Capitolo 22

22.

Bella donna e triste epilogo

La piccola e scarsamente illuminata dimora del civico 17 mi accolse al suo interno in un silenzio tombale. In seguito al permesso del signor Wayne e al suo diretto invito a considerare la sua casa come fosse la mia, mi accinsi a varcare la porta chiusa di quella che ricordavo essere la stanza personale del vampiro Lawrence Holmes.

Temevo di apparirgli inopportuna, piombare lì tutt'a un tratto dopo aver approfittato di suo padre e di un passaggio gratuito. Subito però rammentai di quanto accaduto notti prima quando lo stesso ragazzo si era intrufolato nella mia camera senza temere una qualche rappresaglia dalla sottoscritta, tanto meno dalla mia riccioluta e inflessibile madre, indiscussa padrona di casa Atkins.

La porta cigolò appena sotto il peso della mia mano chiusa a pugno lì lì pronta per bussare. Mi figurai dunque sulla soglia di quella stanza, ma il vampiro che vi era dentro parve come non accorgersene, il che fu molto strano. Conoscevo ormai da tempo i miei sensi da non-morto da affermare in totale onestà quanto risultasse difficile, quasi impossibile, non accorgersi di ogni minima silenziosa presenza, suono o rumore sebbene solamente accennato che si mostrasse alle spalle.

Lawrence, a dispetto della propria natura e di tutti i derivati istinti, se ne stava fermo e in silenzio, seduto su una sedia, a testa china, completamente assorto nella contemplazione di un oggetto che nascondeva davanti a sé. Non carpii di primo acchito quale fosse la ragione di una tale concentrazione, così decisi, mio malgrado, di destarlo.

«La luna è quasi piena», annunciai su due piedi rompendo il silenzio colorato d'imbarazzo. Sorpresa fui di scoprire gli occhi vigili di Holmes posati su di me a osservarmi senza neanche un particolare stupore.

«Hai ragione. Un lupo non resiste in una gabbia tanto a lungo», disse dunque avendo colto esattamente i miei stessi pensieri. Aveva in qualche maniera continuato, come un copione di teatro già scritto, i miei stessi pensieri. Mi sorrise poi, dimentico di ciò che io stessa avevo poc'anzi contribuito a distogliere dalla mente di Lawrence. Non provò neppure a chiedermi come fossi entrata lì nella sua casa.

«Ho scoperto a tal proposito una cosa». Mi invitò invece ancora il ragazzo recandosi al suo scrittoio, ingombro come suo solito di carte e ritagli differenti. Lo affiancai. «Guarda, Enya». Ripescò tra i tanti lì presenti sul ripiano un giornale miracolosamente non sgualcito e perfettamente integro; infuriò allora con le dita girando pagine su pagine fino a giungere su di una in particolare. Non era tra i titoli più allegri quello dove Lawrence mi invitò a posare gli occhi.

Il necrologio stampato come un triste epilogo alla fine del giornale presentava una sfilza di nomi e di date, tra le quali risaltavano circondati da una linea semiaperta e dai tratti irregolari a inchiostro blu un nome e un cognome.

Frank Pickford

Glastonbury, 4 Giugno 1834 - Londra, 30 Ottobre 1895

«È piuttosto elementare, Enya».

«Senza dubbio riconosco il nome del povero insegnante universitario malamente assassinato qualche settimana fa», tenni a confermare riportando alla mente la breve ma incisiva visitina all'obitorio con tanto di odori e immagini raccapriccianti che mi parve di rivivere, ma soprattutto risentire a narici spalancate, come se vi fossi in quel momento ritornata.

«Molto bene. Adesso dà uno sguardo a questi».

Lasciai spazio e tempo a Lawrence affinché frugasse un'altra volta sotto il cumulo di carta e inchiostro, per riportare alla luce e alla mia diretta attenzione un nuovo e sempre uguale scorcio di giornale riguardante annunci funebri.

A giudicare dalla data di pubblicazione meno recente mi sorpresi di come l'eccelso vampiro fosse riuscito a entrare in possesso di tale edizione, anche se a giudicare dalla moltitudine di quotidiani e mensili presenti tutt'intorno non sarebbe apparsa poi così strana l'ipotesi che Holmes adorasse collezionare giornali di vario genere.

Il lungo e pallido indice del padrone di casa si librò dall'alto verso il basso finendo con un movimento secco sulla liscia superficie dritto su due nomi diligentemente sottolineati. 

