Capitolo 1
1.
Violino, parasole e versetti
Osservavo, come già usavo fare da tempo, il biancore lunare che posava il suo candido mantello sul folto fogliame degli alberi, riuscendo lo stesso a distinguere colori brillanti e diversi fra i tanti di un piccolo sprazzo di mondo londinese così saturo di odori e sfumature troppo udibili ai miei sensi prodigiosi.
Poco lontano, il laghetto increspato dalla lieve brezza notturna sonnecchiava assieme a qualche pennuto acquatico, che placido si lasciava dolcemente cullare sulla cresta di quell'ovale specchio liquido.
Note di parole portate dall'aria della notte giunsero a un tratto a incuriosirmi l'udito, finché poi, a pochi passi dall'aiuola di violette che mi separava da quella bassa litania, sollevai l'ingombrante gonna per adempiere a un salto degno di competere con quello solito di una cavalletta. Il parasole, che ancora mi ostinavo a tenere aperto, rimase ben impugnato in verticale mentre con un solo e agilissimo slancio in avanti mi lasciavo accompagnare in avanti dalla brezza.
Tuttavia, una signorina per bene non avrebbe mai dovuto ostentare tanta forza e abilità permesse invece, per chissà quali dicerie maschiliste vittoriane, a forzuti omaccioni meglio adatti all'atletica.
In men che non si dica, avevo oltrepassato circa sette metri di terreno verdissimo e, senza perdermi in goffissimi attacchi di mancato equilibrio, atterrai con leggiadria, prestando al contempo attenzione a un piccolo gruppetto di lumache concentrate a mangiucchiare i bordi aguzzi di alcune foglie cadenti.
"... La luna che lui non vuol più riveder, brillerà più forte ancor, eroico cavalier!"
Rimasi in ascolto di quelle rime omaggiate tanto fieramente davanti alla splendente compagna luna; parole sensate nella loro genuina semplicità, belle ma senza alcun particolare valore poetico. Pensai che forse il proprietario di tale voce non si fosse tuttavia impegnato abbastanza.
"Col caso al qual signore indagherà, il maestro del crimine da Londra scappar più non potrà!"
Con nuove parole gridate al cielo, uno stridulo colpo d'archetto fece capolino dall'alto del grande albero colpendo prepotentemente i miei poveri timpani. L'inesperto violinista tentava forse di risvegliare tutta Londra? Immaginai che potesse essere un'idea possibile. Ciononostante, l'unica che in quel momento potesse averne davvero a che fare ero io, insieme a qualche animaletto ancora in piedi, costretto a scappare lontano dallo strumento infernale che il suo stesso musicista stentava a saper maneggiare.
Intanto costui continuava:
"Il detective e la pipa, l'aiutante e il suo taccuino, un gran fumo ed un camino, tè e biscotti su un piattino.
Fuma fuma e beve un sorso, il dottore e il coinquilino, un amico, sai chi è? ... È il detective, credi a me!"
Mi chiesi subito quale sorta di collegamento avesse mai potuto sperare di ottenere quel certo cavaliere allettato dal suicidio col detective fumatore incallito di tabacco - constatai da me - affetto da catarro e teinomane.
La figura avvolta completamente nel buio mi dava le spalle senza per cui darmi possibilità di vederla in faccia. Il ramo robusto della grande quercia da cui pendevano due gambe altalenanti, dava inizio alla propria decadenza di stagione, spogliando le sue dita sottili e nodose e formando un tappeto di fogliame ancora un bel po' misero alle sue radici. La prova che settembre stesse portando i suoi omaggi era ormai chiara.
"Il detective, compagno dei miei giorni, in quei vicoli di balordi tanto colmi riporterà la pace e la serenità, così che noi goder potremo di altri racconti del dottore a volontà!"
Inciampai e questa volta la mia prontezza di riflessi mi abbandonò tristemente. Urtai un sasso bello grosso che ruzzolò fuori dalle mie gonne a più strati, rotolando e facendo più rumore di quanto avessi immaginato. Tutto poi parve accadere tanto in fretta e io mi ritrovai con un violino a pochi pollici dai miei stivaletti, cascato giù dall'albero come una piuma neanche poi così leggiadra. Avevo avuto l'accortezza di spostarmi dall'omicida traiettoria brandendo il parasole pizzettato, giallo e nero, come se da quell'oggetto fosse dipeso l'arduo compito di aver salva la mia vita.
