Capitolo 24
24.
Luna di fiele e liquido scarlatto
«Ma che cosa...». Un uomo coi folti baffi e la bombetta sulle ventitré emerse dalle spalle del nostro umano scopritore con espressione accigliata.
Rifilai una secca gomitata a Lawrence ponendo così fine a quel suo acutissimo strillare che si era protratto anche quando fu chiara a entrambi la mancanza di cattive intenzioni da parte dell'investigatore più famoso d'Inghilterra, Sherlock Holmes.
«È proprio lui...», mi mormorò all'orecchio Lawrence Holmes con aria da donzella innamorata ma troppo timida per rivelarlo anche soltanto al vento.
«Sssh, Lawrence non è il momento», lo ammonii da mia parte tornando a fronteggiare il curioso gruppetto di uomini che, straniti nelle loro espressioni confuse, ci puntavano con critica attenzione.
Mi sentii tutt'a un tratto troppo esposta, come un animale da circo chiuso in gabbia, che servisse ad attirare l'attenzione di spettatori ficcanaso.
«Holmes, cosa ne pensate?», chiese l'uomo coi baffi e bombetta all'indirizzo dell'uomo citato in causa. Avrei giurato di avvertire il mio amico non-morto sussultare a tal richiamo, ma era ovvio come non fosse lui lo specifico Holmes in quel momento tenuto in atto. Naturale però mi fu anche pensare come per Lawrence il solo udire pronunciare il suo stesso cognome messo all'occasione a confronto con l'omonimo detective di cui tanto parlava la stampa fosse stato motivo di immenso orgoglio.
«Fate sul serio? Due ragazzi che s'introducono nelle carceri sotterranee di una stazione di polizia gremita di agenti! Credo di averle viste tutte!», commentò poi scuotendo contrariato la testa un terzo uomo appostatosi intanto al di fuori della nostra cella.
«Va tutto bene, Lestrade», gli si rivolse il signor Holmes dopo che ebbe riacquistato il suo personale autocontrollo. Fui convinta di avere notato un motivetto di esitazione passargli sul viso come un'ombra fuggente. «Sono convinto che esista una spiegazione», continuò dunque l'uomo magro e dal naso aquilino, che sovrastava con la sua imponente altezza il mucchietto di paglia sopra cui mancava poco sprofondassi a gambe all'aria in maniera poco consona ed elegante per una fanciulla di buona educazione.
Tale imbarazzante situazione mi portò ad associare il motivo per il quale uno degli uomini, l'umano con la bombetta e un elegante completo di tweed sotto il cappotto, mi venne in un fugace soccorso porgendomi gentilmente la mano e accompagnando il gesto galante con un sorriso rassicurante stampato sulla faccia. «Vogliate accettare il mio aiuto», disse accomodante.
«Vi ringrazio», mormorai impacciata afferrando la mano guantata dell'uomo dai baffi color biondo cenere. Ringraziai il cielo per il fatto che due guanti ricoprivano i suoi arti, permettendo così alla mia innaturale freddezza cutanea di passare tranquillamente inosservata. Mi rimisi in piedi seguita subito dopo da Lawrence.
Lisciai alcune pieghe dell'abito ristabilendo un po' di ordine nel mio aspetto che immaginai assumere connotati piuttosto disastrosi. Lawrence, al contrario, parve non accorgersi neppure di un lungo filo di paglia rimastogli impigliato ai lacci di una scarpa. Per quanto ne intuivo, avrebbe potuto anche inciampare per colpa di quello tanto l'espressione inebetita sul suo visino pallidissimo rimandava a un totale imbranamento per motivi che non vi saranno difficili da comprendere, fidati lettori.
«Ecco i ladruncoli che ci hanno tramortiti prima di levarci le chiavi da sotto i nostri nasi! Li abbiamo riconosciuti!», proruppe con un'antipatica vocina stridula una delle due sentinelle rivolgendosi al plurale per fare le veci del suo vicino collega di guardia, il quale, silenzioso, non aveva neppure il coraggio di unirsi al compare per recitare la sua parte.
«Ma come, agente, solamente un attimo addietro giuravate di non aver scorto nessuno che non fosse quanto meno somigliante a un'ombra indefinita, tanto fugacemente ha inferto a entrambi quel colpo sulla nuca, di cui parete, in aggiunta, essere guariti così tanto miracolosamente», pensò a contrariarli Sherlock Holmes con un tono che voleva apparire burlesco ma che in vero lasciava intendere un pungente rimprovero. «Direi che il vostro racconto farebbe una più che meritata concorrenza ai numerosi aneddoti narrati per mano del mio fedelissimo biografo, il dottor Watson».