Dorothy Earnestine Green

Londra, 11 Marzo 1826 - Londra, 14 Settembre 1895 

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Andrew Carlton Harrison

Belfast, 30 Aprile 1841 - Londra, 23 Settembre 1895   

Vi indugiai con più attenzione leggendo varie volte nomi e date, senza tuttavia riuscire a carpire eventuali conclusioni. Per quanto mi sforzassi, solo un nome mi parve di ricordare, come residuo di un sogno sbiadito ormai da tempo. Dovetti ricorrere a un aiuto più pratico, e Lawrence lì al mio fianco pareva saperne decisamente più di me.

Subito, in risposta all'evidente confusione dentro cui affogava la mia mente, il ragazzo spiegò: «Ti presento le due ignare vittime delle zucche di Halloween».

Emisi un sorpreso Ooh per poi tornare a rileggere il nome femminile evidenziato. Non mi era in effetti nuovo, anche se nella fretta e soprattutto nel momento di quel primo e raccapricciante ritrovamento avvenuto nel piccolo cimitero di campagna non ero stata in grado di badare come si deve alla scritta incisa sulla lapide dell'anziana signora. La zucca messa al posto della testa della donna aveva, infatti, catturato tutta quanta la mia attenzione. Dell'uomo noto come Andrew Carlton Harrison non rammentavo neppure un'iniziale. Sapevo solo che la sua riesumazione coincideva perfettamente con l'aver fatto la conoscenza con Nicholas Johnson, a cui il mio pensiero tornò, assieme al ricordo delle sue dita sul mio pianoforte.

«Qual è la novità?», chiesi a voce forse un tantinello alta, quasi a voler scacciare via ogni altra immagine estranea a quei fatti del presente.

«Facciamo un riepilogo veloce di numeri», disse Lawrence, facendo inavvertitamente comparire tra le sue mani un piccolo taccuino rilegato in pelle bordeaux, ospitante nel mezzo una penna che fuoriusciva da entrambi i bordi. Messa lì a mo' di segnalibro, Holmes la tirò fuori aprendo il suo taccuino all'esatto punto indicato dapprima dall'oggetto.

Cominciò a leggere raddrizzando la schiena già un po' curva di natura: «Lasciando perdere per un momento la questione Frank Pikford, prendiamo in considerazione le date rispettivamente di morte e di riesumazione proprie dei due esseri umani, la signora Green e il signor Harrison. Curioso come i giorni che intercorrono da un numero all'altro siano perfettamente quindici: quindici giorni dopo la morte di entrambi ecco che i corpi si vedono riesumati dalle fosse, decapitati e poi omaggiati quasi come per pietà da una nuova testa anche se ben più idonea a finire in una pentola e diventare squisita zuppa di zucca. Saranno secoli che non ricordo più com'è fatta una zuppa! E questo è quanto».

Sorvolai su quell'ultima divagazione, e mi soffermai a guardare insistentemente Lawrence Holmes che richiudeva con lentezza il suo taccuino quasi come per mettere un punto alla questione.

Io al contrario non demorsi, illusa com'ero stata da quella storia su cui avevo sperato, almeno all'inizio, in una svolta eclatante. «Tutto qui?», domandai. «Nessun colpo di scena o altro? Come la mettiamo col signor Pickford? Non riesco a vedere un nesso apparente tra i due cadaveri riesumati e il professore universitario assassinato qualche giorno dopo», incalzai non riuscendo a sopportare l'inconclusione a cui avevamo approdato in base alla prima operazione consistente in un semplice calcolo matematico.

Lawrence sottostava all'imbarazzo unito a una bella dose di confusione. Fu evidente per entrambi come nulla di quanto riferito non avesse portato da nessuna parte. Ed è allora che la vidi negli occhi del giovane: l'arrendevolezza. Holmes, infatti, abbassò di rimando lo sguardo, mise via carta e penna e si lasciò sprofondare tristemente sulla sedia.

Rimanemmo per un po' in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Io che mi lasciavo sopraffare da un senso sempre più profondo di impotenza mentre probabilmente Lawrence pensava a quanta delusione avesse inferto al più grande, e retto tra tutti gli uomini, investigatore dell'Inghilterra. Proprio sopra la sua testa, ritratti a carboncino e ritagli di giornali ospitavano stampe dei due uomini e compagni di avventure investigative, i quali mi scrutavano a pupille sempre fisse, e avrei pure azzardato con un disappunto catturato dall'artista, più evidente sulla faccia di Sherlock Holmes.

