Capitolo 12

12.

Monelli, cocchiere e visita di cortesia

Le porte di Londra ci accolsero come la notte precedente sotto le sembianze di una donna vestita di grigio e contornata da una fitta aura di nebbia. Tenevo le mani chiuse intorno al tessuto spesso della mia gonna che tuttavia non riuscii a impedire di imbrattare di acqua stagnante, fanghiglia e altro materiale pronto a ostacolare il cammino di signore agghindate con strascichi. Prestai attenzione a una giovane mendicante vestita di stracci e che teneva in grembo un bambino, elemosinando in un angolo della via. Pregava chiunque le passasse di lì accanto, biascicando parole imploranti. In quel momento una mano stretta intorno al mio polso mi spinse all'indietro e la sagoma nera di una carrozza mi occupò la visuale. Sbattei le palpebre assumendo un'aria interrogativa, sorprendendomi poi di come Lawrence non avesse abbandonato la presa su di me. Un velo di imbarazzo lo raggiunse poi non appena fu conscio della piccola disattenzione.

«Direi che il tempo è prezioso. Con una carrozza ci impiegheremo meno». Spiegò indicando la vettura.

«E con quali soldi intendi pagare?», chiesi ironicamente tenendomi lontana dalle orecchie dell'uomo baffuto seduto in cassetta.

«Hmm... Un modo lo troveremo». Mi ammiccò in tutta sicurezza facendo un passo indietro e, per mezzo di un inchino, invitandomi a salire. «Dopo di voi».

Lo guardai divertita introducendomi per prima nell'abitacolo della carrozza che non sapevo quando l'enigmatico Holmes avesse chiamato. Un odore acre di tabacco mi colpì in piena faccia. Dopodiché, accostata al finestrino, potei tornare a osservare la donna mendicante dall'altra parte della vettura nell'atto materno di allattare il suo neonato al proprio seno. Il pianto continuo del piccolo però, insieme all'espressione addolorata della madre non faceva pensare a niente di buono. Se la donna non aveva di che nutrirsi, come avrebbe potuto provvedere anche al piccolo?

«Portateci al civico 17 di Short's Gardens, per favore!>>.

Uno slancio in avanti e il trottare dei cavalli diede il via all'inconsueto viaggetto notturno. Da che ricordavo, da molto tempo non avevo più messo piede all'interno di una vettura di piazza, e passeggiate che non fossero sulle mie gambe mi erano concesse grazie a un piccolo calesse compreso di cavallo maculato, entrambi doni di gratitudine di un signorotto di campagna al mio patrigno. L'uomo in questione aveva fatto dono di tal mezzo come omaggio a tutte le volte in cui il bravo maestro di violino aveva offerto, e in modo del tutto gratuito, lezioni di buona musica alla sua giovane secondogenita.

«Non esistono le coincidenze». Sentii mugugnare tra sé il mio vicino di carrozza, che intanto aveva riagguantato la copia riciclata del giornale, lo stesso dietro cui s'andò a nascondere il visino delicato.

Sorvolai sopra quella pensierosa affermazione per dedicarmi alla svolta e alle frenate che il conducente era solito effettuare con lo scopo di scansare, raggirare, e il tutto senza, come successe un paio di volte, badare a chi si ritrovava a sbarrargli la strada, sia esso se fosse un bambino, un ubriaco o un cane randagio. Ogni cosa che si muovesse, o che osasse attraversare la strada senza porre particolare attenzione, mancava poco ci finisse secco secco senza troppi complimenti. A questo proposito un ometto dai lineamenti rugosi e di poca educazione ci sbraitò dietro recitando un vasto repertorio di parole che avrebbero fatto ancor più impallidire la mia cara madre.

«Tutta questa storia non fa che assumere fattezze misteriose, persino tu sembri esserti trasformato in un enorme punto interrogativo», scherzai su mirando l'eccelsa serietà di Lawrence Holmes.

«E questo mi rende di conseguenza affascinante?». La domanda del giovane assunse connotati inattesi.

«Era un modo di dire! La tua faccia è pur sempre la stessa, pallida e liscia come quella di un bambino», asserii ridacchiando e subito dopo abbassando lo sguardo. «Ti manca non poter invecchiare?». La sputai lì come niente mentre una schiera di ingressi abitativi tutti uguali, ognuno con un numero a intervallarsi sulle porte somiglianti, mi scorrevano davanti agli occhi.