«Non li leggete mai, Holmes!», gli rammentò con ardore il dottor Watson ridacchiando però divertito sotto i baffi.
«Solo perché penso il vostro stile conduca a delle vie disseminate di fatti indubbiamente reali ma che risultano inevitabilmente ottenebrati da una fervidissima fantasia oltre che da un totalmente illogico e smielenso romanticismo», ribatté con prontezza Sherlock Holmes con un'occhiata sottile rigirando chiaramente il manico del coltello dalla sua parte.
«Ora basta! Le chiavi, ragazzo!», ordinò in quell'istante l'ispettore Lestrade, introducendosi con fare autoritario e severo nella cella e allungando poi le dita che si andarono stringendo attorno al polso esile di Lawrence. A quel gesto subentrò l'istintiva reazione dell'uomo il quale allentò immediatamente la presa per ritrarsi all'indietro proprio come se un serpente lo avesse preso a morsi. Un'espressione che rasentava lo shock sfigurò per un momento il viso tondo e sudaticcio dell'ispettore quando fu più che evidente che la pelle del giovane risultava troppo fredda oltre che così innaturalmente pallida.
Lo sconcerto non durò che pochi istanti, ma ciò non impedì all'umano impressionato di osservarci entrambi con aria inquisitrice. «Bè, cosa ci fanno un giovanotto e una signorina in un posto come questo?», ci interrogò sbrigativo sforzandosi di mostrare contegno.
«Sono venuti per aiutare lui». Una voce familiare s'intromise e tutti si voltarono a guardare fuori con curiosità.
«Ah! Willy! Quasi ci dimenticavamo di te!», esclamò allegramente Sherlock Holmes facendosi largo per primo tra gli altri e lasciando la cella. Prima però sussurrò sbrigativo all'orecchio dell'ispettore Lestrade, che ne seguì subito dopo l'uscita andandogli dietro come un cagnolino.
Holmes aveva detto "Ricordate Willy, il mio informatore?"
Lawrence si raddrizzò sul posto come colpito dalla carica di un pupazzo a molla. Tutto ciò lo faceva inebriare forse più dello stesso sangue di cui ci nutrivamo.
In breve ogni componente rimasto lì sgomberò la cella, e come quelli anche Lawrence e io sentimmo il dovere di abbandonare l'ormai inutile nascondiglio.
«Che vuol dire? Cos'ha scoperto il vostro uomo?», domandò Lestrade rivolgendosi al detective ma puntando con lo sguardo il prigioniero, vicino di cella di Bob, e al quale fu concentrato poi un nervoso: «Parlate!»
«Suvvia, Lestrade, perché mai chiederlo a un esterno testimone quando abbiamo la fortuna - se di fortuna si può parlare - di discuterne vis-a-vis con ben due diretti interessati alla questione. Il mio infiltrato,Willy, confermerà solo ciò che servirà all'indagine».
«Quindi posso uscire di qui? Questa cella inizia a puzzare», si espose il giovane umano al di là delle sbarre mentre enfatizzava la sua situazione arricciando il naso storto con una smorfia di disgusto.
«Sono certo non ti farà male rimanerci ancora un po', posso affermare che Londra mi ringrazierà per un'altra notte». Lo deluse invece Holmes sorridendogli sornione. Lo giudicai per quello un vero esperto di imbrogli. Dopotutto, era anche questo che faceva di lui il più capace tra tutti i difensori di giustizia londinesi. Tutta Scotland Yard non poteva che inchinarsi alla sua caparbietà e al suo indiscutibile intelletto prodigioso.
D'improvviso un urlo inquietante ci strappò finalmente tutti quanti alla realtà in cui riversava malamente il povero Bob Codafolta.
«Penso che il tempo stia scadendo», commentò serissimo Sherlock Holmes adocchiando il punto di provenienza del lamento.
Voltò poi la sua figura sottile fino a incontrare gli sguardi intimiditi propri di Lawrence e me, e continuò con: «Posso sperare in una spiegazione più che logica, non è così, giovani amici?», riportando il silenzio tra i presenti e ricevendolo persino dal sofferente licantropo, come se con la sola forza della voce possedesse il dono di zittire ogni qualsivoglia ambiente. Nonostante il tono gioviale dell'uomo, vi era nei suoi modi un non so che di scrutatore, penetrante e così terribilmente scrupoloso, in quell'analisi sui nostri visi che parevano venir messi al giudizio di chissà quale superiore entità.