«Continuerò a tenere d'occhio i necrologi. Deve esserci un indizio che ci indichi quale sarà la sua prossima mossa», pronunciò con tono più sicuro ma con strascichi di un sepolcrale tormento.

«Intendi che il numero quindici possa essere la chiave del mistero?», azzardai per nulla convinta. «A meno che non si tratti di una bella coincidenza!».

«Niente coincidenza, Enya! Tienilo a mente!». L'impeto con cui il non più tanto sconsolato vampiro mi ammonì mi strappò un risolino.

«Direttamente dal tuo compare Sherlock Holmes?», lo beffeggiai.

«Proprio così», attestò dunque con fierezza.

Sollevai ancora una volta il capo sulla parete tappezzata dalla continua presenza del detective protagonista di ogni posa, il magro viso e spigoloso e il cappello da caccia calcato in testa. La pipa, immancabile dettaglio, contribuiva a delinearne la peculiare personalità di cui era tanto noto sulle bocche dei londinesi.

«Coincidenza o no, dovremmo seriamente cominciare a pensare a un piano efficace per riuscire a liberare Bob Coda folta dalle grinfie di Scotland Yard», dissi con fermezza, e Lawrence fu d'accordo.

Decidemmo per una passeggiata che, speravamo, ci avrebbe aiutati a riflettere meglio sul piano da attuare la notte seguente.

Così, mentre abbandonavo la camera di Holmes dedicai un'ultima attenzione alla bella donna raffigurata nel piccolo dipinto che risiedeva incorniciata laddove Lawrence aveva insistito a guardarla all'inizio della mia irruzione lì dentro. 

* * *

Terminammo di scervellarci circa il nostro piano per liberare l'uomo lupo dalla prigione dentro cui era stato gettato con la grave accusa di omicidio, dunque continuammo a calpestare il suolo umido e appiccicaticcio della deserta via che a solo qualche ora più in là si sarebbe nuovamente riempita di gente d'ogni tipo, impegnata nella vendita o nelle compere di merci tra le più disparate.

Il mercato di Covent Garden, gremito nella seconda metà del giorno, diveniva di notte teatro di scenari molto poco colorati e allegri, esponendo agli occhi e alle orecchie di chi osava metterci piede voci e immagini che avrebbero fatto tremare e poi crollare un intero convento di suore.

«Cosa puoi dirmi della donna ritratta nella tua camera?»

Mi pentii nello stesso identico istante di aver posto un quesito di così eccezionale portata, a causa dell'evidente sorpresa che tramutò il mio amico vampiro in un cadavere ben più morto e colpito ormai da ore dal classico rigor mortis.

Il ragazzo, pur continuando a camminarmi vicino, assunse sul suo magro visino dei lineamenti contratti. Le labbra duramente serrate e gli occhi spalancati oltre ogni limite contribuivano a farlo apparire, se è possibile, più morto di quanto già non lo fosse.

«Mrs Catherine Miller. Mia madre è la donna del ritratto», disse con voce cavernosa. Qualcosa in lui mi trasmetteva un groppo in gola oltre che un cattivo sentimento. Fui sorpresa da come il ragazzo ne avesse citato il cognome da nubile anziché quello solito acquisito dopo il matrimonio.

Com'era ovvio che fosse, fu Holmes a continuare: «Adorava le storie che le raccontavo quando prendevamo il tè pomeridiano. Poco le importava se quelle contenessero retroscena un po' loschi e affatto adatti a un ragazzino che giocava tutto solo oltre i confini della propria tenuta, sempre a caccia di orme e misteri su cui far chiarezza. Mia madre non era una donna impressionabile. Ma se c'era una cosa che per davvero temeva più di tutte... era la morte».

Trattenni inconsciamente il respiro pur senza provare fastidio alcuno, e non parlai. Mi obbligai al silenzio più assoluto, quasi come se temessi che tali fulminee rivelazioni potessero fare marcia indietro impedendomi così di scoprire fatti nuovi sul passato di Lawrence.

«Un giorno eravamo in carrozza diretti a fare un pic nic. C'era il sole al di fuori, o forse qualche piccola nuvola innocua. Ricordo il vestito di mia madre, bianco coi fiori tinteggiati di un delicato azzurro indaco. E poi il lago... E la piccola Enya...».