Poco più distante da me, un ragazzo pallidissimo se ne stava riversato su di un fianco fra i fili d'erba stropicciati, l'archetto stretto per un qualche miracolo ancora nella mano. Con lo sguardo acceso di curiosa sorpresa mi osservava attentamente allo stesso modo di chi incontra un qualche spirito levitante e lamentoso. Lo stesso avrei potuto dire di quello, bianco come un cadavere ma affatto dolorante nelle membra nonostante la caduta dall'elevata altezza. Egli, infatti, non lasciò che il tempo scorresse ancora che già si rimise in piedi con un balzo scattante, stiracchiandosi le braccia e ripulendosi le vesti con delle pacche decise sulle spalle e sulle cosce. Lo strambo individuo indossava degli abiti eleganti e puliti, camicia dal colletto inamidato, un panciotto nero che ben aderiva alla magrezza del suo busto, e una giacca anch'essa scura in perfetto pendant coi pantaloni, quelli tuttavia un po' più lunghi rispetto alla reale misura dei suoi arti inferiori, magri e ben dritti. I capelli, color ali di corvo come i miei, erano folti e scompigliati dal vento, e tanto contrastavano il livore di un volto liscio e che mai sarebbe stato toccato dalla crescita di barba.
Un vampiro agghindato come un giovane dell'alta società inglese era appena ruzzolato giù da un ramo, - mi piacque pensare - perché spaventato dal rumore del mio sasso guastafeste. Per lo meno Londra non avrebbe, almeno per quella notte, più patito i brutti sogni generati da tale scordata melodia gracchiata dal violino, che adesso giaceva fuorigioco. Una corda si era difatti spezzata crudelmente mettendo inesorabilmente fine al concertino, con tanto di poesiole strampalate al chiaro di luna.
Come sapevo che avevo davanti un non-morto? Ebbene, cari amici lettori, noi vampiri possediamo un certo... intuito per questo. In realtà, neppur io riesco a spiegarmi il perché, ma un preciso sentore d'allarme si fa vivo ai nostri sensi ogni qualvolta un nostro simile si figuri sulla nostra strada.
Ci basta osservarne i lineamenti, i canini un po' più lunghi del normale, i loro occhi affatto spalancati come invece succederebbe a un umano, che impedito da mancanza di luce, vagherebbe come un cieco, le pupille di grandezza ben maggiore che di giorno.
Semplicemente, questo giovane vampiro insisteva ad osservarmi con una naturalezza spigliata, che unita a una buona dose di marcato divertimento mi puntava come se in me vi avesse scorto la cosa più bislacca mai vista prima di allora.
Decisi per prima di rompere il ghiaccio, la determinazione non mi mancava certamente. Mia madre adorava questo mio lato mascolino, anche se a volte, non lo negava, avrebbe preferito di gran lunga che sua figlia, l'unica che avesse mai avuto, possedesse un'altra faccia ben più consona a una dama del mio tempo. Inutile dire quanto dissentissi aspramente.
«Sarebbe cosa di gran lunga buona e giusta se insisteste quel tanto che basta con lo studio delle parole al fine di migliorare la vostra vena poetica», consigliai, abbassandomi al suolo per poter recuperare il nuovo e bello Stradivari offeso da tale ingiusto trattamento. Lo esaminai più da vicino per dunque porgerlo al proprietario tirato in causa.
Le mani lunghe e affusolate, adattissime a fare musica, avrebbero tuttavia dovuto attendere ancora mesi per poterne finalmente maneggiare lo strumento.
«Deduco i raggi lunari nuocciano alla vostra pelle diafana, miss».
Bloccai inavvertitamente il parasole ancora aperto davanti ai miei occhi, osservandone la bella tramatura in pizzo nero come fosse la prima volta in assoluto. Un sorriso m'increspò le labbra, pensando a quanta perspicacia fosse già ben visibile tra le righe del mio coetaneo bevitore di sangue.
Tentai un secondo approccio, pensando che in fondo me l'ero meritato. Il ragazzo giudicava giustamente l'uso improprio del mio parasole preferito in una notte londinese qualsiasi.
