Capitolo 10


10.

Batticuore, commediola e testa di signora

«È da un po' che non ci si vede, eh? Come sta tuo padre, ragazzo?».

Mentre Lawrence pensava a prendere parte al dialogo iniziato dall'uomo dal cranio rotondo e mancante di capelli, da mia parte girai lentamente il mio corpo per far scorrere gli occhi su ciò che mi circondava. La modesta abitazione, che altro non era se non una stanza adibita sia a cucina che a un misero giaciglio per la notte, veniva rischiarata dalla flebile luce di una lampada a olio e qualche candela posta alle finestre, quelle ultime piccole e sporche. A parte un lavello, un tavolo squadrato e qualche sedia, le quattro pareti grigiastre comprendenti di spifferi racchiudevano il quadretto domestico.

Nell'atto di assecondare la panoramica del luogo, mi ritrovai ben sei occhi dalle palpebre immobili, ferme in atteggiamento curioso, a osservarmi con molesta insistenza. Il disagio dentro il quale ero immersa diventò un cappio scomodo, tanto che, se avessi potuto ancora arrossire, ero sicura si sarebbe tramutato in fiamma rovente per il mio viso freddo e pallido, e perciò immune a quel fenomeno tipicamente da umana.

Inciampai nei miei stessi pensieri, impedita dal mettere fine a quell'assurda immobilità da parte delle tre zombie dai lunghi capelli e dalle vesti rattoppate e ingrigite dall'usura. Sono un vampiro, non un fenomeno da baraccone!, pensai.

«Se volete accomodarvi potete posare l'ombrellino dove volete, signorina», parlò la donna adulta, articolando le parole con estrema delicatezza.

L'unico vero zombie che mi era capitato di incontrare risiedeva nella mia mente, frutto di racconti saltuari che il mio patrigno, Mr Benedict Atkins, era solito dedicarmi dopo aver fatto una visita al London Hospital, luogo da cui provenivano le nostre scorte mensili di sangue.

Niente di fraudolento, lettori! Il mio papà vantava semplicemente di conoscenze fruttuose nell'ambito del suddetto ospedale, conoscenze che per quanto celate a orecchie indiscrete permettevano a noi tutti di sfamare la nostra fame. Mi era stato da ciò permesso di immaginare uno zombie, ma – credetemi quando vi dico – nulla di quello che mi era sembrato fino a quel momento fantasia avrebbe potuto superare la realtà che era.

Costituita da creature non propriamente notturne, la piccola famigliola in questione se ne stava rilegata ai margini della società, non diversa da noi vampiri o da un qualsiasi essere umano guardato male perché additato di peccare di miseria o di chissà quale oscura stregoneria. Facilmente riconoscibili per via di lividi azzurrognoli a solcare la pelle in tutto e per tutto paragonabile a quella di un cadavere morto da giorni, immaginai fosse raro uscire allo scoperto, specie di giorno, senza apparire meditabondi, vittime di una qualche malattia misteriosa ancora sconosciuta al mondo della scienza. I sobborghi del paese, dove altri esclusi trovavano conforto da giudizio altrui, risultavano, dunque, unico rifugio per altrettanti "diversi".

«Vi ringrazio, ma credo di essere a posto così. Sono Enya, molto lieta». Mi meravigliai da quanta facilità avessi osato dimenticarmi del mio vero nome sacrificandolo per un altro tutto irlandese che il mio amico Lawrence Holmes era solito appiopparmi senza neanche chiedermi il permesso.

«Siete come Lawrence?». Mi sentii domandare da una vocina candida e argentina proveniente da uno scricciolo biondo e dai grandi occhi grigi, che sotto di me si destreggiava in un sorriso dolce e timido tenendo, come una brava bimbetta ubbidiente, le manine dietro la schiena e dondolandosi al contempo sui talloni.

«Non essere maleducata! La signorina è un vampiro, certamente, mia cara Lucy».

«Siete la fidanzata di Lawrence?». Mi prese alla sprovvista la maggiore della prole, talmente tanto che l'intero ambiente sprofondò nel silenzio.