Il ticchettare delle sue suole s'interruppe inaspettatamente, e così anche il mio. Dopodiché, Lawrence scomparve dalla mia visuale ma solo per rivederlo, poco più avanti chino, raccattare un giornale da terra, dapprima aperto con le pagine che il vento pensava a sventolare pigramente.

Da quello constatai come il magico momento, quasi religioso, di cui era stato colto il ragazzo fosse di già sparito. Se prima avevo osservato un ragazzo raccolto in atteggiamento totalmente immerso in un qualche ricordo particolare, adesso mi era quasi impossibile riconoscerlo sotto quella nuova (ma non del tutto) versione di vampiro distratto da un non so che di curioso.

Ne seguii il gesto ansioso di spulciare tra le pagine punteggiate da chiazze umide, e in mezzo alle quali vi infilò poi letteralmente il naso dritto. Dopo un breve momento di lettura e borbottii sommessi rivolti a se stesso, mi fece finalmente onore della sua attenzione.

Mi rifiutai di toccare l'oggetto cartaceo per via della sporcizia di cui era impregnato, perciò fui costretta ad accettare di leggervi scomodamente su mentre Lawrence lo reggeva per entrambi.

Al di sotto di un paio di trafiletti dall'inchiostro sbavato e ormai piuttosto illeggibile, l'annuncio informava a caratteri cubitali:

La compagnia circense The Barnum and the Baley torna ad attraccare ancora una volta a Londra!

Accorrete e lasciatevi sorprendere dalle incredibili attrazioni...

«Non questo, Enya!».

Interruppi la mia lettura ad alta voce, facendo scivolare le pupille un po' più giù laddove il lungo indice di Lawrence mi indicava di proseguire.

Avevo distolto a malincuore l'attenzione dalla dettagliata locandina raffigurante cavalli e cagnolini saltellanti, acrobati volanti, uomini tanto bassi e minuti da apparire bambini e una donna dal viso completamente nascosto da lunghi capelli talmente lunghi e folti da farle da strascico.

Il diverso titolo riportava:

FRANK PICKFORD, QUEL SANT'UOMO CHE NON FU!

Furti di cadaveri per il bene della scienza.

"Sul noto, e così giudicato integerrimo, professor Frank Pickford, insegnante all'interno dell'università di Westminster, sono state fatte delle scoperte a dir poco sconcertanti e di assai dubbia moralità, e che vedrebbero lo stesso uomo come diretto interessato in diverse inchieste risalenti a soli due anni fa e ancora aperte circa furti di cadaveri all'interno di ben tre cimiteri, tra cui rientra l'ultimo che in queste precedenti ore fa parlare la stampa per la storia delle zucche intagliate.

L'uomo, visto secondo alcune fonti oculari durante le passate incurisioni nei cimiteri mentre s'aggirava munito di pala e lanterna per far fronte a ciò che affermava essere "atti utili e indispensabili ai fini della scienza anatomica", pare tuttavia non essere l'artefice dell' ultimo fatto di trafugamento avvenuto solo pochi giorni addietro, essendosi poco prima trasformato egli stesso nella vittima di un brutale omicida. I medesimi fatti avrebbe dunque permesso alla polizia di scagionarlo dalle accuse.

S'indaga in queste ore sul possibile responsabile delle zucche di Halloween e sulle curiose e inquietanti circostanze della morte dello stesso Frank Pickford. Il primo sospettato, un certo Bob Jones e operante come sorvegliante nel piccolo cimitero appena fuori le porte di Londra, risiede tenuto strettamente d'occhio dagli ufficianti di Scotland Yard. Jones, uomo di cinquantacinque anni e americano di nascita, pare avesse proprio in quegli anni sopracitati difeso aspramente il suo posto di lavoro e poi denunciato le azioni perpetrate da Frank Pickford, ma solo dopo averlo rincorso per tutto il camposanto brandendo selvaggiamente un piccone e facendolo girare sopra la sua testa come un cowboy col suo lazzo.

Secondo un'intervista, il professore di anatomia ne era uscito estremamente impressionato."

Terminai la lettura con un misto di esaltazione e turbamento.

Di seguito, sulla pagina di fianco, la stampa aveva urlato:

Frank Pickord, povera vittima di conti in sospeso?

Ma l'uomo aveva rotto davvero i ponti coi suoi crimini passati?

Ladro di corpi o insegnante modello?