«Mia madre insiste a dire sia da signorine raffinate».
«Il mio patrigno lo troverebbe raffinato tanto quanto lo è per lui un bicchierino di sangue appartenente a una donzella aristocratica».
«Mi permetto di dissentire, illustre Byron da strapazzo, ma la classe sociale non dà retrogusti cangianti».
Detestavo che ci si prendesse gioco degli umani alle volte. Nonostante quelli fossero l'unico mezzo di sostentamento per noi esseri non morti, nella mia famiglia strampalata ma basata su sani principi morali il sangue dei vivi veniva additato come un qualcosa da venerare, di conseguenza pure la razza che ne vantava il possesso nelle proprie vene non era da meno. Protezione e tanta stima veniva dedicata ai londinesi attivi durante la prima metà del giorno.
Non si gioca con il cibo, cercate di rammentarlo sempre, miei lettori affezionati.
Allo stesso tempo però soffermai la mia mente a una specifica parola da quel vampiro fuoriuscita precedentemente: patrigno.
Concessi in quel momento di aver già trovato ben tre punti in comunanza tra costui e la sottoscritta: la schiettezza, stessi gusti culinari e la mancanza di un padre vero. In verità, consideravo fin da sempre il mio patrigno una perfetta benedizione, e tutt'ora penso ancora non avrei trovato uomo ben più adatto a un ruolo tanto immancabile nella vita di una figlia.
«Voleva essere una battuta...», mi sorprese poi lo sconosciuto con apparente rammarico.
Il ragazzo pareva sinceramente dispiaciuto, il violino tenuto stretto in una mano, allineato sul fianco della gamba destra, e una voce appena sussurrata, che lo fece tutt'a un tratto apparire un bambino spaventato dal rimprovero di una madre severa. Timidezza vi notai in quei due occhi verdi come la terra durante l'autunno, con delle pagliuzze color foglia che tende al giallo e al marrone. Se mi fossi soffermata ancora un po', sono certa, avrei potuto avvertire odore di humus e terriccio, insieme a tanti altri mille profumi caratteristici di boschi e foreste.
Rimproverai a quel punto me stessa per tale mia mancanza di ironia. Non per quello mi arresi nel schernirlo ancora un po'. Cominciavo ad adorarlo.
«Non vorrei apparirvi scortese, ma il suono di un violino lo rammentavo più soave. Penso invece di aver udito lo squittio piuttosto angoscioso di un-»
«Topolino! Proprio così! Un topolino come quello con cui avete recentemente avuto a che fare, mia cara miss...»
«Ehm... Atkins. Eliza Yolanda Nerissa Atkins», risposi prontamente, decisamente allibita da quel dato di fatto che era l'aver indovinato qualcosa che mi apparteneva nel privato.
Da pochi mesi a quella parte, un nuovo membro era giunto a far parte della mia vampiresca famigliola, per l'appunto, un topolino tutto bianco e dagli occhi rossi come il sangue.
Adoratrice di animali, detestavo la violenza su di essi, e non perdevo mai occasione per dedicarmi ai meno fortunati. Cibo e coperte calde venivano elargiti ai poveri scriccioli tra cani e gatti randagi, oltre che a qualche topolino affamato di formaggio. Il ratto in questione era stato ritrovato, scheletrico e ricoperto da uno strato di sostanze maleodoranti e di natura immaginabile, in uno stretto canale di scolo freddo e squallido. Solo dopo averlo rimesso in sesto e ripulito alla meglio, scoprimmo tutti con sorpresa come il manto liscio e morbido della dolce creaturina presentava una bianca pigmentazione, con tanto di occhietti vispi e scarlatti.
Immersa in quel piacevole ricordo non mi resi affatto conto del poeta strampalato che, a pochi millimetri dal mio naso, pareva immerso in un'attenta e fantomatica ispezione del mio cuoio capelluto. Sollevato sulle punte per meglio sporgersi sulla mia testa - superava di poco la mia altezza - allontanò la sua figura con una certa soddisfazione.
«Briciole di formaggio».
Notai, dunque, il palmo di quello, dapprima portato sotto al naso ben dritto al fine di dar sfoggio di un annusatina degna di un segugio, che poi veniva posto nuovamente alla mia diretta attenzione.