Lawrence parve rifletterci su, ma a parte un distaccato: «Ecco, direi che qui può andar bene», che di primo acchito non capii, niente mi fu dato da intuire circa la reale verità di quel suo modo di vedere la questione.

A ciò seguì un momento di silenzio, poi, prima che potessi anche solo prevederlo, l'impensabile accadde, e Lawrence si ritrovò con un balzo agile a saltar giù dal mezzo in piena corsa, atterrando col giornale sempre stretto sulla pietra umida e sporca della strada. La cosa avrebbe funzionato anche per me se solo un lembo della mia sottoveste non si fosse sciaguratamente impigliato da qualche parte nell'abitacolo, facendo così scoprire quella piccola malefatta all'umano vetturino. Una volta fuori, tirai dritto senza badare a cosa con esattezza avesse causato lo strappo del lembo dell'abito, perché in quel seguente frangente correvamo come due comuni ladruncoli di strada inseguiti dalla voce lontana del cocchiere che ci urlava di fermarci.

Immaginai di assomigliare a uno dei monelli di strada di cui il noto Charles Dickens raccontava nei suoi libri. Non era di certo cosa buona e giusta, eppure in quel momento, tra la gonna che tentavo più e più volte di allontanare dalle scarpe, una strana forza vitale mi infiammava dall'interno.

La mia risata si spanse per la via stretta e silenziosa di tal quartiere di ceto medio basso, dove gli unici testimoni che parevano accompagnare le mie risa furono una serie di zucche rintagliate per l'occasione, svuotate al loro interno e riempite di fiammelle tremolanti. Coi loro sorrisi sbilenchi parevano sogghignare tutte insieme e in un modo molto poco confortante.

L'uomo che ci accolse sulla soglia del numero 17, non risultava, a mio immediato pensare, tanto più rassicurante delle zucche di Halloween. Al mio silenzio seguitò il sorriso gioviale di Lawrence a cui, allo stesso tempo, si accodò il vocione cavernoso del pallido padrone di casa: «Ma chi abbiamo qui? Il mio figliolo si è finalmente deciso a portarmi dentro casa una ragazza! Ah!».

«Papà, ti assicuro che non è come la situazione possa invogliare a farti credere», si affrettò a contraddirlo suo figlio tendendo le mani avanti in segno di imbarazzo.

L'uomo, al contrario, pareva insistere su tal punto, così tanto da abbandonare la soglia del suo abitacolo per portarsi a solo un palmo dal mio naso. Il volto liscio ma butterato sulle guance pendeva in strati di pelle grassocci sui lati degli zigomi arrotondati, mentre due occhi rotondi e ben vispi spuntavano al di sotto di due folte sopracciglia ingrigite. L'insieme mostrava un vampiro, ma prima di quello l'umano che prima era stato, alla mano oltre che poco avvezzo a dei gesti galanti; un tipo semplice e dai modi pacifici, ma che soleva giungere a sbagliate conclusioni con il tipico candore di un uomo grande e grosso con una mente ancora un po' orientata verso un mondo ingenuamente fanciullesco.

Se non avessi saputo trattarsi di un patrigno, mai e poi mai avrei azzardato a una potenziale parentela tra l'omone sgraziato e panciuto che mi scrutava divertito e il ben più improntato sulle arti musicali e poetiche, anche se un po' sgangherate, Lawrence Holmes.

«La signorina qui presente è la figlia di Mr Benedict Atkins, il maestro di violino di cui ti ho parlato. Siamo diventati amici e al momento seguiamo insieme un'indagine». Spiegò imperterrito Lawrence cercando di apparire convincente almeno quel tanto che bastava per persuadere il patrigno a levarmi gli occhietti di dosso.

«Be', lo dicevo io che non poteva trattarsi di una ragazza qualunque! Sapete, signorinella, mio figlio non è proprio uno di quelli che se ne va in giro a sbirciare sotto le gonnelle delle signore, ma più di tutto sa tenere i suoi canini a bada. Per mille bicchieroni di sangue se l'ho educato proprio bene!», esclamò battendosi fieramente il pugno destro sul petto ampio, come simbolo di orgoglio paterno.

«Oh, non ne dubito». Assecondai di rimando ridacchiandoci nervosamente su.

Distratta poi dalla grossa zucca sorridente che occupava uno dei gradini non mi accorsi di Lawrence e di cosa farfugliò in fretta e furia per lasciar meglio intendere a suo padre il volere a metter fine a quei preamboli. Fu così che l'interno della casa del signore, che sapevo chiamarsi Wayn Walker, e del figliastro goffo violinista si palesò per la primissima volta ai miei occhi.