«Enya, ricordi il signor Codafolta e il suo continuo inveire contro Pickford poche notti dopo la notizia dell'assassinio?». Al quesito alzai gli occhi al di sopra della carta maleodorante per andare a incontrare quelli verdi di Holmes.

«Potrebbe voler dire che Bob avesse un conto in sospeso con l'umano?», azzardai riportando alla mente l'esatto momento dell'arresto di Bob all'interno del suo stesso cimitero. Sì, il custode aveva maledetto a gran voce e con denti stretti il professore universitario, e senza farsi scrupoli alcuni davanti al paio di poliziotti addetti alla cattura.

"Quel maledetto ladro di cadaveri!" aveva urlato Bob, il che aveva fatto supporre che proprio il custode conoscesse le vili azioni dell'uomo in questione, e che per questo volesse far capire a tutti quanto tenesse al proprio impiego in quel cimitero, suo rifugio durante le notti di luna piena, e perciò vietatissimo a dei ladri di corpi ormai morti. Ma perché confessare apertamente il proprio astio davanti a Scotland Yard piuttosto che tenerlo nascosto al fine di non attirare ulteriori sospetti? Poteva aver agito semplicemente d'impulso? Impulso da lupo!

«Stai insinuando che Bob avesse tutte le buone ragioni per voler vedere morto Frank Pickford, considerati i loro attriti avvenuti in passato?». Domandò spalancando ancor più gli occhi Lawrence Holmes.

Guardai il giovane con un attimo di smarrimento. Non ero io quella a creare insinuazioni che remassero contro l'innocenza di Bob. I giornalisti dell'articolo però inducevano a pensare quello e altro.

Ci scambiammo a vicenda un lunghissimo sguardo che voleva dire tutto e niente, finché all'unisono

qualcosa nei nostri rispettivi sensi da non-morti ci portò a scattare con la testa, simili a due cervi spaventati che captassero un pericolo.

Permettetemi il confronto, pur sapendo che compararci a due bestie di gran lunga più feroci sarebbe servito a rafforzare la nostra vera natura da succhia sangue incalliti. Ciononostante, non mi era mai facile sentirmi realmente potente quando al di fuori della mia casetta il mondo poteva rivelarsi un vero incubo anche per un vampiro grande e grosso come poteva esserlo, ad esempio, il patrigno di Lawrence.

Ci trovammo dunque in allerta, ancor più quando scorgemmo due figure incappucciate, e perciò tanto più misteriose di un qualsiasi altro londinese a faccia scoperta e passante per quella via, girare in tutta fretta un angolo vicino per dileguarsi all'interno dello stesso vicolo, e facendo a noi cogliere sin dall'inizio un particolare davvero molto eloquente.

In Neal Street, appartati al di sotto di un basso balconcino, i due zombie parlottavano tra loro a bassissima voce. Il lezzo che emanavano entrambe le creature dicevano tutto circa il proprio nutrimento che stava alla base della loro peculiare alimentazione.

Non osammo avvicinarci di più, e già da quella più che discreta distanza ci parve alquanto doveroso rimanere in ascolto. Sbirciai Lawrence messosi sull'attenti, chino appena sulla schiena e pronto a cogliere ogni frase sussurrata. Sorrisi tra me e me pensando a quanto simili eravamo, senza contare l'incredibile circostanza creatasi senza che ci fossero state parole espresse a voce alta. Per un qualche fatto arcaico e inspiegabile, Lawrence e io avevamo predetto la prossima mossa. 

«Non possiamo andare oltre, può essere pericoloso!».

«Sono a conoscenza di questo, ragazzo, ma non si tratta solo di te, la cosa riguarda tutti noi!».

«Papà, ascoltami attentamente... Tutto questo non è più sicuro. Per il bene della nostra famiglia dovremmo andare via da qui, lasciare Londra o magari la stessa Inghilterra. Conosco qualcuno che può aiutarci, l'obitorio non è un posto in cui vi entra solo gente trapassata. Mi è venuta un'idea, tu fidati di me e lasceremo Londra senza che più nessuno ci giudichi per quello che siamo».

«E i cervelli? Ci hai pensato a questo?», domandò con tono duro il più anziano di cui ricordavo bene il capo completamente calvo e serpeggiato da vene violacee.

Intanto, in quello stesso momento, qualcuno alle mie spalle si espresse in maniera totalmente inopportuna: «Una buonanotte a v-v-voi, Lawrence e s-s-signorina Atkins». Un sonoro Sssh! fu tutto ciò che fuoriuscì dalla mia bocca serrata pur tuttavia senza impedire ai due dei Moore di indovinare la nostra presenza silenziosa e ascoltatrice.