Ammetto la totale confusione nella quale la mia testa roteava.
Il vampiro se ne accorse e prontamente giunse a una chiara e riflessiva spiegazione.
«Scagliette di formaggio squisitamente stagionato, miss Atkins. Il vostro amichetto squittente ha l'abitudine di rosicchiare il suo formaggio sul vostro capo».
Mi destai immediatamente.
«Perché mai proprio un topo?», lo sfidai.
«Oh, ma è così ovvio! Se si fosse trattato di un gatto, per quanto quegli esseri indemoniati e graffianti adorino appollaiarsi su ogni dove, non credo rientri propriamente fra la categoria "buongustai di formaggio", tanto meno un ben più adorabile cagnolino. Quest'ultimo penso sia piuttosto scomodo da tenere in equilibrio sulla testa, nonostante i vostri folti capelli potrebbero permetterlo>>. Portai le dita al di sopra della mia folta chioma che quella sera avevo deciso di non raccogliere cosicché ogni singola onda nera come la pece fosse libera di oscillare al vento senza alcun impedimento di forcine o nastrini. «Inoltre, miss, le suddette schegge di formaggio hanno una chiara e ben- ehm... Sì, insomma, sono state rosicchiate diligentemente da un roditore».
Constatai quanto le ultime parole scaturirono evidente nervosismo fra le dita lunghe e scheletriche del giovane. Non ho mai saputo il reale motivo, ma sono ben certa che quel contorcersi di arti sia stato dovuto a un imbranamento momentaneo dovuto alla scarsità delle ipotesi da egli stesso avanzate.
«E ditemi, prode poeta, di grazia, vi chiamate dunque Sherlock Holmes?».
Non ho mai dimenticato - lo stesso che poi col tempo ho imparato ad accettare - il modo in cui il vampiro strampalato fece scattare la sua schiena sull'attenti, facendo persino battere una scarpa lucidissima sul terreno erboso, alla medesima maniera di un cadetto che si trovi a salutare il comandante. Il violino con la corda rotta da un'estremità a vacillare nel vuoto mancava poco gli volasse via di mano a causa della foga dell'istante. Un defunto ritornato indietro dalla tomba non avrebbe saputo eguagliarlo in fatto di vitalità, che colpì il ragazzo come una freccia infuocata dritta nel petto. Pareva sprizzare vita da ogni foro del suo corpo freddo.
«Mi presento, miss Atkins, sono Sher-ence-lock Holmes! Per indagare sui vostri misfatti più oscuri, sempre che ne abbiate uno».
Nonostante la serietà della scena, un risolino spontaneo colpì le mie labbra, tant'è che portai una mano alla bocca al fine di frenare la risata nascente. Intanto il ragazzo mi osservava smarrito ma pur senza abbandonare la posa da perfetto soldato in carriera.
Non appena riagguantai quel po' di controllo che avevo in mio possesso contraddii: «Non credo sia il vostro vero nome». La fittizia identità da lui esposta non era altro se non una fusione messa lì su due piedi tra, immaginai, il suo vero nome e quello del proprio reale proprietario.
In risposta il mio pallido interlocutore portò il fiero portamento ad un grado sempre più basso finché pure l'ultimo residuo di quello scemò del tutto. L'imbarazzo aveva preso il sopravvento e io pensai che se davvero fossi stata tanto brava nel riuscire ad acchiappare il furbo scopiazzatore d'identità con le mani nel sacco, egli stesso non avrebbe mai sperato di eguagliare il grande e famosissimo Sherlock Holmes. Soddisfatta mi affibbiai alcuni punti di vittoria.
A quei tempi la fama del signor Sherlock Holmes da incallito investigatore più brillante di tutto l'impero britannico era sulle bocche di ognuno di noi, umani, vampiri e non solo. L'indirizzo di ubicazione dell'uomo e del fido assistente, il dottor John Watson, era il 221B di Baker Street.
Londra vantava finalmente di un genio vero e proprio tra la grande cloaca di altri essere umani ben più sfaccendati e incuranti del senso di giustizia.
«Accipicchia, pensavo di apparirvi convincente!», lamentò a gran tormento il giovane vampirello. «Non posso darvi torto, tuttavia... Il mio nome è Lawrence Holmes».