Lawrence appena dietro di me non diede cenno di voler interloquire, e a dir la verità nemmeno io ne sentivo l'impellenza. Ma se Lawrence pareva tutt'a un tratto spegnere tutta quella particolare dedizione che da tempo riservava alla nobile arte dell'investigazione, perché messo in soggezione da ben altro professionista del settore come l'infallibile Mr Holmes, allora valeva la pena fuoriuscire dal mio guscio e aprir bocca al posto suo prima che almeno uno degli umani presenti pensasse chissà quale fandonia circa la nostra capacità di intelletto.
Raddrizzai il mio ombrellino chiuso facendone appena ticchettare la punta sulla pietra del pavimento e mi appoggiai a quello esercitando una leggera pressione, volendo imitare una di quelle dame tanto belle ed eleganti nelle loro mise coordinate al proprio parasole, che spesso la stampa immortalava su riviste di moda o su uno di quegli opuscoli relativi al bon ton che mia madre teneva in bella vista sulla nostra libreria.
Sapevo di non poter raggiungere quest'ultimo scopo, ma trovai comunque il coraggio di scrollarmi via di dosso quel continuo sentimento di indugio, facendomi avanti prima che il tempo scorresse di più. Ulteriore spinta mi fu data dallo stesso custode del cimitero, che come incapace di controllarsi oltre, emise un raccapricciante uggiolio stavolta più simile a un vero verso di un animale gravemente ferito.
Allarmata scattai subito rompendo il mio contegno: «Ve ne preghiamo, signori! Il signor Bob Jones ha un urgente bisogno di venir messo in libertà! Sappiamo quanto tutto questo potrebbe apparirvi strano e tanto più inspiegabile, ma, vedete, i suoi comportamenti non sono altro che la conseguenza-»
«-di una vera e propria isteria da luna piena».
Tutti quanti, ma tanto più Lawrence e io i quali certamente non ci aspettavamo un simile risposta, ben che meno da Sherlock Holmes, sottostammo a un immobile sconcerto.
A guardare Lawrence si sarebbe detto avesse ricevuto una secchiata d'acqua fredda tanto a bocca letteralmente aperta fosse rimasto.
«Q-Questo significa... che voi lo sapete, signor Holmes...», sbiascicai timidamente al detective coi pensieri completamente annebbiati nell'oblio.
«Non consiste forse in questo il mio lavoro con il quale vi assicuro di aver stretto il più stretto sodalizio mai riscontrato persino nel più solido dei matrimoni. Un'attenta osservazione fa sì che pure una mente distratta e poco avvezza ai particolari riesca a carpire informazioni utilissime al concepimento di un quadro della situazione chiaro e distinto.
Ciononostante, mi sentirei mio malgrado disonesto a non ammettere quanto in questo caso il mio collega e coinquilino, il dottor Watson, mi sia venuto in un prezioso e singolare aiuto, possedendo nozioni di cui ammetto in piena onestà non avere dominio. Caro Watson, a voi la parola».
Prestammo adesso attenzione al viso paffuto e velato da una certa aurea di importanza, come se messo in quella nuova luce da palcoscenico il dottore avesse acquisito il primo vero perché alla sua presenza lì a Scotland Yard.
Da quei pochi racconti seguiti sullo Strand, nei quali l'assistente ribadiva più e più volte quanto Holmes fosse nettamente superiore, e tanto spesso laconico nel rimproverarlo di mancanza di senso osservativo, s'intuiva non risultasse abituato a quei sporadici interventi di parola.
Watson quindi si schiarì la gola, scattò a mo' di un soldato al suo appello e allineò la sua postura all'immancabile bastone da passeggio.
«Vi ringrazio Holmes. Dunque. L'isteria da luna piena, nota anche come "delirio di trasformazione", è una forma piuttosto comune e che prende sempre più convincimento negli studi della psichiatria, sostenendo - per farla breve - che durante il plenilunio taluni soggetti più a rischio possano riscontrare episodi di isteria. Non ho potuto non notarlo in quel pover'uomo quando durante il suo ultimo interrogatorio mostrava segnali inconfutabili di nevrosi e tic piuttosto peculiari in soggetti affetti da epilessia».
«Eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità», snocciolò soddisfatto Sherlock Holmes come da repertorio già scritto.