E mentre la madre lanciava un'occhiataccia a sua figlia, in aggiunta a rimproveri a suon di: «Mary! Che modi sono?!», Lawrence accorse ridacchiando rivolto alla zombie responsabile di tanta infondata curiosità. Il giovane, divisa la distanza con la ragazza dai capelli tanto biondi da apparire quasi bianchi, recitò come suo solito: «Una donna dal cuore grande sarà per me la giusta amante, sentimento e mistero deve lei accettar, e a lei, solo a lei, i miei versi voleran. Ma, ahimè, sì mi duole, contento io sto! ... E libero come un airone a indagar me ne andrò!».

Nei suoi toni non parevano esserci intenzioni suadenti, eppure guardando Mary, avrei giurato di scorgervi l'effetto contrario. La ragazza ci rimase piacevolmente colpita oltre che un bel po' imbambolata, da tipica donzella sognante alle prese con il suo primo batticuore. I modi di Lawrence, secondo un mio giudizio personalissimo, risultavano ingenui, col semplice scopo di dare uno sfoggio vanesio a quella sua propensione a far rime.

Giudicai l'espressione tutt'a un tratto inebetita della giovane zombie un tantinello esagerata, ma se davvero lo pensavo non lo diedi a vedere. 

A quel punto ero tutt'orecchi per quanto si accingeva a dire Lawrence, il quale visino magro e spigoloso trasfigurò in serietà la magia dettata solo un momento prima dai suoi versetti ritmati. «C'è un motivo a questa nostra visita e, se lo permetterete, vorremmo affrettare le cose», annunciò serissimo il vampiro, lanciando un breve sguardo alla finestra, chiaro riferimento all'alba di un nuovo giorno che da lì a qualche ora avrebbe fatto la sua ricomparsa. «Sono qui per una questione che riguarda il vecchio Bob Coda folta».

Attesi trepidante, nella speranza di una qualche reazione da parte dei quattro componenti della famiglia zombificata, ma nulla vi vidi. Una cosa però la avvertii, all'altezza della mia gonna: la piccola Claire che s'aggrappava con insistenza all'orlo pizzettato del parasole. Le rivolsi uno sguardo accigliato, per nulla severo per delle intenzioni tanto genuinamente infantili di una bimba, la quale in tutta probabilità non ne aveva mai visto uno simile.

Ciononostante, non mi diedi per vinta, e per mezzo di un debole strattone allontanai il parasole dalle piccole mani curiose dell'infante zombie, ponendomelo sottobraccio. Si trattava pur sempre del bell'ombrellino appartenente alla cara pro zia Elisabeth.

«Nessuno di noi mette piede nel cimitero di quel lupo senza scrupoli da anni. Perché volete saperlo?», rispose il patriarca con la pelata. Il cranio pallidissimo riportava delle vene bluastre a solcarne la pelle traslucida.

Io e Lawrence, quasi spinti da innata telepatia, ci scambiammo uno sguardo esitante, come se l'uno volesse invogliare l'altro a proseguire fino al nocciolo della situazione. Fu Lawrence a sganciare la notizia: «Qualcuno, solo poche ore fa, pare essersi intrufolato nel camposanto e abbia attuato un gioco macabro ai danni della tomba di un'anziana donna. Nessuno vi incolpa di quanto accaduto, ma, vedete, il povero Bob teme per suo lavoro, e furti come quello avvenuto - per l'esattezza di una testa - sotto il suo stesso naso non sono certamente rari. Crediamo però che questa volta il misfatto si discosti da un classico episodio di trafugamento di tombe, così come anche l'azione di un essere umano».

Il quartetto di zombie ascoltò con attenzione il discorso del vampiro, quest'ultimo portato avanti con estrema professionalità ma non senza un vago accenno di tremolio nelle corde vocali. Il fatto che avesse indietreggiato, come una constatazione di timore riverenziale, poteva dirla assai lunga circa la gigantesca caparbietà posseduta dal ragazzino.

Dovevamo forse aspettarci una reazione cruenta? Dopotutto, eravamo entrati in casa di un'intera famiglia di zombie con l'esatto scopo di trovare un colpevole.

Il patriarca dischiuse le labbra livide per potersi difendere: «Tra me e Bob ci sono state divergenze, nessuno qui riuscirebbe a negarlo, tuttavia se questo può soddisfarvi vi acconsento a perlustrare ogni angolo della casa».