Arredato secondo gusti rustici e spartani, il primo piano mancava di un'evidente mano femminile, di quel tocco in più di ordine e signorilità. Assenza che vi notai mostrarsi a iniziare dai cuscini ripiegati su se stessi, un caminetto crepitante ma sporco di cenere e fuliggine anche oltre il para scintille, e dall'insieme di gingilli e oggetti vari fra cui attrezzi campagnoli appesi lungo la parete principale come trofei messi in mostra.

Le mani callose dell'uomo, dall'aspetto ruvido e mancante di cura, potevano, a ben pensarci, appartenere a un contadino o a un pescivendolo di mestiere, finché la risposta al mio quesito mi arrivò puntuale.

«Cosa posso dire, ragazzini... Il lavoro mi aspetta. Lawrence, figliolo, mi auguro che non farai mancare nulla alla bella signorina, perché se così non sarà, la mia frusta non ti darà tanto piacere in corpo». Andò dicendo Walker in tono vagamente minaccioso, un ghigno con tanto di denti affilati stampato in faccia. Poi, sparendo per un momento in uno stanzino in fondo alla stanza, riemerse infine nei panni di un altro individuo, agghindato com'era di un lucido cilindro calcato in testa e mantello nero ad avvolgerne per intero il corpo robusto. Mi fu dunque chiara la reale professione del vampiro.

«Stai tranquillo, papà». Lawrence non pareva spaventato dalla minaccia appena ricevuta, ma mi fu chiaro come non ce ne fosse affatto bisogno. Il buffetto affettuoso che il signor Walker elargì sopra il capo bruno del ragazzo mi portò inevitabilmente a sorridere.

«Una buonanotte anche a voi, figlioletta del maestro di violino», espose rivolgendosi a me quando mi fu vicino. «Consiglio a Mr Atkins un paio di tappi di sughero nelle orecchie. Non è poi così in gamba il ragazzo».

A quel punto trattenni la risata che sentii sgorgarmi dalla gola all'ascolto dell'uomo. Non fu facile impedirmi di ridere, e il silenzio che calò nell'ambiente seguendo la scia del deciso tonfo della porta, che si chiudeva alle spalle del cocchiere, non aiutò certamente nell'impresa.

«Devi scusarlo... È un po' arrugginito con la grammatica, ma è un uomo buono a cui devo tutto». Mi sorprese Lawrence Holmes. Il suo sorriso intriso di un leggero imbarazzo mostrava tutto il bene che provava per quell'uomo, con cui sangue in comune nulla vantava ma che non per questo non valeva ugualmente la pena chiamarlo papà.

«Non c'è bisogno di scuse, sono sicura che sia un brav'uomo». Sorrisi a mia volta, convinta di quel dato di fatto.

«Be', ci siamo. Ti do la benvenuta nella mia umile dimora», annunciò poco dopo in tono basso e timido impugnando il rotondo pomello di una porta alla sua destra, la quale si aprì cadenzando un cigolio di cardini non oleati.

Mi affrettai subito a sbirciarci all'interno, laddove un tappeto rotondo di un rosso sbiadito dall'usura posto al centro della stanza dominava quello spazio un po' angusto esistente tra il letto e uno scrittoio, quest'ultimo affatto grande per contenere la moltitudine esagerata di scartoffie, giornali, fogli volanti e diverse cianfrusaglie che vi erano riposte. Notai un certo ordine in mezzo al caos apparente che chiunque avrebbe giudicato in negativo. Seguii l'incitamento di Lawrence a varcare quella soglia, e portai un primo sguardo un po' smarrito a vagare tutt'intorno.

Nel complesso nulla di così eclatante mi parve di vedere a prima vista, e, a parte una moltitudine incredibile di carta a decorare tutta un'intera parete, quel luogo sarebbe potuto apparire una comune camera da letto di un altrettanto londinese fermo ai suoi quindici anni.
Attesi che anche Lawrence facesse il suo ingresso e mi diressi curiosa verso lo scrittoio. Sussultai al suono di un'accesa risata proveniente dall'esterno della strada; non ero avvezza a tutti quei continui mormorii appartenenti ai numerosi cittadini che vi abitavano gli uni vicini agli altri. In verità, avevo fin troppo spesso immaginato Lawrence Holmes in ben altro complesso abitativo. Di sicuro non ci avrei messo la mano sul fuoco se solo mi fosse stato detto che un tipetto come Holmes occupasse una zona popolana come quella parte di Covent Garden.