Lawrence annuiva passivamente con solita aria ammaliata. Aveva persino accompagnato la famosa citazione mimandola con le labbra assieme all'umano. Io, dal mio canto cacciai fuori un vistosissimo sospiro di sollievo una volta avendo chiara la bislacca situazione e il malinteso sotto cui persino il più grande investigatore londinese era incappato. Dopotutto, mi dissi, non poteva essere un mago dell'indagine sotto ogni punto di vista, e per quanto bravo potesse essere nello svolgere un lavoro non facile come il suo, risultava impossibile pensare a lui come colui che riusciva a prevedere ogni fatto e misfatto riguardante tutti quanti gli individui che ricadevano nel mirino del suo occhio osservatore.
Ciò che pensai anche però fu che tale teoria, per quanto sbagliata, racchiudeva in sé una giusta parte di verità, e non potei non pensare alla donna scarmigliata e urlante incrociata quella stessa sera al piano superiore dell'edificio. Forse la luna di fiele poteva in qualche modo influire su taluni soggetti che non fossero necessariamente affetti da licantropia.
«Converrà con me, dunque, ispettore Lestrade, che il sospettato debba essere messo in libertà il prima possibile se non vuole ripercussioni di violenza», disse poi l'Holmes adulto volgendo l'attenzione all'ispettore.
«In questo caso però non sarebbe più saggia la scelta di un ospedale?», contestò l'altro.
«No!!!», urlammo insieme io e Lawrence. L'ispettore Lestrade ci rivolse uno sguardo severo.
«Perché allora non lasciarlo lì dentro, sarà sorvegliato assiduamente da una guardia così da evitare-»
«Per un uomo della stazza del signor Jones presumo servirà più d'un agente per tenerlo fermo e impedirgli di farsi male seriamente», lo interruppe Sherlock Holmes.
«Ho visto pazienti affetti da attacchi epilettici sbattere la testa contro le mura delle loro stanze e causarsi volontariamente trauma cranici», continuò il dottor Watson come per dare man ferma al suo coinquilino.
Entrambi gli agenti addetti alla guardia dei sotterranei ebbero un moto sussultorio di puro raccapriccio al sol pensiero di riempire un proprio turno di sorveglianza davanti alla cella di un uomo avente in sé un grado così tremendamente alto di pericolosità.
«E il caso d'omicidio, di grazia? Non possiamo far uscire un sospettato, Holmes! Non di sicuro con queste nuove informazioni in nostro possesso circa la sua presunta schizofrenia».
«Isteria da luna piena», puntualizzò Watson assieme a una punta di professionale saccenza.
L'ispettore dovette quindi ritrarsi come succube di un'amara sconfitta e per mezzo di un sonoro respiro rassegnato sollevò infine il grosso mazzo di chiavi che consegnò a una delle due guardie dietro di sé. E mentre la cella veniva una volta per tutte aperta ad accogliere la definitiva liberazione di Bob Codafolta, Lawrence e io ci scambiammo a vicenda un largo sorriso di trionfo.
Il custode venne quindi scortato fuori sebbene con un po' di fatica da parte dei due poliziotti che ne reggevano il peso da entrambe le braccia muscolose.
Il respiro affannoso di chi pareva essere reduce di una corsa indiavolata lo obbligava molto spesso a piegarsi di un qualche dolore a lui solo conosciuto, inciampando sui suoi stessi passi già incerti e rischiando così di ruzzolare giù dalle scale che ci apprestavamo tutti quanti a risalire per emergere da quegli oscuri sotterranei.
Il chiasso e il fervore dentro cui mi ritrovai immersa mi riaccolse prorompendo nelle orecchie come un colpo di cannone, ma insieme qualcos'altro corse a urtare violentemente la mia delicata propensione a sentire gli odori.
Un umano, addossato a una parete e visibilmente sofferente in viso, si teneva premuto il fianco sinistro con una mano imbrattata di caldo e inconfondibile liquido scarlatto, il quale ricadeva a piccole gocce creando una macchia informe ai suoi piedi. Un agente di polizia corse fuori dalla porta vicina per prestargli soccorso e, in base a ciò che captai passandogli oltre assieme al mio gruppetto, potei capire che l'uomo ferito fosse un altro di quei tanti agenti operanti dentro Scotland Yard e rimasto vittima di una brutta coltellata durante un turno di ronda in incognito.
Distolsi subito lo sguardo dalla scomoda scenetta correndo a far scattare le iridi sul giovane vampiro che mi camminava vicino, e scoprii con quanta tenerezza il ragazzo tentava di coprirsi naso e bocca dietro la manica della giacca, sforzandosi con tutte le sue forze di allontanare la sua mente dalla dolce tentazione che il rosso e vitale liquido concedeva.