«Noi portiamo rispetto per i defunti», s'intromise la moglie portandosi una mano ossuta sul cuore. Avrei voluto dirle che in qualche modo le credevo, poi, d'improvviso, la porta della stanza s'aprì alle mie spalle, accogliendo la figura macilenta ma ben piantata al suolo di un ennesimo mangiatore di cervelli. Il nuovo arrivato fece scorrere - com'era prevedibile - le pupille spalancate su me e un tesissimo Lawrence, rimanendo sull'attenti alla maniera di un perfetto predatore che si trovi a fare i conti con intrusi nel proprio territorio. Se avesse mostrato i denti ero pronta a seguirlo coi miei due bei e affilati canini.

La bellezza sfigurata dai segni della sua stessa natura invitava a saper cogliere alcuni tratti che potevano risultare piacevoli, molto più di altri, ma uno zombie rimaneva uno zombie, e il viso angelico del giovane in questione avrebbe continuato a destare ogni sospetto su una qualche forma di malattia cutanea, tralasciando aspetti più celati agli occhi, come il carattere o il timbro di voce caldo e vellutato. Del resto, anche il celebre Uomo elefante non era passato alla storia di quegli ultimi decenni per la propria dolcezza risiedente all'interno di un'anima che chiedeva soltanto rispetto e accettazione del suo essere deforme. Figuriamoci se, vampiri o zombie che fossimo, saremmo stati ben accolti per la nostra routine alimentare.

Sentivo ogni fibra del mio corpo tese come corde di violino, che s'andarono allentandosi non appena fummo tutti consapevoli che non vi era alcun pericolo.

«Guarda chi si vede... Lawrence».

Ancora una volta sfiorai l'invisibilità. Tutti conoscevano Holmes innalzandolo a principale attrazione di un circo, nessuno tuttavia sapeva chi fossi io.

Un accenno di primo vero interesse mi venne rivolto solo in seguito.

«Sono Enya... Enya Atkins!», spiegai tanto in fretta in preda alla balbuzie.

«Atkins? Non sarete la figlia di Mr Benedict Atkins!», esclamò sgranando gli occhi cerulei il nuovo arrivato mettendo qualche passo in avanti. Solo adesso mi accorsi della piccola cesta che aveva posato accanto ai suoi piedi. L'odore penetrante del suo contenuto mi allettò le narici.

Lo sguardo di accesa sorpresa e una linea di sorriso che gli si dipinse sul volto lo fecero apparire di gran lunga meno minaccioso di un attimo addietro. Finalmente un sorriso di enorme spontaneità mi fu concesso e fui ben lieta di saperlo tutto per me. Il nome di mio padre portava gioia non soltanto nel mio cuore e in quello di mia madre.

Annuii meccanicamente.

«... Il primo della vostra specie che abbia incontrato, signorina Atkins. Gentiluomo fino al midollo. Lo incontro spesso in obitorio per la consueta visita di rifornimento di sacche. È da lì che torno». Meraviglia fu per me ascoltare tali parole. Poi, rivolto ai suoi familiari disse: «Il patologo che assisto non vuole proprio saperne di salutare i cadaveri, e poi dicono che gli strambi siamo noi!». Con ciò, il ragazzo dimezzò la distanza recuperando la cesta da terra e porgendola a sua madre. «È tutto quello che sono riuscito a rimediare. Non è molto...»

«Sopravvivremo, caro. Ce la faremo». La donna dai folti capelli color cioccolato pensò a tranquillizzare suo figlio con aria dolcemente rassicurante. Alla vista dei due grandi grigiastri cervelli che spuntavano dalla cesta constatai non fosse assai raro che un defunto venisse seppellito mancante di cervello nel cranio.

Tutto in quella bella scenetta familiare alla quale io e Lawrence assistevamo in silenzio mi portava a vederne un'altra molto simile, di abitudini e di una non facile esistenza: la mia.

«Dunque, eri all'obitorio». Pensò Lawrence a inserirsi nel quadretto, che al contrario io non avrei saputo come interrompere.

Ricevetti però la spinta a volerne sapere di più. «Sei tu che aiuti mio padre con il sangue?», ribadii per una maggiore conferma.

