Capitolo 13


13.

Clessidra, velo squarciato e fantasmi fluttuanti

Giungemmo davanti all'imponente edificio interamente costruito in mattoni rosseggianti, in seguito a una nuova corsa in carrozza e a una seconda scappatella clandestina giù dal mezzo.

Il London Hospital, situato nel quartiere malfamato di Whitechapel, ci accolse subito dopo al suo interno. Cominciai a osservarmi nervosamente a destra e a sinistra mentre percorrevamo quei freddi e penosi corridoi ghermiti dall'eco di inquietanti urla. Le pareti che ci attorniavano non erano poi così spesse da nascondere i vocii, i pianti e i lamenti di quei tanti pazienti a ricovero nei propri letti.

Infermiere occupate a prestare servizio notturno, fra cui qualche suora, poco o nulla parevano badare a due pallidi quanto insoliti visitatori come d'altronde lo eravamo io e Lawrence Holmes. Solamente una di loro, una giovane e graziosa ragazza dai capelli biondi raccolti in una cuffietta bianca osò domandare: «Voi due, non ci potete stare qui. Vi siete forse persi?»

«Io e mia sorella siamo reduci di un lungo quanto burrascoso viaggio. Siamo stati informati circa le condizioni nelle quali cerca disperatamente di sopravvivere la nostra adorata madre».

«Ne sono addolorata», aveva dunque risposto la donna con tono sincero di rammarico. «Tuttavia le norme dell'ospedale vietano visite notturne all'interno della struttura. Vi prego di ritornare domani». Aveva poi continuato freddamente l'infermiera.

Lawrence mi aveva a quel punto afferrata per un braccio stringendosi a me in un vano tentativo di fingere disperazione.

«Sia come voi dite. Speriamo solo di ritrovare nostra madre ancora viva domani». Dalle sue parole non mi parve molto convincente. Come attore, constatai, non era un granché.

«Speriamo...», assecondai complice a capo basso. Le luci soffuse dell'ambiente celavano almeno in parte il reale colorito della mia pelle tanto chiara. Ci mancava solo passare per pazienti affetti da un qualche disturbo di gravissima entità, malaticci così come apparivamo.

Ci allontanammo quasi subito, vicini e a passo lento da dove eravamo arrivati, finché poi non mi sentii trascinare verso un'altra direzione.

Mi accostai silenziosa alla parete di un corridoio fortunatamente deserto. «Charlie potrebbe aiutarci», sussurrai all'orecchio di Lawrence. Lo sguardo di lui correva in varie direzioni sbirciando al di là dello svincolo.

«Ancora non possiamo fidarci. Ricorda, Enya, è tra i nostri indiziati assieme a tutta la sua famiglia, e poi probabilmente sarà già tornato a casa. Su, vieni!».

Col vestito che ingombrava pesantemente i miei passi affrettati, e di conseguenza anche quelli di Lawrence, celammo la nostra presenza spostandoci come ombre lungo le bianche e inanimate pareti, che rappresentavano un labirinto intricato per chi, come Holmes, non pareva averci mai messo piede prima di allora.

I vampiri, è risaputo, non consultano dottori.

Non nego l'indiscussa sensazione di timore unito a un medesimo fermento interiore che avvertivo nell'agire di nascosto in un territorio totalmente calpestato da esseri umani. Il tempo, sabbia incessabile in una clessidra a noi nemica batteva sulle nostre due teste prima che il sole e i suoi raggi nocivi si infrangessero definitivamente sul mondo.

Dopo minuti che mi parvero eterni, svolte e continui rallentamenti, una porta affiancata da un'insegna in ottone presentava la scritta "Obitorio" il che portò me e Lawrence a gioire silenziosi, anche per tutte le quattro rampe di scale scricchiolanti che conducevano in fondo verso una luce soffusa. Lanterne sospese alle pareti del piccolo ambiente sotterraneo illuminavano un groviglio di corridoi al di sotto di quel suolo umido, e in breve ci condussero verso uno stretto corridoio convergente verso un'unica soglia a due battenti di pesante e solidissima fattura.

«C'è un silenzio di tomba», convenni rivolta a Holmes, al contempo spalancando le orecchie verso ogni più piccolo suono che poteva provenire dal di dietro delle nostre spalle.