Ebbene, dunque, Lawrence ci era riuscito. Io pure. Lo stesso non poteva dirsi di Bob Codafolta la cui bestia interiore risentì fortemente dell'odore del sangue, cosicché fu più difficile del previsto tenere a bada gli impulsi animali che albergavano in lui.
Gli occhi dell'uomo, spalancati e spiritati, mandavano lampi di ferocia verso l'agente di polizia ferito, e le narici fremevano come un vero lupo che fiuti la sua preda. Questo finché non raggiungemmo il familiare corridoio intervallato da svariate stanze di uffici, e in fondo al quale riconobbi la figura nervosa di Nicholas, il vampiro dalla lingua facilmente impressionabile.
Trovammo il nostro amico intento a balbettare come una sconnessa macchina da scrivere di contro al corpulento agente che ci aveva accolto all'inizio con la strafottenza tipica di un adulto.
Adesso, invece, l'umano si teneva timorosamente a distanza dal suo interlocutore premendosi un fazzoletto sulla bocca. In tutta probabilità aveva il terrore di beccarsi una qualche mal supposta malattia dal ragazzo bianco come un cencio.
«Ah! F-f-finalmente siete t-t-t-tornati!», ci accolse con un sorriso di sollievo il pallido e freddo non-morto.
«Ispettore Lestrade!», esalò allo stesso modo l'uomo in divisa scostandosi anche se non del tutto il fazzoletto dalle labbra. Pareva alquanto risollevato, come se intrattenere Nicholas Johnson, balbuzie compresa, avesse comportato un immane fatica.
«Riposo, Jenkins», dispose l'ispettore all'altro.
«Eccellente davvero! Direi che è proprio tutto per questa placida serata in cui il crimine pare agire flemmatico, oserei quasi dire, pigro». Si scompose per un attimo il detective Sherlock Holmes fingendo uno sbadiglio che nascose dietro la grande mano affusolata.
«E ora, mio caro Watson, sto pensando che mi andrebbe una buona tazza di Earl grey corretto a soluzione sette per cento», annunciò con gaiezza che ritenetti piuttosto innaturale per una tale situazione, ma soprattutto se a pronunciarsi era l'umano e sempre inflessibile Holmes.
Colsi al volo quel piccolo cambio di toni e lanciai uno sguardo eloquente in direzione di Lawrence il quale mi rispose con espressione grave e un nuovo nervosismo negli arti che subito s'apprestarono scattanti.
Anche Nicholas si aggiunse a prestare il suo aiuto, e in breve il curioso trio di ragazzini non-morti sorreggeva il massiccio corpo del licantropo, chi da sotto un braccio chi premendo sul torace ansante al fine di impedirgli di acquattarsi a quattro zampe.
«Non sono convinto di potervi permettere di andare via così... Lasciate almeno che chiami una carrozza», disse non ancora del tutto sicuro della cosa Lestrade, lanciando occhiatine di consenso a Sherlock Holmes. Pareva pendere totalmente dalle sue labbra, che tuttavia non s'aprirono più a un suono.
«Non ce n'è bisogno, signore. Una buonanotte a voi e i nostri più sentiti ringraziamenti», mi sorprese poi Lawrence offrendo un'ultima occhiata d'ammirazione al suo idolo e ipotetico parente Sherlock. Gli ci volle un bello sforzo per spezzare quel filo invisibile di parole non dette e domande solamente pensate e incapaci di farsi avanti, e che parevano coesistere, per una qualche strana coincidenza, anche nella mente del famoso investigatore. L'uomo non si preoccupava di celare anch'egli un certo interesse per il ragazzo suo omonimo, a causa del sorriso impertinente che gli restò disegnato sulla faccia come a voler chiaramente fargli intendere di trovarci qualche cosa di curioso e insieme indecifrabile.
Se ve lo stesse chiedendo, non trovai la ben che minima somiglianza tra i due Holmes, ma non provavo interesse nel farlo sapere a Lawrence.
Alla fine e senza alcun ripensamento, fuggimmo via da Scotland Yard con il lupo a sovrastare le nostre teste. Uscimmo nel clamore della strada e percorremmo a passo instabile il percorso verso il vicolo appartato dove il piccolo carretto trainato col cavallo Gilbert ci attendeva per la seconda parte del nostro mirabolante piano.
«È s-s-stato f-f-facile!», balbettò Nicholas una volta arrivati lì. Nessuno ne imitò l'entusiasmo. Dal mio canto, mi limitai a sistemarmi al fianco di Bob mentre Lawrence, salito a cassetta, spronava il cavallo a rimettersi in marcia.
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