«Faccio quello che posso, di notte mi risulta facile intrufolarmi negli archivi del sangue. Sono solo un semplice assistente. Il signor Wilson non si lascia certo intimorire da uno come me. A parer suo la mia presunta malattia non potrebbe nuocere ad alcun chicchessia in quel luogo già toccato dalla morte. Basta che me ne resti chiuso nella stanza e stia ben attento a non avere contatti troppo diretti col patologo. Contento lui contenti tutti noi, compresa la vostra famiglia, miss Atkins».

Per nessuna ragione al mondo avrei potuto dissentire a tale incontestabile verità, e se pure l'avessi fatto avrei rischiato di mettere in cattiva luce il mio stesso patrigno al quale dovevo ogni giorno l'affetto e un lauto pasto nelle brocche sempre piene.

Non fui capace di negare quel sottile filo invisibile che legava la mia esistenza a quei zombie, il cui pane quotidiano veniva rappresentato da scarseggianti cervelli da condividere tra tutti e cinque i membri di quella piccola ma affamata comunità.

La sopravvivenza della specie dipendeva da quei cervelli. Lo stesso potevo dire pur io che di sangue mi abbeveravo se volevo sperare di non impazzire o morire di fame e mai più rivedere una notte di luna.

«Qui non vedo teste di signore umane, Lawrence». Mi pronunciai con assoluta convinzione e mi preparai a lasciare la stanza e mettere così un punto a quella ridicola quanto inutile commediola.

«Aspettate, miss Atkins, di che state parlando?», domandò con candore il più grande dei fratelli.

«Vedi, Charlie, Lawrence e la signorina qui presente pensavano che qualcuno della nostra famiglia avesse preso parte a un trafugamento di tomba al cimitero di Bob Coda Folta». Pensò così a informare la padrona di casa al suo primogenito.

Charlie parve tutt'a un tratto pronto a sbroccare. Lawrence fece quattro passi indietro. «Cerchiamo solo di sopravvivere nella maniera più corretta possibile! Quel lupo mannaro non è di certo uno stinco di santo, ha dato a noi tutti filo da torcere in passato con la faccenda dei cervelli e tutto il resto, questo finché non ho trovato un lavoro con cui poter badare al sostentamento della mia famiglia e di altri».

«Vi chiediamo scusa. Non succederà mai più». Promisi, infine, tirando via con me Holmes dopo avergli arpionato un braccio con le dita.

Una volta fuori dallo stabile - certamente non proprio "stabile" nella maniera più letterale del termine - fui costretta a sorbirmi occhiatacce da un'umana a mal la pena vestita e dai capelli tanto crespi quanto un nido di vespe, oltre che da un Lawrence Holmes decisamente indignato, ma tutto sommato anche un bel po' rassegnato.

Prima regola di un'indagine: possesso di prove che permettano a un detective di incastrare il suo indagato. A questo proposito, dunque, le mancanze risultavano due: nessun detective a condurre un'indagine, nessuna prova a far sì che vi si facesse luce sul mistero.

Ci lasciammo alle spalle quel nido di mattoni fatiscente, silenziosamente sollevati ma al contempo insoddisfatti per l'infruttuosa riuscita della nostra ispezione ai bassifondi londinesi.

Nessuno dei due proferì una parola e la lunga passeggiata di ritorno non giovò a rinfrescare di certo la mia mente. Lo stesso non potei dire di quella di Holmes, che mi camminava vicino a capo chino e con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni. Chissà quali eccelsi pensieri racchiudeva quella complessa testolina da aspirante detective.

Riagguantai il pietroso sentiero maestro che mi avrebbe di lì a qualche metro ricondotta nel mio cottage a due piani.

Lawrence mi restò accanto come un'ombra in quello che fu un comunissimo gesto gentile che vedeva un ragazzo galante scortare un'esponente di sesso femminile fino al cancello d'entrata del suo cottage in campagna.

«Passa una buona notte, Lawrence, e cerca di tornare a casa più in fretta che puoi». Mi assicurai prima che uno spicciolo sorriso di rassicurazione si dipingesse sulle labbra del giovane.

Lentamente rientrai nella piccola ma accogliente proprietà di famiglia mentre con lo sguardo continuavo a seguire il vampiro rifare il percorso al contrario e allontanarsi assieme a quella sua camminata inconfondibile che sapeva proprio tanto di Lawrence Holmes.

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