Lo rimbeccai subito con una smorfia ancora incredula.
«Vi dico che è vero! Il cognome è lo stesso che porto dalla nascita. Il mio vero padre era un Holmes, e credetemi se vi dico che penso proprio di possedere sangue di detective nelle mie vene non più calde! Ci pensate, miss Atkins, io un avo di Mr Holmes!».
Stavo per controbattere qualcosa, ma mi bloccai prontamente. Chi ero io, del resto, per smontare tali e ingenue convinzioni tipiche di un ragazzo adolescente, la cui età era destinata a rimanere tale e quale per l'eternità? A chi prendevo in giro, saremmo rimasti entrambi ancorati a un'età fanciullesca, senza avere mai più alcuna possibilità di diventare due adulti nel corpo, tanto meno di mutare entrambi la natura delle nostre menti adolescenziali.
Per quanto gli anni passino e il pensiero progredisca inevitabilmente in maturità, tanto spesso, me compresa, noi vampiri rimaniamo fermi e fissi come fossili, inchiodati al momento esatto della nostra trasformazione. A maggior ragione, dei fanciulli poco più che coetanei non potrebbero che assecondare le proprie fantasie tipiche della propria età anagrafica.
«Bè, Mr Lawrence Holmes, penso che Lawrence sia perfetto. Non avete bisogno di inventarvene uno nuovo. Mi piace».
«Il vostro no, per nulla. Non prendetela sul personale ma mi è troppo difficile ricordarlo per intero».
Ridacchiai nuovamente nonostante ben sapessi che quel solo atto di schiettezza potesse alle più schizzinose donzelle apparire decisamente una grave offesa. Io mi limitai a rivolgere a Lawrence un'espressione interrogativa.
«Enya fa decisamente a caso nostro!», esclamò dopo averci pensato un po' su. Immaginai gli ingranaggi della sua testolina un po' folle mescolare con frenesia delle lettere a casaccio per poi plasmare la parola definitiva.
«Enya? È irlandese!».
«Esattamente. Enya era il nome della mia cagnolina - è dunque un grande onore per voi -, ma vedete, se si fa l'anagramma delle tre iniziali dei vostri nomi artificiosi insieme a quella del cognome, Enya ci casca a pennello!».
L'entusiasmo di una tale scoperta contagiò miracolosamente anche me, e mi arrestai inavvertitamente a pensare su quanto Enya fosse il primo soprannome che mi avessero affibbiato sino ad allora. Mi piaceva, non lo negai, ma credo di non averlo mai detto a nessuno, compreso il vampiro che tanto credeva al suo grado di parentela con Sherlock - il vero e indiscutibile Holmes.
Dovetti ammettere in aggiunta quanto quel giovane dall'aria spigliata e simpatica si fosse già, da mia parte, accalappiato un certo curioso interesse.
La vita di un non morto sa essere così noiosa alle volte, e Lawrence Holmes pareva aver portato una ventata di aria fresca in quella notte un po' più viva delle altre.
A rafforzare tale mia teoria, il giovane stravagante, infettato un'altra volta da un attacco d'incredibile iperattività, voltò la testa per puntare gli occhi su qualcosa che si mosse più in là nell'ombra, molto probabilmente un animaletto notturno.
«Che grande occasione! Devo assolutamente inseguirlo!», si dilettò Lawrence in una performance teatrale più astrusa che talentuosa. Osservavo il punto esatto dal vampiro centrato, ma a parte dei fruscii null'altro vi captai. Sperai vivamente non avesse intenzione di bucare la vena di un povero animale sventurato.
Dischiusi le labbra per emettere suono, ma ne venni impedita da un suo: «Ne approfitterò per approfondire lo studio delle orme animali che questo enorme parco regala!».
Detto ciò, e con quanta incontenibile frizzantezza, Lawrence Holmes, poeta e violinista in erba, mi accennò un impeccabile inchino per poi sparire in una lesta e inafferrabile scia.
Per mezzo di una giravolta, esposi fieramente il parasole sotto i raggi della luna, e mi rimisi in marcia in quella notte ancora giovane, come la mente spensierata di quel giovane immortale.
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