«Il chirurgo deve aver terminato il proprio turno, a meno che non sia passato a miglior vita insieme ai suoi cadaveri».

Scacciai all'istante quella astrusa come pure non impossibile teoria tastando per prima la concretezza della soglia scrostata in verticale. Poi, certa dell'assenza di rumori o anche solo di un umano sfarfallare di cuore pulsante all'interno varcai quella stanza dedicando alla spinta molta più forza di quanta ce ne fosse bisogno. Cosa strana, nessun tocco di una chiave a bloccarne l'apertura, il che parve subito curioso a entrambi.

«Sono cadaveri, Enya, e di mostri di Frankenstein ce n'è uno solo», mi rimbeccò con una punta di saccenza il vampiro, frenando poi tanto in fretta la lingua per andare a contrarre tutti insieme naso, fronte e labbra.

Feci allo stesso modo correre una mano a coprirmi il naso mentre una smorfia di ribrezzo si presentava anche sul viso del giovane a me vicino. A dirla tutta il povero Lawrence pareva sul punto di rigettare via dal suo corpo anche l'ultimo residuo della sua anima, ma il suo colorito non mutò, né entrambi corremmo via a una disperata ricerca di un secchio o di un catino. Restammo ambedue come pietrificati, l'espressione di chi ha ingurgitato la più amara delle medicine. Da mia parte contorcevo spessissimo il naso, nauseata dall'odore insopportabile di decomposizione e cercando al contempo di immaginare, Dio solo sapeva, cosa si potesse celare al di sotto dei molti lenzuoli bianchi sparsi per la camerata.

Là dentro, dove il fetore di un decadimento perenne pareva impregnare ogni muro di pietra scura, seguii Lawrence nel muovere dei nuovi ma lenti e insicuri passettini fin quando per un qualche sentore d'istinto o più semplicemente guidati dal caso, sostammo intorno a un primo tavolo sudicio sopra il quale la sagoma di un corpo supino veniva coperto da un medesimo lenzuolo e il cui bianco doveva aver vissuto tempi migliori. Grosse chiazze scarlatte decoravano il panno insieme ad aloni giallognoli che emanavano effluvi sia di morte che di ben altre, ma ugualmente pungenti alle narici, sostanze. L'odore persistente di composti chimici infettava l'aria tutt'intorno.

«Non vorrai farlo davvero?», domandai sebbene già potessi prevederne la risposta.

«Un bravo detective sopporta ogni tipo di odore se ciò può servirgli al fine dell'indagine. Nell'olfatto, così come nella polvere, è contenuta eloquenza». Andò così spiegando Lawrence a voce nasale cercando di frenare, ma non così bene, un tremulo nella gola. Il ragazzo boccheggiava persino, ma non per l'odore; tutto in lui pareva sul punto di crollare. Neppure i non morti smettono di temere la morte e la sua vista, e noi, dopotutto, eravamo soli ragazzini.

«Sono tutti morti! È un obitorio... Cosa ci può essere di più eloquente dell'odore della morte?», ribadii con fermezza sottoponendomi all'occhiata dolorante sebbene ostinata del vampiro.

Intercorse un lungo momento di titubanza, nel quale parole e pensieri si miscelavano in un silenzio assordante. Continuavo a chiedermi perché fossimo lì dopo aver constatato a riguardo quanto fosse difficile anche solo sollevare un lenzuolo. Lawrence, infatti, s'ostinava a tenere un piccolo scorcio di lembo sollevato a mezz'aria senza tuttavia trovare il coraggio di scoperchiare definitivamente quella sorta di velo, che solo per poco ci separava da un mondo dal quale le anime mai vi facevano ritorno.

Curioso, pensai. Esattamente in quella notte, il velo che doveva servire da porta per l'aldilà si soleva pensare potesse dischiudersi, reso fragile quel tanto che bastava a creare un portale d'ingresso alla terra dei vivi per le anime defunte.

All'ormai superata mezzanotte, con lo scoccare della lancetta di quel 1° novembre, l'obitorio doveva essersi riempito di tanti fantasmi fluttuanti. Con tutta probabilità erano lì a osservarci.

☆☆☆

NOTA DELL'AUTRICE

Vorrei consigliarvi questo contest interessantissimo al quale partecipo : )
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a cura di black_bourbon87 e Allen_Ligios

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