Il suo aspetto da giovane damerino avrebbe indotto chiunque a pensarla diversamente. Tutto in lui, a partire dai suoi modi, sembravano discostarsi dallo sfondo popolano che vi stava oltre le imposte della casa.

«Sul serio, tieni la sua faccia qui dentro?», commentai con sfacciataggine e un sincero sbalordimento. Ovunque io guardassi, il ritratto a carboncino stampato su carta dell'uomo con la pipa occupava per intero la parete interessata.

«È il mio eroe, e un giorno riuscirò a dimostrare l'esistenza di una qualche parentela che mi lega al grande e illustrissimo Sherlock Holmes!».

«Forse sarà lui stesso a dimostrarlo prima di te», bofonchiai distrattamente allungando un dito verso la palla rotonda di un mappamondo, che iniziò a girare piano davanti ai miei occhi. Impossibile però non lasciarsi distrarre dal viso spigoloso e arcigno del famoso detective ritratto in diverse pose, e affiancato puntualmente col suo fido collega e amico, il dottor John Watson.

Non vi erano ulteriori motivi per cui dovetti domandarmi perché il giovane vampiro avesse scelto con tanto convincimento di mantenere il proprio cognome anziché adottare quello più che lecito del suo patrigno.

Mi fu chiaro come il cognome in sé fosse già una garanzia a quelle foto di ritagli di articoli, collezionati alla maniera di chi invece collezionava francobolli. Quel dettaglio non faceva che incrementare la sicurezza di parentela tra l'uomo con la pipa e il cappello da caccia e il ben più secolare e bevitore di sangue, Holmes.

Da mia parte ero stata ben felice di diventare una Atkins a scapito del nome di mio padre a cui sentivo di non appartenere. Per Lawrence, al contrario, più difficile sarebbe stato perché avrebbe significato dare un taglio anche a quell'unico legame con l'umano che tanto si ostinava ad adorare.

«Era questo di cui si trattava? Il tuo, forse, parente Sherlock Holmes tenuto nella tua camera come omaggio alle sue gesta investigative?»

«Non mi aspetto che tu mi capisca», ribatté Lawrence seccamente per poi sparire con tutto il naso e la testa in un cassetto. Portai lo sguardo su di una seggiola solitaria sopra la quale un violino in coppia col suo archetto se ne stavano ordinatamente posti. Ancora, fogli di carta scarabocchiati e una penna stilografica accompagnavano il quadretto. Chissà dove appuntava le sue poesie, mi chiesi.

«Ecco... Trovata!».

La lente d'ingrandimento mi fu allora brandita contro con fare trionfante, ed io mi ritrovai mio malgrado a non capire proprio niente di quell'acceso colpo di vita che impossessò il corpo freddo di Lawrence. Quello, infatti, mi passò davanti sferzando l'aria e, soffermandosi poi oltre la soglia in atteggiamento di attesa, mi disse: «Chissà se l'obitorio è davvero così lugubre come si pensi».

«Siamo giunti fin qui imbrogliando un povero vetturino per... quella?», dissi indicando l'oggetto che di certo nulla poteva offrire di più di quanto avrebbe fatto la vista portentosa di un vampiro.

«Certo. Pensavi forse si trattasse di una visita di cortesia?».

Non gli credetti neanche un po'.

Pensai che in tutta probabilità il giovane Holmes necessitasse invece di un qualunque chicchessia che lo seguisse assecondandolo nella sua folle impresa. Giocare a fare l'investigatore avrebbe dovuto comportare la presenza di un aiutante, un socio degno di nota capace di capirne le esigenze senza giudicarlo, oltre che di farlo sentire solo un po' meno solo.

Mi chiesi in quel momento se tal complice potessi mai essere io e se davvero fossi più o meno adatta a un ruolo di così eccezionale portata. Dopotutto, ero stata un'umana in passato, vampiro nel presente, ma non ancora invischiata in un gioco d'indagine.

La presenza della sottoscritta in quella stanza, dove tutto rappresentava la vera essenza del ragazzo, non era dovuta al ritrovamento di una sola lente d'ingrandimento. Il mio vero scopo era quello di osservare, giudicare in silenzio e accettare oppure no le stranezze del vampiro.

Fui in quel momento certa che Lawrence mi stesse offrendo la possibilità di diventare la sua complice.

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