti, fatto di suoni ovattati provenienti dall'esterno e di finta quiete all'interno, tirai delicatamente Lawrence verso di me e lo cinsi con le braccia. Il mio amico me lo lasciò fare poggiando appena la testa sulla mia spalla.
Rimanemmo così nella tenue penombra di quella parte di camera mentre l'inizio di un sole brillante e assassino pensava a rischiarare le vite di intoccabili esseri umani.
☪
NOTA DELL'AUTRICE
Voglio farvi presente questa meravigliosa canzone della formidabile Enya, che ha accompagnato la stesura di quest'ultimo capitolo ♥
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