Il giovane mangiatore di cervelli non provò a ribattere al quesito posto da sua padre perché come fu ovvio fin da subito il terzetto di cui mi ero fatta partecipe vantava ora di tutta quanta la sua attenzione. Ci eravamo spinti troppo oltre, e lo sguardo che dedicò inaspettatamente al nostro indirizzo possedeva un non so che di accusatorio e insieme panico.

«Lawrence, che facciamo adesso?», mi preoccupai persino di chiedere al mio amico, che nel frattempo pareva essersi trasformato in un tronco di legno con le radici ben piantate nel terreno. Lo zombie di nome Charlie continuava a fargli paura, e io di certo non avevo dimenticato la reazione di Lawrence Holmes, quando in casa Moore se l'era quasi data a gambe di fronte alla stazza decisamente possente del primogenito della famiglia.

Coraggio o meno, Lawrence non riuscì comunque a ridestarsi e a tenere tanto a lungo lo sguardo su di sé dello zombie, ahimè, a causa della fuga istantanea della coppia padre e figlio, che avvolti nei loro lunghi mantelli scattarono in avanti in una scia di odori riconducibili al fetore putrido e rancido di carne cruda.

«Non possono scappare, ci nascondevano qualcosa!», urlò a mo' di una donnina isterica Holmes, colpendosi le guance come se la causa delle azioni degli zombie fosse interamente sua.

«Seguiamoli allora!», declamai allora ponendomi al comando della combriccola, alla quale si era andata aggiungendo anche un ignaro Nicholas Johnson, confuso ma contento di seguire la follia investigativa di due vampiri convinti di vedere chissà quali segreti e ambiguità celati in due completi sconosciuti.

Per nostra sfortuna, la corsa non poté che arrestarsi sul nascere, impediti ancor prima di inoltrarci in tal vicolo e metterci così alle calcagna dei pallidi fuggiaschi chiazzati d'azzurro e di viola.

Quella notte la sorte non intendeva esserci d'aiuto, ancor più quando l'uomo a cassetta della sua carrozza di piazza si concretizzò in un insieme cacofonico di zoccoli sulla pietra e rumori di ruote in movimento, e chiese al suo figlioccio cosa stesse per fare con me al suo seguito per quelle vie poco raccomandabili.

«Accompagno la signorina Atkins fuori Londra», questa la risposta diplomatica del ragazzo che non mi parve aver convinto più di tanto il signor Wayne Walker.

Un sorrisetto di circostanza fu il solo indizio da parte di quello che mi portò a comprendere ciò che più di errato e indecoroso stesse passando per quella testa sormontata dal nero cilindro; ma non vi potette fare o dire null'altro per via dell'umano gentiluomo a cui prestava servizio all'interno del veicolo e che sembrava contrariato per la brevissima sosta intrapresa dal cocchiere.

Sparì così in breve proseguendo per la strada, lasciando Lawrence, suo figlio, di umore terribilmente funesto.

«Accipicchia! Ci mancava solo mio padre! Ormai saranno già lontani», realizzò tristemente il vampiro.

«S-s-si può sapere c-c-cosa mai vi è preso?», andò domandando esponendosi timidamente il vampiro balbuziente.

«Cervelli! Ecco il perché di quel numero!».

Sottostai all'improvviso cambiamento di Holmes e mi chiesi sinceramente cosa per esattezza non andasse nel suo di cervello.

«Enya, proprio ti ostini a non capire?... Colpiscono defunti freschi di sepoltura! Gli zombie prediligono il cervello fresco!».

«Nicholas ti andrebbe di prendere parte alla nostra missione di salvataggio per il bene della licantropia?», chiesi sorridendo sfacciatamente ignorando intanto gli sproloqui continui che Lawrence Holmes articolava senza un nesso apparente davanti a un pubblico fatto di un solo sfaccendato barbuto che si limitò a guardarlo con tanto d'occhi e poi rispondendogli a tono con un gestaccio poco elegante.

Quella notte mi arresi anche al fatto di aver rimandato a malincuore la trama misteriosa della vita passata del mio pallido amico; ero curiosa di scoprire tutto il seguito della storia riguardante Catherine Miller, e chissà che non si trattasse di un medesimo triste epilogo. 

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